La facilità di scambio universale,
raggiunta coi nuovi mezzi di comunicazione e la nuova legislazione sul
commercio, ha dato vigore a quelle economie locali e regionali che un tempo, se
pure non erano poste ai margini del commercio mondiale, erano costrette a fare
anzitutto riferimento all’ambito economico, politico e amministrativo nazionale
a causa delle barriere doganali, di un forte settore pubblico in economia e di
altre complessità.
Questa rivoluzione che apre le
frontiere al profitto e instaura nuovi rapporti economici internazionali, dà
vigore ai movimenti separatisti che vediamo agire specialmente in Europa. Questo ha come effetto il formarsi di una
frazione borghese locale con interessi suoi propri e che nel suo movimento
espansivo agisce in posizione conflittuale rispetto a uno Stato centrale il cui
debito pubblico diventa sempre più divorante e concorrente del profitto. Sfruttando
il particolarismo locale e il malcontento di altri ceti sociali, questi
movimenti rivendicano l’indipendenza, quantomeno amministrativa, in modo da
sottrarsi agli oneri, specialmente tributari, ben più elevati dei benefici che
riceve in cambio.
In tal modo queste regioni più
ricche e progredite rispetto al resto del paese, svincolandosi dalla morsa
dello Stato nazione e aggregandosi ad aree economiche ad esse più omogenee, senz’altro
vincolo che quello economico, potranno meglio concentrare i loro sforzi e le
loro risorse nell’ambito della contesa economica internazionale.
L’autonomismo locale segue dunque,
da un lato, l’impronta cosmopolita e disgregatrice data dal movimento del
capitale, ma dall’altro coltiva l’illusione di ogni nazionalismo, ossia quella
di poter reggere la forza d’urto della concentrazione e centralizzazione del
capitale, la sua necessità di dover rivoluzionare continuamente i rapporti di
produzione e quelli di scambio.
Nella contesa capitalistica l’idea
del frazionamento territoriale e dell’affrancamento amministrativo si deve
misurare con la tendenza più profonda dell’imperialismo, ossia con il
monopolio, innanzitutto quello finanziario che in pochi paesi concentra la
maggior parte del capitale liquido, e sono proprio le élite di quei paesi a
governare il mondo.
Da questo lato, il piccolo o anche
medio imprenditore veneto, catalano o slovacco, non può nulla, contro la
tendenza in cui s’è diviso il mondo, ossia quella di un piccolo gruppo di Stati
usurai che controllano le monete e i flussi finanziari e per il resto un numero
molto grande di Stati vassalli e debitori. E tuttavia, la ragione economica
dalla quale muove l’autonomismo è molto forte e non potrà che produrre
conseguenze.
Il leghismo di marca padana, di là
di ogni considerazione sulle figure ridevoli che ne hanno incarnato la
dirigenza, da un punto di vista politico non avrebbe potuto ottenere nulla di
concreto per vie pacifiche. A fare
muro è una classe dirigente, politica e burocratica molto stratificata, spesso
organizzata in clan e niente affatto amante dei cambiamenti, che ha ben chiaro che
concedere statuti di autonomia alle regioni del settentrione che ne sono sprovviste, significherebbe perdere in gran parte
il gettito fiscale che garantisce il loro parassitismo e la secolare immobilità.
A nulla serve, in nome di un campanilismo opposto, contestare permalosamente ciò
che si mostra come una realtà oggettiva (anzitutto contabile), e che come
realtà storica è stata descritta in modo impareggiabile da autori come Federico
De Roberto (non solo ne I Viceré),
Giuseppe Tomasi, Pirandello e altri.
Per quanto riguarda in generale i
proletari di queste realtà locali che rivendicano l’autonomia e/o
l’indipendenza in alleanza con la frazione borghese locale, ottenuto lo scopo
delle rivendicazioni autonomistiche, potranno ricavare qualche beneficio, ma
nel complesso la loro condizione essenziale non cambierà, poiché sia la
borghesia di Stato e sia la frazione borghese autonomista sono nemiche giurate
del proletariato. Ciò che invece interessa è cogliere in questa contraddizione
un altro dei nodi irrisolti del capitalismo, non ultimo di quello italiano.
.....imprenditore veneto......
RispondiEliminaUn pò di colore : i veneti che siano in Nuova Caledonia o nelle foreste canadesi tra loro parlano in veneto (anche con gli altri), sia che chiedano un gelato o stiano per acquistare la General Electric sempre in veneto parlano (anche ai massimi livelli non fanno un minimo sforzo di correggere l'accento). Proletario o imprenditore che sia. Veri interclassisti. Se dai del veneto ad un veneziano ti accoltella.
Il capitalismo non è potente è potentissimo ma prima che riesca a farci superare l'età dei Comuni, morti di fame ma morti di fame veneti.
(Catalani o slovacchi,problemi loro).
il suo è uno stereotipo che, come ogni luogo comune, ha un suo fondamento, e però resta un truismo.
EliminaLe faccio un appunto all'articolo: i Viceré di De Roberto non De Ruggero, per il resto e nel merito, illuminante come sempre.
RispondiEliminasaluti
AG
grazie, confusone con guido de ruggiero, il filosofo, e non è la prima volta!
EliminaSe l'orchestra la dirige la borghesia non è certo colpa sua, qualcuno glielo permette (noi).
RispondiEliminaPiccolo esempio ma credo che c'entri col discorso.
Discorrendo con diverse persone sulla riforma Job Act esce fuori che questa riforma del mercato del lavoro è necessaria per essere come le altre parti d'Europa, tipo Germania, Danimarca, e così via. Solo così ci sviluppiamo.
A parte la retorica dello sviluppo in bocca a renziani e simili, c'è gente convinta che diventiamo efficienti come i tedeschi con questa roba, o che avremo un welfare come gli svedesi. Certo, nei paesi scandinavi l'università pubblica è gratuita, finora, per dirne solo una, noi tenderemo ad essere come loro, con il problema del debito e tutto il resto, democraticamente in carrozza.
Ora, se un bel pò di gente la pensa così, compresa buona parte dell'intellighenzia, non si capisce perché la borghesia italiana non possa dirigere l'orchestra in tranquillità.
In ultimo, farei notare un particolare che rende l'idea secondo me dell'ipocrisia delle legislazioni nazionali sulla materia dei licenziamenti.
Nella carta dei diritti fondamentali europea all'articolo 30 c'è scritto del diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato.
I paesi europei devono sottostare a questa carta, ebbene un diritto fondamentale si traduce nelle leggi in una mancia, l'indennità. Pure nei casi di possibilità di reintegro, se non erro in paesi come la Germania se l'impresa è riconosciuta colpevole di licenziamento ingiustificato può scegliere lei, la parte colpevole, se reintegrare il lavoratore o dare l'indennità. Il colpevole sceglie, più di così che si vuole, per me è un delirio dovuto al fatto palese che chi comanda non è la politica ma il padronato ma un pò di fuffa per l'opinione pubblica ci vuole, alla salute dei democratici.
Saluti,
Carlo.
è proprio così, il disinteresse è pressoché totale
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