Pare – e non sembra sia scherzo – che ora anche la Cia e altri servizi d’intelligence siano stati
incaricati di scoprire quali siano le cause
della crisi economica. Eh sì, perché prima davano la colpa alla bolla
immobiliare, quindi alla speculazione finanziaria, che ad ogni buon conto
c’entrano con gli effetti della
crisi, ma ora, con il perdurare di essa, senza una prospettiva sulla sua fine,
ci s’interroga, come fa la Merkel, se siano sbagliate le teorie o se ci si sia
rivolti alla persone sbagliate. Da parte mia ho già risposto a tale
interrogativo: entrambe le cose.
Ma dobbiamo credere veramente che
questa gente che sta sui gradini altissimi della scala sociale non sappia qual è la causa
fondamentale della crisi capitalistica, almeno vagamente? Certo che lo
sanno bene, ma gli conviene parlare d’altro. E dunque, per svelare l’arcano in
termini che anche mio nipote che fa le medie possa comprendere, vedo di
rendere la faccenda assai semplice e pur tuttavia con il rischio, sempre
minaccioso, di volgarizzare un po’ troppo. Rischio che però correrò volentieri a favore della progenie.
Ieri commentavo il libro di quel
furbacchione di Thomas Piketty, il quale propone una migliore distribuzione
della ricchezza, con patrimoniali fino all’80 per cento. Ciò risolverebbe il
problema della crisi capitalistica? No, ma potrebbe, sul breve periodo,
alleviarla. Un po’ come i famosi 80 euro che (non nelle intenzioni, ché quelle
erano solo elettorali) si propongono di aumentare i consumi interni e con ciò
la produzione.
E dunque da questi due semplici
fatti descritti si capisce già che lor
signori sanno bene ciò che sanno tutti: se non aumentano i consumi, non
aumenta la produzione, se ristagnano gli uni è in crisi l’altra, con tutti gli
effetti collaterali del caso, quali la disoccupazione per esempio. E dunque per
quale motivo i consumi sono in calo? Anche a questa domanda c’è risposta negli
esempi di cui sopra: chi potrebbe e vorrebbe spendere non ha soldi per farlo.
Poi c’è un altro motivo, che ho già descritto in un post precedente e del quale
accennerò dopo.
E per quale motivo chi potrebbe e
vorrebbe spendere non ha soldi per farlo? La risposta anche in questo caso è
facile: perché la ricchezza non è distribuita in modo più equo. Questa però è
una risposta che coglie il fenomeno, ma non la causa.
La causa, anche in questo caso, viene sottaciuta. Per quale motivo è
sottaciuta? Per non gridare: il Re è nudo.
*
L’operaio lavora sotto il
controllo del capitalista, al quale appartiene il tempo dell’operaio (*). Il
prodotto del lavoro è proprietà del capitalista e non dell’operaio. Dunque, il
capitalista paga regolarmente all’operaio il valore giornaliero della
forza-lavoro e con ciò si appropria del suo valore d’uso; quindi, usa la
forza-lavoro per mettere in funzione i suoi mezzi di produzione e per ricavare
un prodotto che gli appartiene interamente. Riassumendo: la parte di valore
prodotta dall’operaio, oltre il tempo
necessario a riprodurre il proprio salario, resta in mano al capitalista.
Il risultato della produzione,
cioè del lavoro umano conforme allo scopo, è il prodotto, che nelle condizioni capitalistiche della
produzione ha un duplice carattere. Innanzitutto è una merce.
Che cos’è una merce? Un valore d’uso,
quale può essere un computer, un libro, una penna, una certa quantità di pane
oppure un’automobile, insomma un oggetto d’uso in cui si è oggettivato lavoro umano; ma in quanto merce ha una valore di scambio. In secondo luogo,
questa merce ha un valore maggiore
della somma dei valori delle merci (mezzi di produzione (capitale costante) e forza- lavoro (capitale variabile, salario) che sono occorse per produrla e per le
quali il capitalista ha anticipato sul mercato il suo denaro.
Dal processo di produzione della
merce il processo del lavoro è semplice mezzo del processo di formazione del
valore. Non tutti gli elementi che entrano nel processo produttivo però creano
valore, nel senso che il capitale
costante è la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione,
cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro (macchine, ecc.),
e che non cambia la propria grandezza di
valore nel processo di produzione. Il capitale
variabile, invece, è la parte del capitale (salari) convertita in
forza-lavoro che cambia il proprio
valore nel processo di produzione e che riproduce il proprio equivalente e
inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore.
Questi due fattori partecipano in
modo diverso alla formazione del valore del prodotto e, pur essendo entrambi
necessari, solo uno è fonte di valore.
Il valore del capitale costante si conserva mediante il suo trasmettersi al prodotto e cioè riappare soltanto nel valore dei
prodotti senza aggiungervi alcunché.
Ciò che trasmette al prodotto è ciò che perde nel processo lavorativo
attraverso la distruzione del proprio valore d’uso. In altri termini, il valore
di un tornio, per esempio, trasferisce in quota per unità di prodotto il
proprio valore, perciò si parla di “armonizzazione” del valore delle macchine.
Il valore del capitale variabile, mentre dal lato del suo specifico carattere
utile, col suo semplice contatto – dice Marx –, “risveglia dal regno dei morti
i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo”, in quanto
forza-lavoro astratta, tempo di lavoro
protratto oltre il punto della riproduzione del suo valore (salario), crea un valore eccedente.
“Questo plusvalore – scrive Marx – costituisce l’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei
fattori del prodotto consumati [nel processo produttivo], cioè dei mezzi di produzione e della forza
lavoro”.
Dall’estorsione del lavoro non pagato, cioè del plusvalore, ha origine la
disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. In definitiva, per farla
breve, da questa disuguaglianza ha origine la crisi, poiché dalla massa dei
valori prodotti in eccedenza (valore non corrisposta all’operaio), solo una parte viene consumata dalla
classe dei capitalisti e, per mezzo delle tasse, dalle altre classi. Dunque, la
ricchezza che viene accumulandosi, man mano assume proporzioni tali che dà
luogo alle crisi che appaiono nel fenomeno della sovrapproduzione. Ora
anche mio nipote sa che la sovrapproduzione (o il “sottoconsumo”, quale
rovescio della medaglia) è solo un fenomeno
della crisi, non la sua fondamentale causa.
Ecco dunque perché gli economisti
di “sinistra”, ossia quelli che vorrebbero riformare in un senso più equo il
capitalismo, chiedono una distribuzione diversa di quel plusvalore, in altri
termini chiedono una più “equa” redistribuzione dei profitti tra padroni e proletari.
Va da sé che i padroni non ci stanno, perché ritengono che la ricchezza prodotta
socialmente appartenga loro per diritto divino. E del resto, qui verrebbe in
ballo la questione del plusvalore
relativo, quindi poi la legge sulla caduta tendenziale del saggio del
profitto e altre cosette del genere che a mio nipote per il momento non
interessano. Ma per l’essenziale mi pare sia stato detto a sufficienza.
C’è un altro aspetto della crisi,
dal lato dei fenomeni e non delle
cause, di cui bisogna tener conto, è cioè che la produzione capitalistica non
procede secondo un piano, bensì a bischero sciolto, e ciò non può avere che
effetti discorsivi dal lato anche della domanda e dell’impiego delle risorse.
Ecco, per esempio, che vi sono milioni di automobili invendute, ma mancano aule
scolastiche, oppure le proteine necessarie ai bambini.
E noi, dopo quanto detto, possiamo
credere che lor signori non sappiano, pur in altri termini e secondo la loro
confusa terminologia, le cause della crisi capitalistica, cioè quanto è noto a
mio nipote? Intanto ci fanno credere che bisogna tagliare i servizi pubblici e
l’assistenza per trasferire risorse a favore degli investimenti. “Ma se –osserva
sbalordito mio nipote – mi hai detto che di merce ce n’è anche troppa, che
investiamo a fare?”. La risposta è facile: per produrre altro plusvalore,
ricchezza da offrire in olocausto agli dèi di questa benemerita e democratica società.
(*) Un tempo lo schiavo apparteneva al suo padrone. Oggi siamo tutti liberali, la cosa si è fatta più sfumata: al padrone appartiene direttamente una certa quantità del tempo di vita dello schiavo. Il resto del tempo gli appartiene indirettamente.
(*) Un tempo lo schiavo apparteneva al suo padrone. Oggi siamo tutti liberali, la cosa si è fatta più sfumata: al padrone appartiene direttamente una certa quantità del tempo di vita dello schiavo. Il resto del tempo gli appartiene indirettamente.
Avercene di nonne/zie così! :)
RispondiEliminaqueste cose possono giusto incuriosire i nipotini, ma alla gente non gliene fotte nulla. hanno in mente l'ultimo aifon e altre cazzate
EliminaE tuttavia, i pochi nipotini curiosi e attenti meritano un’insegnante come Lei.
EliminaNe beneficiano e beneficeranno in concreto: posso testimoniare, dopo quattro anni di assidua frequenza.
meriti senz'altro un attestato di benemerenza
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