Avvertenza: quello che segue è un
post abbastanza lungo, a suo modo tecnico, e perciò poco adatto a lettori
sbrigativi che prediligono, data la natura dei più giovani della nostra epoca,
il cinguettio piuttosto che la composizione, la stoccata rapida invece della
battaglia, lo stratagemma alla strategia. È un post scritto in una giornata
fredda e piovosa, quasi disperata, e dunque come conseguenza di essa. Nondimeno
può insegnare qualcosa d’importante, e non solo agli sbarbatelli.
*
«Il potere tende a corrompere;
il potere assoluto corrompe assolutamente»
(John Emerich Dolberg Acton).
È curioso come nascano i grandi miti
e si consolidino fino a diventare indiscusse nozioni collettive di storia. È
certamente il caso di Napoleone, la cui grandezza e genialità, non solo
nell’arte militare, è incontestabile tanto che non conviene modificare l’idea
comune, poiché non c’è nulla di tanto sconosciuto quanto ciò che è pienamente
noto. Perciò riesce spiacevole contraddire le opinioni comuni e il rischio
concreto è di apparire quantomeno saccenti (accusa eventuale della quale
m’importa un fico secco), specie tra coloro che d’abitudine intendono l’arte e
l’opera di guerra di Napoleone come creazione puramente personale e finanche
infallibile.
Ci ha provato a contraddire anche
Engels – eccellente e riconosciuto esperto militare – che pure aveva una
giustificata stima del Napoleone grande tattico. E che Napoleone fosse il
migliore generale della sua epoca non c’è dubbio, anche se, non solo a mio
parere, fu in non rari casi mediocre stratega, disattento organizzatore e politico
malaccorto (chiedere conferma a Talleyrand e Fouché, per esempio).
Inoltre, fatto non proprio secondario, privò deliberatamente i suoi marescialli e generali dell’insegnamento dei suoi metodi (basti dire che non istituì un corso di stato maggiore per i suoi ufficiali) che avrebbero reso possibili comandi autonomi (ma concorrenziali!) quando la lotta si presentò su più fronti. Come poteva pensare di controllare e dirigere 600mila uomini su un fronte di 800 chilometri con le comunicazioni di allora?
Inoltre, fatto non proprio secondario, privò deliberatamente i suoi marescialli e generali dell’insegnamento dei suoi metodi (basti dire che non istituì un corso di stato maggiore per i suoi ufficiali) che avrebbero reso possibili comandi autonomi (ma concorrenziali!) quando la lotta si presentò su più fronti. Come poteva pensare di controllare e dirigere 600mila uomini su un fronte di 800 chilometri con le comunicazioni di allora?
Engels descrive, tra l’altro,
della trasformazione subita dalla strategia e dalla tattica militari nel
passaggio tra i due secoli in cui operò Napoleone, e lo fa in modo
impareggiabile dal punto di vista del materialismo storico dialettico nel suo Anti-Dühring (ma quanti, anche in epoche
intellettualmente più forti di questa, si sono presi la briga di leggere
quest’opera scientifica e poi la Dialettica
della natura?).
Le cause principali delle
trasformazioni intervenute nei secoli nella tattica d’impiego della fanteria
hanno poco a che vedere con il “genio” vero o solo presunto dei singoli
condottieri, i quali semmai seppero adattarsi alle situazioni determinate da
fattori tutt’altro che soggettivi, ma ben solidi e concreti, quali
l’introduzione della polvere da sparo al principio del XIV secolo e poi delle
armi da fuoco. Scrive a tale riguardo Engels nell’Anti-Dühring:
L'introduzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu però
in nessun modo un atto di violenza, ma un progresso industriale e quindi
economico. L'industria rimane sempre industria, o che s’indirizzi alla
produzione o che si indirizzi alla distribuzione di oggetti. E l'introduzione
delle armi da fuoco agì rivoluzionariamente non solo sulla stessa arte della
guerra, ma anche sui rapporti politici di dominio e di servitù. […] Le mura di pietra dei castelli nobiliari,
sino allora inespugnabili, soggiacquero ai cannoni dei borghesi, le palle degli
archibugi dei borghesi attraversarono le corazze dei cavalieri. Assieme alle
corazze dei cavalieri della nobiltà cadde anche il dominio della nobiltà; con
lo sviluppo della borghesia, fanteria e cannone divennero sempre più le armi
decisive; costretta dal cannone, l'arte militare dovette arricchirsi di una
nuova specialità completamente industriale: il genio.
Solo sul principio del XVIII secolo il fucile a pietra con baionetta
eliminò definitivamente la picca dall'equipaggiamento della fanteria. La
fanteria di allora era composta dai mercenari del principe, marzialmente
istruiti, ma assolutamente malfidi e tenuti insieme dalla disciplina del
bastone. Essi venivano reclutati tra gli elementi più corrotti della società, e
spesso tra i prigionieri di guerra nemici arruolati a forza. La sola forma di
combattimento in cui questi soldati potevano utilizzare la nuova arma era la
tattica di linea che raggiunse il suo più alto grado di perfezione sotto
Federico II. Tutta la fanteria di un esercito veniva disposta in modo da
formare tre lati di un lungo quadrilatero vuoto al centro e che si muoveva come
formazione di combattimento solo come un tutto: tutt'al più era concesso ad una
delle due ali di portarsi un po' più avanti o un po' più indietro. Questa massa
impacciata poteva muoversi in formazione solo su un terreno assolutamente piano
ed anche qui solo con un’andatura lenta (settantacinque passi al minuto); una
modificazione della formazione di combattimento, mentre l'azione era in corso,
era impossibile e la vittoria o la sconfitta veniva decisa in breve tempo, in
una sola battaglia, non appena la fanteria veniva impegnata sulla linea del
fuoco.
A queste linee impacciate si opposero, nella guerra d’indipendenza
americana, le schiere di ribelli che, pur non sapendo fare gli eserciti,
sapevano però tirare meglio con le loro carabine a canna rigida. [Essi] combattevano per i loro più personali
interessi, quindi non disertavano come le truppe mercenarie e non facevano agli
inglesi la gentilezza di muover contro di loro alla stessa maniera, in linea e su un piano aperto, ma
procedevano in gruppi sciolti e rapidamente mobili di franchi tiratori e al
riparo dei boschi. La formazione in linea era qui inefficiente e soggiaceva
agli avversari, invisibili e inafferrabili. Fu riscoperta la guerriglia, nuovo
modo di combattere dovuto ad un mutamento
nel materiale umano.
Ciò che la rivoluzione americana aveva cominciato, fu completato dalla
Rivoluzione francese, anche nel campo militare.
Già in questa pur sommaria ma esemplare
descrizione dell’evoluzione della tattica militare a seguito dell’introduzione
delle armi da fuoco, si ha un saggio della potenza della scienza marxista che
si avvale del metodo storico- dialettico. Engels non pone solo in luce le
trasformazioni subite dalla tattica militare, ma come queste ebbero effetti
rivoluzionari sull’assetto sociale e come poi tali trasformazioni ebbero a
loro volta effetti sull’organizzazione militare e sulla conduzione delle guerre,
non meno che sul “mutamento nel materiale
umano” (a tal fine è essenziale leggere il testo englesiano integralmente).
Engels passa poi a descrivere i
caratteri peculiari che venne ad assumere in campo militare la strategia e la
tattica in epoca rivoluzionaria in Francia e poi nelle guerre napoleoniche:
La Rivoluzione francese, al pari dell'americana, non poteva opporre agli
sperimentati eserciti mercenari della coalizione che masse poco sperimentate ma
numerose, la leva di tutta la nazione. Ma con queste masse si trattava di
proteggere Parigi, quindi di coprire un territorio determinato, e questo non
poteva farsi senza una vittoria in una battaglia campale delle masse. La
semplice guerriglia non era sufficiente, doveva essere trovata un'altra forma
che permettesse l'impiego di masse e questa forma fu trovata con la colonna. La formazione in colonna
permetteva, anche a truppe poco sperimentate, di muoversi con discreto ordine
ed anche con una maggiore celerità di marcia (cento passi e più al minuto),
permetteva di infrangere le rigide forme della vecchia formazione in linea, di combattere su ogni terreno e quindi
anche su quello più sfavorevole alla linea, di raggruppare le truppe in qualsiasi modo fosse opportuno e, in
collegamento col combattimento di tiratori sparpagliati, arrestare, impegnare,
indebolire le linee nemiche sino a quando sopraggiungeva il momento di
sbaragliarle nel punto decisivo dello schieramento, con le masse tenute in
riserva. Questo modo nuovo di combattere, poggiante sul collegamento di
tiratori e di colonne e sull'inquadramento dell'esercito in divisioni o corpi
d'armata indipendenti, composti di tutte le armi, portati da Napoleone alla
loro più compiuta perfezione sia dal punto di vista tattico che da quello
strategico, era dunque diventato necessario grazie anzitutto al mutato
materiale umano fornito dalla Rivoluzione francese.
Non deve poi sfuggire qualche
“dettaglio” tecnico così come rilevato con maestria dal genio teorico di
Engels:
[…] altre due condizioni tecniche preliminari molto importanti: in primo
luogo gli affusti più leggeri costruiti da Gribeauval per i cannoni da
campagna, che così poterono avere quella maggiore capacità di movimento che ad
essi oggi si richiede, e, in secondo luogo, l'innovazione del fucile mediante
la curvatura del calcio, il quale sino allora era stato una continuazione della
canna, che così veniva prolungata in linea perfettamente retta; innovazione che
fu introdotta in Francia nel 1777, sul modello del fucile da caccia, e rese
possibile prender di mira un uomo singolo, senza mandar necessariamente il
colpo a vuoto. Ma senza questo progresso, con la vecchia arma non si sarebbe
potuto condurre la guerriglia.
Dunque la questione, ossia fino a
che punto l’arte della guerra napoleonica, nel suo spirito e nei suoi
procedimenti, si trovi preformata nelle operazioni di guerra degli eserciti
rivoluzionari francesi, indotti dalle circostanze non meno che dallo sviluppo
tecnologico e tecnico, mi pare posta e anche brillantemente risolta da Engels. L’organizzazione
della vittoria, per così dire, era già contenuta nei suoi principi essenziali
nella nuova concezione degli eserciti popolari e rivoluzionari, dapprima quelli
americani e francesi poi, senza con ciò voler mettere in ombra le indubbie
capacità e la grandezza del genio guerresco napoleonico.
E va riconosciuto a Napoleone – ma
anche in tal caso andrebbe verificata la sua effettiva genesi – l’idea della
centralizzazione dell’autorità suprema, per dirla con David G. Chandler, centralizzazione
e assoluta indipendenza del comando supremo che fu poi un pallino del generale
Cadorna, tanto da costargli, in un primo momento, la nomina a capo di stato
maggiore dell’esercito italiano, alla testa del quale gli fu preferito il più
duttile Pollio (ne ho già parlato in recenti e anche più antichi post).
Tuttavia è sempre il Chandler, nel primo volume de Le campagne di Napoleone, a chiedersi non solo per quale motivo
cadde, ma perché è passato alla storia soltanto come “Napoleone” e non come
“Napoleone il grande”.
E qui Chandler inizia la sua
risposta indulgendo, come molti altri, sull’aspetto soggettivo, ossia sulle
debolezze che da una certa data in poi cominciarono, a suo dire, ad annebbiare
le sue capacità di giudizio nei momenti critici e cominciò a credere a ciò che
desiderava credere e non ai fatti analizzati obiettivamente. Se ciò è vero, a
mio avviso, non riguarda solo il Napoleone di un certo periodo, ma tutta la sua
vicenda politica, diplomatica e militare.
Dal punto di vista storico e
seguendo il metodo englesiano la questione andrebbe esaminata in tutt’altro
modo, e tuttavia nell’ambito di un blog e nell’economia di un post non si
può andare oltre certi aspetti, preferendo quelli più evenemenziali, per
usare questa comoda espressione. Pertanto, per non tediare oltre l’eventuale lettore
che sia giunto fin qui, ecco una carrellata di giudizi sulle campagne
napoleoniche, chiedendo anticipatamente scusa per il tono assai sbrigativo.
Bisogna tener presente che
l’arresto degli eserciti della seconda coalizione erano già fatto compiuto
prima dell’avvento di Napoleone, per via del fallimento dell’invasione
anglo-russa in Olanda, della doppia disfatta dei russi in Svizzera ad opera di
Masséna (uno dei pochi eccellenti generali poi sotto Napoleone), e dunque della
separazione assai incazzata dello zar Paolo I dall’Austria. Del resto, il Bonaparte,
divenuto primo console con il Diciotto Brumaio (una storiella anche questa
intrisa di mito e che racconterò), non ebbe a sfidare alcun avversario, tanto
che la battaglia di Marengo si combatté solo il 14 giugno del 1800, battaglia
che per i suoi errori strategici fu vinta solo grazie alla riscossa di Desaix
e, com’è più noto, dalla carica di 400 cavalleggeri di Kellermann contro il fianco
sinistro austriaco formato da 6.000 uomini.
Quando già la battaglia divampava nei pressi del torrente Fontanone, davanti a Marengo, con le forze francesi in possesso di soli cinque cannoni, Napoleone indugiava a Torre Garofoli, nella ostinata convinzione che questi scontri non fossero che un tentativo per coprire la ritirata degli austriaci verso Genova e il Po. Quando poi si rese conto della gravità della situazione e della ormai evidente sconfitta delle sue truppe, in un ordine urgente a Desaix, Napoleone scriveva: “Per l’amor di Dio vieni a raggiungermi se ancora puoi” (Chandler, I, 381). Il generale Desaix cadde sul campo. Ma già prima a Montebello, in uno scontro decisivo, il merito fu di Lannes, che molto dopo fu premiato con il titolo di duca, ma la vittoria fu attribuita al primo console che invece non prese parte personalmente alla battaglia (ibidem, 377).
Quando già la battaglia divampava nei pressi del torrente Fontanone, davanti a Marengo, con le forze francesi in possesso di soli cinque cannoni, Napoleone indugiava a Torre Garofoli, nella ostinata convinzione che questi scontri non fossero che un tentativo per coprire la ritirata degli austriaci verso Genova e il Po. Quando poi si rese conto della gravità della situazione e della ormai evidente sconfitta delle sue truppe, in un ordine urgente a Desaix, Napoleone scriveva: “Per l’amor di Dio vieni a raggiungermi se ancora puoi” (Chandler, I, 381). Il generale Desaix cadde sul campo. Ma già prima a Montebello, in uno scontro decisivo, il merito fu di Lannes, che molto dopo fu premiato con il titolo di duca, ma la vittoria fu attribuita al primo console che invece non prese parte personalmente alla battaglia (ibidem, 377).
Ma qui siamo già un passo avanti,
ossia dopo la fallimentare e velleitaria campagna egiziana e dopo quella che
viene considerata il capolavoro della strategia napoleonica, ossia la prima
campagna d’Italia, dalla quale tuttavia non conseguirono effetti risolutivi.
Già contro Wurmser, Napoleone rischiò, col suo ritardo, impegnato nell’assedio
di Mantova, di dover soccombere. Fu appunto nell’interruzione dell’assedio e
nella raccolta delle sue forze che pose rimedio. Dove invece si dimostrò al
meglio la sua indiscussa capacità militare fu contro la seconda spedizione
dello stesso Wurmeser, che ebbe il risultato di bloccare gli austriaci entro
Mantova.
Meno brillante e decisiva fu la
successiva manovra del novembre 1796 contro l’Alvinczy, seguita invece da una
splendida resistenza nel gennaio 1797 contro lo stesso generale con la presa di
Mantova, cardine della difesa asburgica nello scacchiere lombardo-veneto. Nel marzo spinse l’arciduca Carlo
sulla strada di Vienna, e nonostante i brillanti successi e la superiorità
numerica francese (però dispersa su un esteso fronte), a chiedere l’avvio dei
preliminari di pace di Leoben fu Napoleone il 31 marzo (nel frattempo Venezia e
il Tirolo si erano sollevati) stante soprattutto il fatto che l’armata del
Reno, guidata da Moreau, non dava alcun segno di voler procedere di concerto su
Vienna (Chandler, I, 185-86).
E ciò sfata anche il mito che
Napoleone di solito riportasse grandi vittorie contro eserciti numericamente
superiori, perché ciò non è sempre vero, nemmeno per le prime operazioni della
primavera del 1796. Ad Austerlitz, poi, egli era di poco inferiore per uomini,
e lì fu la sua più bella vittoria, ma già a Jena, dove agì piuttosto d’azzardo,
fu il suo Davout a vincerla nei pressi di Auerstadt, dove era l’armata
prussiana principale che invece Napoleone credeva davanti a sé, come descrive
Chandler (I, p. 586-89). Ed infatti più che di Jena si deve parlare della
battaglia di Auerstadt, laddove l’esercito di Brunswick, invece di dirigersi
verso Jena, come equivocò Napoleone, se ne stava allontanando. In tale
frangente non brillò di certo nemmeno il maresciallo Ney, che si trovò isolato
dopo che incurante aveva attaccato una forza nemica che sapeva essere doppia
della sua. Ad ogni modo gli errori tattici del nemico compensarono quelli
francesi.
Scontenta assai fu, a Jena, la
Guardia imperiale che non poté mostrare in battaglia il suo coraggio (**), nonostante
qualche soldato avesse avuto l’ardire di gridare “avanti” beccandosi il
rimprovero dello stesso Napoleone, il quale fu sempre riluttante a impiegare la
sua Guardia in battaglia, tendenza questa che doveva fargli perdere un’ultima
possibilità di vittoria nuove anni dopo, sul campo di Waterloo.
E pure a Wagram era superiore per
numero, per non dire della grande superiorità in Russia e ancora a Lutzen e a
Bautzen (1813), questi ultimi due bei successi ma niente di più poiché non
riuscì ad annientare il nemico, e l’armistizio successivo fu uno dei suoi più
tragici errori. I nemici si riorganizzarono e ne entrarono in scena altri, fino
al ripiegamento francese da Dresda a Lipsia, dove l'imperatore si trovò in grave inferiorità e trovò
la sconfitta, anzi, la tomba della sua fortuna, anche se furono mirabili e
disperate le sue manovre del 1814.
Prima ancora, però, in Russia,
come detto, Napoleone si trovò in forte superiorità, ma fino a Mosca non seppe
cogliere alcuna vittoria decisiva, e, contrariamente a quanto comunemente si
crede, il suo esercito si sfaldò ben prima della ritirata famosa da Mosca, poiché
già prima l’intendenza si rivelò assolutamente insufficiente a sopperire ai
bisogni minimi dell’armata, e i soldati cominciarono ben presto a sbandarsi e a
saccheggiare. Non fu dunque l’incendio di Mosca a privare di vettovaglie
l’esercito, ma l’incuria nella quale vennero lasciati i soldati che intanto
saccheggiavano e distruggevano, mentre i contadini che nei primi giorni
venivano ad offrire viveri, furono derubati e bastonati (***). Capitale fu
l’errore di Napoleone di attardarsi ben oltre un mese a Mosca prima di decidere
di ritirarsi.
Non corrisponde ai fatti,
peraltro, che nel 1815 Napoleone fosse in declino, ma anzi egli condusse con
avvedutezza ed energia la campagna, e non sarebbe valso a salvarlo dalla
catastrofe di Waterloo l’eventuale apporto delle forze di Grouchy, né, per contro,
l’arrivo dei prussiani di Blücher decise la battaglia, checché ne
dica il mito storiografico e cinematografico. Wellington ebbe a studiare
attentamente la tattica napoleonica, e seppe tenere testa a tutti gli attacchi,
da posizioni migliori, inoltre gli inglesi erano ben più determinati dei napoleonici,
dove erano ormai pochi i veterani e fortemente presenti gli stranieri.
Del resto il destino di Napoleone
era già segnato, data la nuova situazione geopolitica europea, dal mancato ed
effettivo riconoscimento del ruolo dell’Austria, dalla mancata creazione di un
cuscinetto polacco da un lato e la creazione di uno stato autonomo nelle
Venezie, e dall’ostinazione per una lotta dagli aspetti irrazionali contro
l’Inghilterra e per il trattamento riservato ai Borbone di Spagna. L’arte
militare non è sufficiente a segnare il successo in assenza di una buona
politica, ossia quando la forza militare vuole diventare essa stessa politica
il disastro è assicurato. Come stiamo vedendo sempre più pericolosamente in
questi nostri giorni.
(*) In origine, per l’Anti-Dühring, Engels aveva scritto un
capitolo intitolato Tattica della
fanteria derivata dalle cause materiali (1700-1870), testo che ora si trova
alla fine del volume del XXV volume della MEOC, e che nell’opera pubblicata da
Engels fu sostituito con un testo più breve (pp. 160-64 del citato vol.: Teoria della violenza, III, continuazione).
(**) L’epopea si sforza di descrivere nella battaglia il luogo dell’eroismo,
ma dietro la cortina del coraggio, della disciplina e dell’onore, come dietro
al fumo dei combattimenti, si nascondevano una violenza senza limite, un
terrore accecante e un’avidità priva di freni. Non era infrequente che i
soldati fossero condotti al fuoco sotto l’esaltazione dell’alcol, che
anestetizza la paura, e con la promessa del saccheggio sulle spoglie dei caduti
e dei prigionieri. I carriaggi con i bagagli del nemico erano una delle prede
più ambite e capitava di frequente che alla loro vista le truppe si sbandassero
per non perdere l’occasione di appropriarsi di tutto quello che era possibile
(Sergio Valzania, Austerlitz, 2006,
p. 133).
E a proposito di alcol, Chandler
scrive che i soldati acquartierati a Jena, possedeva tre bottiglie di liquore
razziate in città, “senza contare i numerosi litri già ingoiati” (I, 586).
(***) Ernesto Ferrero, il quale ha
scritto, tra l’altro, un bel romanzo sulla permanenza di N. sull’isola d’Elba,
nel suo Lezioni napoleoniche, riporta
una frase attribuite a Napoleone: “in Europa ci sono molti bravi generali, ma
essi guardano troppe cose tutte in una volta, mentre io vedo una cosa sola, e
cioè la parte più forte dell’esercito nemico. Io penso di annientarla, pensando
che le questioni meno importanti si sistemeranno da sole”. Non sempre “le
questioni meno importanti” si sistemano “da sole”, e non di rado vengono ad
assumere, in determinate situazioni, un ruolo decisivo.
Ecco, adesso mi tocca attendere con pazienza il post sul Diciotto brumaio...
RispondiEliminaeh sì, caro, dovrai attendere. ciao
EliminaBellissimo, davvero esemplare post sulle tracce dell'Engels geniale e ancora leggibilissimo critico militare (anche se, devo dire, ingiustamente ironico e superficiale su un esercito come quello napoletano, che non era affatto così cattivo e macchiettistico come la leggenda nera lo dipinge).
RispondiEliminaSul perché i russi hanno vinto - visto per una volta dalla parte dei russi e non degli adoratori europei di Napoleone - ha scritto di recente un bel libro, non so se tradotto in italiano, Dominic Lieven. E un altro Ferrero da ricordare a proposito di Napoleone è Guglielmo, storico e antifascista morto in esilio, con il suo qua e là molto perspicace e suggestivo "Aventure" su Bonaparte in Italia.
bravo, bravo davvero
EliminaOttimo articolo, ben validamente supportato sul piano della bibliografia, non so se ha consultato anche lo scritto del Valzania "I dieci errori di Napoleone", che mi permetto segnalare.
RispondiEliminaSu Engels nulla da dire le sue analisi militari erano estremamente penetranti e ben documentate, non per nulla nei consessi della 2° Internazionale era soprannominato il "Generale".
Io voglio soltanto aggiungere un'osservazione che spesso si dimentica: dal 1809 in poi la battaglia napoleonica tipo diviene quasi sempre un grosso scontro frontale nel quale il grande corso pensa di poter sfruttare la superiorità numerica, che riusciva a raggiungere sul campo di battaglia, e soprattutto nell'uso dell'artiglieria. A Borodino, il grande scontro della campagna di Russia, Napoleone non vinse: in quanto i due eserciti rimasero la sera a fronteggiarsi dopo la sanguinosa giornata, sulle rispettive linee di partenza. Solo la decisione strategica di KutuzoV di preservare l'armata russa permise a Napoleone di poter "cantare" vittoria.
La "strana" decisione poi di Napoleone di rimanere a Mosca ben 35 giorni in attesa di una risposta dallo czar Alessandro, invece, va valutata come il disperato tentativo di Napoleone di impressionare lo czar sperando che la permanenza nella capitale dell'avversario spingesse lo czar a cedere ad una trattativa.
In realtà Napoleone era stato sconfitto sia militarmente, sia strategicamente sia infine politicamente.
In "guerra e pace" del grande Tolstoj vi è la rappresentazione reale, non penso che sia casuale, del vero vincitore di Napoleone che è il popolo russo: dall'aristocrazia al più piccolo contadino.
Mi consenta un'ultima osservazione in una pagina di questo romanzo è citato e riportato un piccolo episodio in cui si parla di Clausewitz. Anche quest'ultimo dall'intera campagna trasse un'importante lezione sulla superiorità strategica della posizione della difesa nella guerra rispetto all'attacco, che invece Napoleone prediligeva.
grazie per il commento e le acute osservazioni
Eliminadi valzania ho letto tutto, tranne, mi pare, qualcosa a riguardo di un suo pellegrinaggio spagnolo
molto cordialmente