mercoledì 3 settembre 2014

Perché vinsero i Russi


Avvertenza: quello che segue è un post abbastanza lungo, a suo modo tecnico, e perciò poco adatto a lettori sbrigativi che prediligono, data la natura dei più giovani della nostra epoca, il cinguettio piuttosto che la composizione, la stoccata rapida invece della battaglia, lo stratagemma alla strategia. È un post scritto in una giornata fredda e piovosa, quasi disperata, e dunque come conseguenza di essa. Nondimeno può insegnare qualcosa d’importante, e non solo agli sbarbatelli.

*

«Il potere tende a corrompere;
il potere assoluto corrompe assolutamente»
(John Emerich Dolberg Acton).

È curioso come nascano i grandi miti e si consolidino fino a diventare indiscusse nozioni collettive di storia. È certamente il caso di Napoleone, la cui grandezza e genialità, non solo nell’arte militare, è incontestabile tanto che non conviene modificare l’idea comune, poiché non c’è nulla di tanto sconosciuto quanto ciò che è pienamente noto. Perciò riesce spiacevole contraddire le opinioni comuni e il rischio concreto è di apparire quantomeno saccenti (accusa eventuale della quale m’importa un fico secco), specie tra coloro che d’abitudine intendono l’arte e l’opera di guerra di Napoleone come creazione puramente personale e finanche infallibile.



Ci ha provato a contraddire anche Engels – eccellente e riconosciuto esperto militare – che pure aveva una giustificata stima del Napoleone grande tattico. E che Napoleone fosse il migliore generale della sua epoca non c’è dubbio, anche se, non solo a mio parere, fu in non rari casi mediocre stratega, disattento organizzatore e politico malaccorto (chiedere conferma a Talleyrand e Fouché, per esempio).

Inoltre, fatto non proprio secondario, privò deliberatamente i suoi marescialli e generali dell’insegnamento dei suoi metodi (basti dire che non istituì un corso di stato maggiore per i suoi ufficiali) che avrebbero reso possibili comandi autonomi (ma concorrenziali!) quando la lotta si presentò su più fronti. Come poteva pensare di controllare e dirigere 600mila uomini su un fronte di 800 chilometri con le comunicazioni di allora?

Engels descrive, tra l’altro, della trasformazione subita dalla strategia e dalla tattica militari nel passaggio tra i due secoli in cui operò Napoleone, e lo fa in modo impareggiabile dal punto di vista del materialismo storico dialettico nel suo Anti-Dühring (ma quanti, anche in epoche intellettualmente più forti di questa, si sono presi la briga di leggere quest’opera scientifica e poi la Dialettica della natura?).

Le cause principali delle trasformazioni intervenute nei secoli nella tattica d’impiego della fanteria hanno poco a che vedere con il “genio” vero o solo presunto dei singoli condottieri, i quali semmai seppero adattarsi alle situazioni determinate da fattori tutt’altro che soggettivi, ma ben solidi e concreti, quali l’introduzione della polvere da sparo al principio del XIV secolo e poi delle armi da fuoco. Scrive a tale riguardo Engels nell’Anti-Dühring:

L'introduzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu però in nessun modo un atto di violenza, ma un progresso industriale e quindi economico. L'industria rimane sempre industria, o che s’indirizzi alla produzione o che si indirizzi alla distribuzione di oggetti. E l'introduzione delle armi da fuoco agì rivoluzionariamente non solo sulla stessa arte della guerra, ma anche sui rapporti politici di dominio e di servitù. […] Le mura di pietra dei castelli nobiliari, sino allora inespugnabili, soggiacquero ai cannoni dei borghesi, le palle degli archibugi dei borghesi attraversarono le corazze dei cavalieri. Assieme alle corazze dei cavalieri della nobiltà cadde anche il dominio della nobiltà; con lo sviluppo della borghesia, fanteria e cannone divennero sempre più le armi decisive; costretta dal cannone, l'arte militare dovette arricchirsi di una nuova specialità completamente industriale: il genio.

Solo sul principio del XVIII secolo il fucile a pietra con baionetta eliminò definitivamente la picca dall'equipaggiamento della fanteria. La fanteria di allora era composta dai mercenari del principe, marzialmente istruiti, ma assolutamente malfidi e tenuti insieme dalla disciplina del bastone. Essi venivano reclutati tra gli elementi più corrotti della società, e spesso tra i prigionieri di guerra nemici arruolati a forza. La sola forma di combattimento in cui questi soldati potevano utilizzare la nuova arma era la tattica di linea che raggiunse il suo più alto grado di perfezione sotto Federico II. Tutta la fanteria di un esercito veniva disposta in modo da formare tre lati di un lungo quadrilatero vuoto al centro e che si muoveva come formazione di combattimento solo come un tutto: tutt'al più era concesso ad una delle due ali di portarsi un po' più avanti o un po' più indietro. Questa massa impacciata poteva muoversi in formazione solo su un terreno assolutamente piano ed anche qui solo con un’andatura lenta (settantacinque passi al minuto); una modificazione della formazione di combattimento, mentre l'azione era in corso, era impossibile e la vittoria o la sconfitta veniva decisa in breve tempo, in una sola battaglia, non appena la fanteria veniva impegnata sulla linea del fuoco.

A queste linee impacciate si opposero, nella guerra d’indipendenza americana, le schiere di ribelli che, pur non sapendo fare gli eserciti, sapevano però tirare meglio con le loro carabine a canna rigida. [Essi] combattevano per i loro più personali interessi, quindi non disertavano come le truppe mercenarie e non facevano agli inglesi la gentilezza di muover contro di loro alla stessa maniera, in linea e su un piano aperto, ma procedevano in gruppi sciolti e rapidamente mobili di franchi tiratori e al riparo dei boschi. La formazione in linea era qui inefficiente e soggiaceva agli avversari, invisibili e inafferrabili. Fu riscoperta la guerriglia, nuovo modo di combattere dovuto ad un mutamento nel materiale umano.

Ciò che la rivoluzione americana aveva cominciato, fu completato dalla Rivoluzione francese, anche nel campo militare.

Già in questa pur sommaria ma esemplare descrizione dell’evoluzione della tattica militare a seguito dell’introduzione delle armi da fuoco, si ha un saggio della potenza della scienza marxista che si avvale del metodo storico- dialettico. Engels non pone solo in luce le trasformazioni subite dalla tattica militare, ma come queste ebbero effetti rivoluzionari sull’assetto sociale e come poi tali trasformazioni ebbero a loro volta effetti sull’organizzazione militare e sulla conduzione delle guerre, non meno che sul “mutamento nel materiale umano” (a tal fine è essenziale leggere il testo englesiano integralmente).

Engels passa poi a descrivere i caratteri peculiari che venne ad assumere in campo militare la strategia e la tattica in epoca rivoluzionaria in Francia e poi nelle guerre napoleoniche:

La Rivoluzione francese, al pari dell'americana, non poteva opporre agli sperimentati eserciti mercenari della coalizione che masse poco sperimentate ma numerose, la leva di tutta la nazione. Ma con queste masse si trattava di proteggere Parigi, quindi di coprire un territorio determinato, e questo non poteva farsi senza una vittoria in una battaglia campale delle masse. La semplice guerriglia non era sufficiente, doveva essere trovata un'altra forma che permettesse l'impiego di masse e questa forma fu trovata con la colonna. La formazione in colonna permetteva, anche a truppe poco sperimentate, di muoversi con discreto ordine ed anche con una maggiore celerità di marcia (cento passi e più al minuto), permetteva di infrangere le rigide forme della vecchia formazione in linea, di combattere su ogni terreno e quindi anche su quello più sfavorevole alla linea, di raggruppare le truppe in qualsiasi modo fosse opportuno e, in collegamento col combattimento di tiratori sparpagliati, arrestare, impegnare, indebolire le linee nemiche sino a quando sopraggiungeva il momento di sbaragliarle nel punto decisivo dello schieramento, con le masse tenute in riserva. Questo modo nuovo di combattere, poggiante sul collegamento di tiratori e di colonne e sull'inquadramento dell'esercito in divisioni o corpi d'armata indipendenti, composti di tutte le armi, portati da Napoleone alla loro più compiuta perfezione sia dal punto di vista tattico che da quello strategico, era dunque diventato necessario grazie anzitutto al mutato materiale umano fornito dalla Rivoluzione francese.

Non deve poi sfuggire qualche “dettaglio” tecnico così come rilevato con maestria dal genio teorico di Engels:

[…] altre due condizioni tecniche preliminari molto importanti: in primo luogo gli affusti più leggeri costruiti da Gribeauval per i cannoni da campagna, che così poterono avere quella maggiore capacità di movimento che ad essi oggi si richiede, e, in secondo luogo, l'innovazione del fucile mediante la curvatura del calcio, il quale sino allora era stato una continuazione della canna, che così veniva prolungata in linea perfettamente retta; innovazione che fu introdotta in Francia nel 1777, sul modello del fucile da caccia, e rese possibile prender di mira un uomo singolo, senza mandar necessariamente il colpo a vuoto. Ma senza questo progresso, con la vecchia arma non si sarebbe potuto condurre la guerriglia.

Dunque la questione, ossia fino a che punto l’arte della guerra napoleonica, nel suo spirito e nei suoi procedimenti, si trovi preformata nelle operazioni di guerra degli eserciti rivoluzionari francesi, indotti dalle circostanze non meno che dallo sviluppo tecnologico e tecnico, mi pare posta e anche brillantemente risolta da Engels. L’organizzazione della vittoria, per così dire, era già contenuta nei suoi principi essenziali nella nuova concezione degli eserciti popolari e rivoluzionari, dapprima quelli americani e francesi poi, senza con ciò voler mettere in ombra le indubbie capacità e la grandezza del genio guerresco napoleonico.

E va riconosciuto a Napoleone – ma anche in tal caso andrebbe verificata la sua effettiva genesi – l’idea della centralizzazione dell’autorità suprema, per dirla con David G. Chandler, centralizzazione e assoluta indipendenza del comando supremo che fu poi un pallino del generale Cadorna, tanto da costargli, in un primo momento, la nomina a capo di stato maggiore dell’esercito italiano, alla testa del quale gli fu preferito il più duttile Pollio (ne ho già parlato in recenti e anche più antichi post). Tuttavia è sempre il Chandler, nel primo volume de Le campagne di Napoleone, a chiedersi non solo per quale motivo cadde, ma perché è passato alla storia soltanto come “Napoleone” e non come “Napoleone il grande”.

E qui Chandler inizia la sua risposta indulgendo, come molti altri, sull’aspetto soggettivo, ossia sulle debolezze che da una certa data in poi cominciarono, a suo dire, ad annebbiare le sue capacità di giudizio nei momenti critici e cominciò a credere a ciò che desiderava credere e non ai fatti analizzati obiettivamente. Se ciò è vero, a mio avviso, non riguarda solo il Napoleone di un certo periodo, ma tutta la sua vicenda politica, diplomatica e militare.

Dal punto di vista storico e seguendo il metodo englesiano la questione andrebbe esaminata in tutt’altro modo, e tuttavia nell’ambito di un blog e nell’economia di un post non si può andare oltre certi aspetti, preferendo quelli più evenemenziali, per usare questa comoda espressione. Pertanto, per non tediare oltre l’eventuale lettore che sia giunto fin qui, ecco una carrellata di giudizi sulle campagne napoleoniche, chiedendo anticipatamente scusa per il tono assai sbrigativo.

Bisogna tener presente che l’arresto degli eserciti della seconda coalizione erano già fatto compiuto prima dell’avvento di Napoleone, per via del fallimento dell’invasione anglo-russa in Olanda, della doppia disfatta dei russi in Svizzera ad opera di Masséna (uno dei pochi eccellenti generali poi sotto Napoleone), e dunque della separazione assai incazzata dello zar Paolo I dall’Austria. Del resto, il Bonaparte, divenuto primo console con il Diciotto Brumaio (una storiella anche questa intrisa di mito e che racconterò), non ebbe a sfidare alcun avversario, tanto che la battaglia di Marengo si combatté solo il 14 giugno del 1800, battaglia che per i suoi errori strategici fu vinta solo grazie alla riscossa di Desaix e, com’è più noto, dalla carica di 400 cavalleggeri di Kellermann contro il fianco sinistro austriaco formato da 6.000 uomini.

Quando già la battaglia divampava nei pressi del torrente Fontanone, davanti a Marengo, con le forze francesi in possesso di soli cinque cannoni, Napoleone indugiava a Torre Garofoli, nella ostinata convinzione che questi scontri non fossero che un tentativo per coprire la ritirata degli austriaci verso Genova e il Po. Quando poi si rese conto della gravità della situazione e della ormai evidente sconfitta delle sue truppe, in un ordine urgente a Desaix, Napoleone scriveva: “Per l’amor di Dio vieni a raggiungermi se ancora puoi” (Chandler, I, 381). Il generale Desaix cadde sul campo. Ma già prima a Montebello, in uno scontro decisivo, il merito fu di Lannes, che molto dopo fu premiato con il titolo di duca, ma la vittoria fu attribuita al primo console che invece non prese parte personalmente alla battaglia (ibidem, 377).

Ma qui siamo già un passo avanti, ossia dopo la fallimentare e velleitaria campagna egiziana e dopo quella che viene considerata il capolavoro della strategia napoleonica, ossia la prima campagna d’Italia, dalla quale tuttavia non conseguirono effetti risolutivi. Già contro Wurmser, Napoleone rischiò, col suo ritardo, impegnato nell’assedio di Mantova, di dover soccombere. Fu appunto nell’interruzione dell’assedio e nella raccolta delle sue forze che pose rimedio. Dove invece si dimostrò al meglio la sua indiscussa capacità militare fu contro la seconda spedizione dello stesso Wurmeser, che ebbe il risultato di bloccare gli austriaci entro Mantova.

Meno brillante e decisiva fu la successiva manovra del novembre 1796 contro l’Alvinczy, seguita invece da una splendida resistenza nel gennaio 1797 contro lo stesso generale con la presa di Mantova, cardine della difesa asburgica nello scacchiere lombardo-veneto. Nel marzo spinse l’arciduca Carlo sulla strada di Vienna, e nonostante i brillanti successi e la superiorità numerica francese (però dispersa su un esteso fronte), a chiedere l’avvio dei preliminari di pace di Leoben fu Napoleone il 31 marzo (nel frattempo Venezia e il Tirolo si erano sollevati) stante soprattutto il fatto che l’armata del Reno, guidata da Moreau, non dava alcun segno di voler procedere di concerto su Vienna (Chandler, I, 185-86).

E ciò sfata anche il mito che Napoleone di solito riportasse grandi vittorie contro eserciti numericamente superiori, perché ciò non è sempre vero, nemmeno per le prime operazioni della primavera del 1796. Ad Austerlitz, poi, egli era di poco inferiore per uomini, e lì fu la sua più bella vittoria, ma già a Jena, dove agì piuttosto d’azzardo, fu il suo Davout a vincerla nei pressi di Auerstadt, dove era l’armata prussiana principale che invece Napoleone credeva davanti a sé, come descrive Chandler (I, p. 586-89). Ed infatti più che di Jena si deve parlare della battaglia di Auerstadt, laddove l’esercito di Brunswick, invece di dirigersi verso Jena, come equivocò Napoleone, se ne stava allontanando. In tale frangente non brillò di certo nemmeno il maresciallo Ney, che si trovò isolato dopo che incurante aveva attaccato una forza nemica che sapeva essere doppia della sua. Ad ogni modo gli errori tattici del nemico compensarono quelli francesi.

Scontenta assai fu, a Jena, la Guardia imperiale che non poté mostrare in battaglia il suo coraggio (**), nonostante qualche soldato avesse avuto l’ardire di gridare “avanti” beccandosi il rimprovero dello stesso Napoleone, il quale fu sempre riluttante a impiegare la sua Guardia in battaglia, tendenza questa che doveva fargli perdere un’ultima possibilità di vittoria nuove anni dopo, sul campo di Waterloo.

E pure a Wagram era superiore per numero, per non dire della grande superiorità in Russia e ancora a Lutzen e a Bautzen (1813), questi ultimi due bei successi ma niente di più poiché non riuscì ad annientare il nemico, e l’armistizio successivo fu uno dei suoi più tragici errori. I nemici si riorganizzarono e ne entrarono in scena altri, fino al ripiegamento francese da Dresda a Lipsia, dove l'imperatore si trovò in grave inferiorità e trovò la sconfitta, anzi, la tomba della sua fortuna, anche se furono mirabili e disperate le sue manovre del 1814.

Prima ancora, però, in Russia, come detto, Napoleone si trovò in forte superiorità, ma fino a Mosca non seppe cogliere alcuna vittoria decisiva, e, contrariamente a quanto comunemente si crede, il suo esercito si sfaldò ben prima della ritirata famosa da Mosca, poiché già prima l’intendenza si rivelò assolutamente insufficiente a sopperire ai bisogni minimi dell’armata, e i soldati cominciarono ben presto a sbandarsi e a saccheggiare. Non fu dunque l’incendio di Mosca a privare di vettovaglie l’esercito, ma l’incuria nella quale vennero lasciati i soldati che intanto saccheggiavano e distruggevano, mentre i contadini che nei primi giorni venivano ad offrire viveri, furono derubati e bastonati (***). Capitale fu l’errore di Napoleone di attardarsi ben oltre un mese a Mosca prima di decidere di ritirarsi.

Non corrisponde ai fatti, peraltro, che nel 1815 Napoleone fosse in declino, ma anzi egli condusse con avvedutezza ed energia la campagna, e non sarebbe valso a salvarlo dalla catastrofe di Waterloo l’eventuale apporto delle forze di Grouchy, né, per contro, l’arrivo dei prussiani di Blücher decise la battaglia, checché ne dica il mito storiografico e cinematografico. Wellington ebbe a studiare attentamente la tattica napoleonica, e seppe tenere testa a tutti gli attacchi, da posizioni migliori, inoltre gli inglesi erano ben più determinati dei napoleonici, dove erano ormai pochi i veterani e fortemente presenti gli stranieri.

Del resto il destino di Napoleone era già segnato, data la nuova situazione geopolitica europea, dal mancato ed effettivo riconoscimento del ruolo dell’Austria, dalla mancata creazione di un cuscinetto polacco da un lato e la creazione di uno stato autonomo nelle Venezie, e dall’ostinazione per una lotta dagli aspetti irrazionali contro l’Inghilterra e per il trattamento riservato ai Borbone di Spagna. L’arte militare non è sufficiente a segnare il successo in assenza di una buona politica, ossia quando la forza militare vuole diventare essa stessa politica il disastro è assicurato. Come stiamo vedendo sempre più pericolosamente in questi nostri giorni.



(*) In origine, per l’Anti-Dühring, Engels aveva scritto un capitolo intitolato Tattica della fanteria derivata dalle cause materiali (1700-1870), testo che ora si trova alla fine del volume del XXV volume della MEOC, e che nell’opera pubblicata da Engels fu sostituito con un testo più breve (pp. 160-64 del citato vol.: Teoria della violenza, III, continuazione).

(**) L’epopea si sforza di descrivere nella battaglia il luogo dell’eroismo, ma dietro la cortina del coraggio, della disciplina e dell’onore, come dietro al fumo dei combattimenti, si nascondevano una violenza senza limite, un terrore accecante e un’avidità priva di freni. Non era infrequente che i soldati fossero condotti al fuoco sotto l’esaltazione dell’alcol, che anestetizza la paura, e con la promessa del saccheggio sulle spoglie dei caduti e dei prigionieri. I carriaggi con i bagagli del nemico erano una delle prede più ambite e capitava di frequente che alla loro vista le truppe si sbandassero per non perdere l’occasione di appropriarsi di tutto quello che era possibile (Sergio Valzania, Austerlitz, 2006, p. 133).

E a proposito di alcol, Chandler scrive che i soldati acquartierati a Jena, possedeva tre bottiglie di liquore razziate in città, “senza contare i numerosi litri già ingoiati” (I, 586).

(***) Ernesto Ferrero, il quale ha scritto, tra l’altro, un bel romanzo sulla permanenza di N. sull’isola d’Elba, nel suo Lezioni napoleoniche, riporta una frase attribuite a Napoleone: “in Europa ci sono molti bravi generali, ma essi guardano troppe cose tutte in una volta, mentre io vedo una cosa sola, e cioè la parte più forte dell’esercito nemico. Io penso di annientarla, pensando che le questioni meno importanti si sistemeranno da sole”. Non sempre “le questioni meno importanti” si sistemano “da sole”, e non di rado vengono ad assumere, in determinate situazioni, un ruolo decisivo.



  

6 commenti:

  1. Ecco, adesso mi tocca attendere con pazienza il post sul Diciotto brumaio...

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  2. Bellissimo, davvero esemplare post sulle tracce dell'Engels geniale e ancora leggibilissimo critico militare (anche se, devo dire, ingiustamente ironico e superficiale su un esercito come quello napoletano, che non era affatto così cattivo e macchiettistico come la leggenda nera lo dipinge).

    Sul perché i russi hanno vinto - visto per una volta dalla parte dei russi e non degli adoratori europei di Napoleone - ha scritto di recente un bel libro, non so se tradotto in italiano, Dominic Lieven. E un altro Ferrero da ricordare a proposito di Napoleone è Guglielmo, storico e antifascista morto in esilio, con il suo qua e là molto perspicace e suggestivo "Aventure" su Bonaparte in Italia.

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  3. Ottimo articolo, ben validamente supportato sul piano della bibliografia, non so se ha consultato anche lo scritto del Valzania "I dieci errori di Napoleone", che mi permetto segnalare.
    Su Engels nulla da dire le sue analisi militari erano estremamente penetranti e ben documentate, non per nulla nei consessi della 2° Internazionale era soprannominato il "Generale".
    Io voglio soltanto aggiungere un'osservazione che spesso si dimentica: dal 1809 in poi la battaglia napoleonica tipo diviene quasi sempre un grosso scontro frontale nel quale il grande corso pensa di poter sfruttare la superiorità numerica, che riusciva a raggiungere sul campo di battaglia, e soprattutto nell'uso dell'artiglieria. A Borodino, il grande scontro della campagna di Russia, Napoleone non vinse: in quanto i due eserciti rimasero la sera a fronteggiarsi dopo la sanguinosa giornata, sulle rispettive linee di partenza. Solo la decisione strategica di KutuzoV di preservare l'armata russa permise a Napoleone di poter "cantare" vittoria.
    La "strana" decisione poi di Napoleone di rimanere a Mosca ben 35 giorni in attesa di una risposta dallo czar Alessandro, invece, va valutata come il disperato tentativo di Napoleone di impressionare lo czar sperando che la permanenza nella capitale dell'avversario spingesse lo czar a cedere ad una trattativa.
    In realtà Napoleone era stato sconfitto sia militarmente, sia strategicamente sia infine politicamente.
    In "guerra e pace" del grande Tolstoj vi è la rappresentazione reale, non penso che sia casuale, del vero vincitore di Napoleone che è il popolo russo: dall'aristocrazia al più piccolo contadino.
    Mi consenta un'ultima osservazione in una pagina di questo romanzo è citato e riportato un piccolo episodio in cui si parla di Clausewitz. Anche quest'ultimo dall'intera campagna trasse un'importante lezione sulla superiorità strategica della posizione della difesa nella guerra rispetto all'attacco, che invece Napoleone prediligeva.

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    1. grazie per il commento e le acute osservazioni
      di valzania ho letto tutto, tranne, mi pare, qualcosa a riguardo di un suo pellegrinaggio spagnolo
      molto cordialmente

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