Ho letto con raro interesse questa
intervista a Carlo Formenti che mi è stata segnalata dapprima dal mio amico
Luca e poi anche da un lettore. In attesa di leggere il libro di Formenti e di
farmi un’idea spero più precisa delle sue tesi, passo a scribacchiare alcune
impressioni sull’immediato.
Anzitutto mi ha colpito nell'intervista la sua
premessa, laddove sancisce:
la natura eminentemente politica della crisi, il che vieta
di sperare in una “ripresa” che restituisca opportunità di lavoro, livelli di
reddito e servizi sociali dignitosi alle classi subalterne, e la irriformabilità
del regime politico/finanziario che è venuto consolidandosi negli ultimi
decenni, il che vieta di nutrire illusione in merito a un possibile ritorno
alla democrazia “normale” e al compromesso storico fra capitale e lavoro.
Non sono d’accordo sul fatto che
si tratti di una crisi “eminentemente politica”, anche perché non mi pare
chiaro cosa esattamente o più estesamente Formenti intenda alludere con tale
espressione. Propendo, per parte mia almeno, per una crisi di sistema che
coinvolge la realtà capitalistica in tutte le sue forme, sia dal lato economico
finanziario e sia dal lato della rappresentanza politica, in un quadro di crisi
sociale dei “valori” di riferimento e di coscienza sufficiente, nel prosieguo,
ad uccidere un’intera epoca, come già successe un secolo addietro (ma sappiamo
con quali costi e chi soprattutto fu chiamato a pagarli).
Insomma una crisi che si è
elaborata nella forma compatibile con il massimo sviluppo delle forze
produttive di questa fase storica del modo di produzione capitalistico, per cui
l’ulteriore sviluppo si presenta come decadenza, e il nuovo sviluppo non potrà che cominciare da una nuova base.
Sono invece d’accordo (e come non
esserlo?) sul non nutrire “illusione in
merito a un possibile ritorno alla democrazia “normale” e al compromesso
storico fra capitale e lavoro”, posto che fosse questo, ma Formenti non lo
dice nell’intervista, l’obiettivo delle lotte di classe novecentesche, ossia la
pacificazione sociale. Del resto, quante volte ho scritto in questo piccolo scoglio
sulla fine di questa illusione? Ormai si tratta di una consapevolezza che è maturata
nei fatti della crisi e si sta rapidamente diffondendo e diviene perciò acquisizione
e sentimento comune.
Mi trovo anche d’accordo sulla
presa di distanze, sul rifiuto, di certe teorizzazioni negriane sui concetti
come – da ultimo – moltitudine e biopotere, così come di alterazioni consimili (*).
Un’altra frase di Formenti:
Rivoluzioni e riforme radicali avvengono quando le crisi
assumono proporzioni catastrofiche e toccano i rapporti di forza fra le classi,
oppure, al contrario, quando periodi di espansione economica permettono una
ridistribuzione dei redditi e una maggiore partecipazione popolare alla
gestione del potere.
E questo aspetto della criticità
storica è noto fin dai libri delle elementari, perciò non rilevo a tale
riguardo alcun apporto teorico nuovo. È ben noto che tutte le passate forme di
società sono perite in seguito allo sviluppo della ricchezza, ossia in seguito
allo sviluppo delle forze produttive sociali. Non sarà stato un caso che la
società feudale, per esempio, crollò in presenza dell’industria cittadina, del
commercio, dell’agricoltura moderna.
Altro punto decisivo dell’intervista
è quando Formenti dice:
per chi resta ancorato alla concezione marxiana del
conflitto sociale come conflitto di classe, il partito inteso come
organizzazione degli interessi di una parte sociale resta una categoria
imprescindibile. Il che non implica che tale categoria debba incarnarsi nella
forma “classica” del partito leninista: la storia del movimento operaio è
punteggiata di “eresie” democratico-consigliari che hanno concepito la forma
partito in modo assai diverso (basti citare Rosa Luxemburg).
Perfettamente d’accordo sul fatto
che il partito non può surrogare la classe, che non può, soggiungo ancora,
elevarsi a soggetto della storia e dunque che partito e classe sono una
contraddizione, lati conflittuali di uno stesso processo. E non basta, l’ho
scritto altre volte, nemmeno che “il partito” abbia una lucida coscienza di
tale contraddizione. Troppi casi della storia recente ci hanno mostrato a quali
tragedie si va incontro. E tuttavia i soggetti della storia, le classi sociali,
non possono esimersi dall’organizzarsi politicamente e strategicamente come
forza autonoma se vogliono contare, come forza alternativa di potere se
vogliono vincere.
La borghesia sa ben organizzarsi,
sa fare la lotta di classe, lo vediamo bene; quanto a noi, per il momento e
data la situazione, converrebbe concentrarsi anzitutto nel creare la base
necessaria di conoscenze per rendere anzitutto effettivamente possibile una
critica non laterale del sistema di dominio capitalista. E non snobberei tanto,
come invece fa esplicitamente Formenti, l’impiego dei nuovi mezzi di comunicazione. Del resto,
se ricordo bene, l’introduzione del libro a stampa ebbe pur qualche non
trascurabile rilievo nei processi di cambiamento sociale dal Cinquecento in poi.
Le analisi di Formenti convincono anche me: il suo "pessimismo della ragione" è anche il mio che penso che in questa fase vediamo- per chi lo vuol vedere, per tutti gli altri c'è il dibattito sulla riforma elettorale- come il capitalismo finanziario può tranquillamente fare a meno della democrazia.
RispondiEliminaLa questione della costruzione politica e dei possibili modelli penso anch'io sia ineludibile.I tempi però li vedo pericolosamente biblici. Nessuna soggettività oggi in campo- dal movimento NoTav a quello per la casa- è così forte da porsi come problema la costruzione di un soggetto politico. Anzi, molte soggettività questa possibilità la escludono dichiaratamente senza però ragionare ancora sul poi. "Non ci rappresenta nessuno" è uno slogan che io posso condividere ma poi non posso non pormi il problema di cosa vuol dire seriamente auto organizzazione. E', credo, un discorso, che andrebbe sprovincializzato allargandosi anche a molti altri angoli di mondo, l'Egitto ad esempio...
Quanto a Negri, pur non condividendolo, continuo ad ascoltarlo. Diciamo che preferisco Negri ai negriani: il passaggio al post fordismo e l'analisi sull'operaio sociale credo siano stati contributi importanti. Dal punto di vista editoriale impero è stata una categoria fortunata d quello politico direi mica tanto.....
Posso permettermi di segnalare contemporaneamente, un libro e un sito di compagni e compagne che si sono dati una buona organizzazione, nel sostenere concretamente le lotte dei lavoratori, disoccupati, precari e quant'altro? http://www.clashcityworkers.org/dove-sono-i-nostri.html
RispondiElimina"Con lo sguardo rivolto a questo campo di battaglia, questo libro vuole raccontare, con rigore e accuratezza scientifica, com’è fatto il proletariato nell’Italia di oggi. A partire da un’analisi della struttura produttiva del nostro Paese, capiremo non solo come si produce la ricchezza, ma chi la produce, quali sono state le trasformazioni più significative del mondo del lavoro negli ultimi decenni e quali le linee di tendenza per il prossimo futuro.
Chi sono i nostri? E dove sono? Lavoratori dipendenti, parasubordinati, produttivi e improduttivi, “finte” partite iva, Neet, immigrati: manifestazioni differenti dello stesso fenomeno, etichette e catalogazioni – molte delle quali imprecise e da sfatare – che spesso servono a frammentare ciò che in realtà è unito da interessi comuni e simili ritmi di vita.
In questa fase delicata, di passaggio, per l’Italia – e per il mondo – è necessario pensare a modelli organizzativi adeguati alla struttura del capitale. Dall’altra parte della barricata lo stanno già facendo. Ora tocca a noi".
Grazie a quanti, si prenderanno la briga di visitare il sito, e magari di leggere il libro.
CLASHCITYWORKERS
In quanto all’auspicato allargamento delle problematiche in ambito internazionale e in particolare all’attenzione che il Nostro propone per i nuclei di ‘condensazione operaia’ che dovrebbero costituire fronti di opposizione, il discorso è puramente teorico e suppongo che manchi di assoluta esperienza sul campo. E mi riferisco ad un intervallo spaziale che va dal maghreb all’estremo oriente (Russia e Cina escluse).
RispondiEliminaMantenendoci in ambito musulmano le classi operaie maghrebine – più quelle egiziane - sono innazitutto impermeabili tra loro e all'applicazione di modelli nati in ambiente filosofico esclusivamente europeo.
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