Questo è il terzo post sulla crisi
francese che portò alla rivoluzione del 1789 (gli altri due sono qui e qui). Ho
accennato alla contraddizione insolubile tra l’assolutismo regio e l’ostinato
particolarismo aristocratico, la dissipazione da parte di un’élite di
privilegiati della ricchezza prodotta, della fiscalità incoerente e assurda, le
continue guerre e il fallimento di qualsiasi tentativo di riforma, già con
Turgot, il rifiuto dei nobili di corte e dell’alto clero all’uguaglianza
fiscale per scongiurare il default, la loro decisione di mettere in mora la
monarchia con le rivolte del 1787-’88, costringendola poi a convocare gli Stati
generali con l’intenzione dichiarata di stabilire sulle rovine
dell’assolutismo il proprio potere politico e di conservare i propri privilegi.
Non era più il 1614, la società
stava cambiando e con essa i rapporti di forza tra le classi, la dinamica di
sviluppo – è il tema di questo post – entrava in contraddizione con i vecchi rapporti
di produzione, subentrava un’epoca di rivoluzione sociale.
*
Nel XVIII secolo le manifatture
più importanti di Francia producevano prodotti destinati anzitutto ai consumi
di lusso, quali stoffe di seta, velluti, merletti, tappeti, porcellane, cipria,
carta (all’epoca ancora un articolo costoso), armi. Queste imprese trovavano i
loro migliori clienti negli ambienti della nobiltà di corte e in genere nelle
persone con buona disponibilità economica. Una parte non minoritaria della
borghesia aveva tutto l’interesse a mantenere in piedi lo Stato dei privilegi
aristocratici, ma d’altra parte si facevano sempre più urgenti altre necessità.
L’industria era ancora poco
sviluppata poiché il contadino si fabbricava da sé quei pochi prodotti di cui
aveva bisogno, e tuttavia dagli anni Sessanta cominciò quella rivoluzione
tecnica che doveva sostituire la manifattura con la fabbrica e creare la grande
industria moderna.
Il movimento, come solito, era
frammentario e contraddittorio. Se la borghesia capitalistica rivendicava la
libertà economica, le classi popolari – attaccate all’antico sistema di regolamentazione
e di tassazione – manifestavano una mentalità anticapitalista [*]. L’artigianato
delle corporazioni vessava e ostacolava in ogni modo la concorrenza
dell’industria, tanto che la stessa monarchia dovette prendere l’industria
sotto la sua protezione essendo essa una delle maggiori fonti di ricchezza del
paese. Concesse perciò lettere di privilegio che annullavano la validità degli
impedimenti burocratici d’ordine corporativo e feudale, e lo stillicidio d’imposte.
Una manifattura che avesse ottenuto tale privilegio poteva fregiarsi del titolo
di “manifattura reale”. Sono questi dei lenitivi che non avevano nulla di strutturale.
Norme e regolamenti, tasse di ogni
genere, divennero intollerabili per l’industria, una catena molto fastidiosa di
adempimenti che impediva spesso i migliori metodi di lavoro. Se il capitale
industriale francese voleva competere con quello inglese, doveva liberarsi dei
vincoli feudali che ostacolavano lo sviluppo della produzione e del commercio,
non poteva accontentarsi di qualche concessione, aveva bisogno di una
rivoluzione.
Perché il commercio ricevesse un
forte impulso, dovevano cadere i privilegi dei nobili, l’esercito e la flotta
dovevano essere riformati, il particolarismo delle province spezzato e i dazi
eliminati; in sintesi il liberalismo economico richiedeva “libertà e
uguaglianza” nei fatti, e per la “fraternità” sarebbe bastava la parola.
Per compiere la sua rivoluzione, la
borghesia sfruttò il malcontento popolare, il declino economico delle
manifatture e dell’agricoltura culminato con il disastroso raccolto del 1788. La
questione del pane e degli altri generi di prima necessità ebbe non poca
influenza sulla rivoluzione, sul “diritto all’esistenza” che sarà poi proclamato
dai sanculotti di Parigi.
Gli impedimenti al commercio dei
cereali tra le diverse province, soprattutto il divieto di esportare cereali da
una provincia all’altra senza un particolare permesso che non era facile
ottenere, ostacolavano il trasferimento dalle regioni con buoni raccolti in
quelle in cui il raccolto di cereali era stato sfavorevole. Nella Francia pre-rivoluzionaria
tali ostacoli divennero potenti leve della speculazione sui cereali che spesso
assunse dimensioni enormi e fu uno dei mezzi più efficaci per sfruttare il
popolo (a ciò partecipavano anche certe associazioni di commercianti, dunque di
borghesi).
Alla testa di questi speculatori
c’era tra gli altri il monarca che faceva dello strozzinaggio sul grano una
delle sue migliori fonti di entrata. Già ai suoi tempi, Luigi XV era il principale azionista della
società di acquisto all’ingrosso Malisset. A tenere i registri della sua corte
si trova un tesoriere personale per le “speculazioni sui cereali di Sua
Maestà”. Ai nostri tempi, invece, la speculazione sui cereali vede coinvolte le
multinazionali, le quali invece di speculare grazie ai dazi come nell’ancien
régime, sfruttando al contrario l’assenza di ogni barriera doganale possono imporre
il proprio prezzo di monopolio a tutto il pianeta.
Che alla borghesia interessasse
anzitutto la libertà economica per l’industria e i commerci, se ne ebbe prova
cogente quando vennero successivamente formalizzate le decisioni prese
dall’Assemblea costituente nella notte del 4 agosto 1789 [**]. Si era detto che
“L’Assemblea nazionale abolisce del tutto
il regime feudale”; tale principio si era poi ridotto, nei decreti
definitivi, all’abolizione dei diritti che gravavano sulle persone (nuova
forza-lavoro libera!), ma quelli che
gravavano sulle terre furono semplicemente dichiarati riscattabili. Il contadino
era così liberato, ma non la sua terra! Può ben dire Albert Soboul che il
sistema feudale,“abolito in teoria,
rimaneva nei suoi elementi essenziali”.
[*] Cfr. Albert Soboul, La
rivoluzione francese, cap. III.
[**] Il clero tentò persino di
rimettere in discussione l’abolizione della riscossione della decima (per molti
parroci la decima era la loro stessa vita). Un suo rappresentante sostenne
persino che la soppressione delle decime sarebbe stata fatale ai poveri perché
asciugherebbe le principali fonti della carità sacerdotale! Il 6 agosto il
deputato Buzot pronunciò queste solenni parole: “La proprietà della chiesa appartengono alla nazione”. L'8 agosto,
il marchese de Lacoste propose formalmente l'abolizione assoluta delle decime
(cfr. Luis Blanc, Histoire de la
Révolution, Bruxelles, 1852, III, pp. 11 e 12).
[continua ??]
[continua ??]
Certo che continua! :)
RispondiEliminaLe analogie col presente sono infinite: controllo dei flussi migratori, delle materie prime, dei beni di prima necessità, perché eterne (???) sono le leggi che governano la formazione e l'accumulazione del capitale.