Che dire di un paese dove il 98
per cento della popolazione non parla la lingua ufficiale e solo il 10 per
cento la comprende? È una nazione, questa? Era il Regno del 1861. Fatta l’Italia,
si disse, restano da imbastire gli italiani. La classe padronale e dirigente di
allora non aveva alcun interesse a promuovere alcuna riforma in tal senso, ossia
di creare le condizioni economiche e sociali per un’effettiva emancipazione di
massa (se non nel momento di più forte espansione economica e laddove serviva
una manodopera con un minimo d’istruzione), indi trasformare dei sudditi in
cittadini con pieni e ampi diritti, perché ciò costituiva minaccia esiziale sul
piano del potere e dei privilegi. Le classi dirigenti della repubblica – in
parte già fasciste e comunque sempre intrise di clericalismo e idealismo
crociano – hanno invece dovuto aprire su questa strada perché incalzate dalle
necessità dello sviluppo economico, ma sempre con precauzione e controllo, temendo
piuttosto che favorendo una cultura di massa (che se non è una cultura critica
non è buona cultura).
In buona sostanza la questione
dell’alfabetizzazione è stata e in buona misura continua ad essere una delle
questioni decisive dei problemi secolari dell’Italia. Senza un’adeguata preparazione
culturale non c’è modo di rendere effettivi certi principi di cittadinanza, e
difatti ne vediamo gli esiti disastrosi anche dal lato della scelta politica e
di molti altri comportamenti. Ci possiamo poi meravigliare se il complesso
politico amministrativo di quello stesso paese è sempre stato un palazzo di
Kafka, e dunque se in 153 anni si sono succeduti ben 128 governi, ossia, mediamente,
fatta la tara del ventennio fascista, un governo all’anno con punte di tre gabinetti
in pochi mesi?
*
Ieri ero al telefono con un’amica
di Sappada, un paese nelle zone del comelico (ma che non vi fa parte). Lei non conosce
il ladino, bensì parla e insegna un dialetto austriaco, bavaro-tirolese, e però
anche uno splendido italiano, senza inflessioni e con un timbro deciso. A due
passi da casa sua ci sono le sorgenti del Piave, fiume sacro alla patria. I
sappadini, durante il primo conflitto mondiale, furono deportati perché
sospettati d’intelligenza con il “nemico”, che però evidentemente per loro non
era tale. Lei, la mia anziana amica, si sente italianissima, nonostante il
cognome. Certo, per mentalità e atteggiamenti ha poco in comune con molti suoi
connazionali, ma lei evita recriminazioni e campanilismi. Alza gli occhi al
cielo e sospira.
Su quei monti, quasi un secolo fa,
morirono molti giovani uomini, in un modo che oggi è difficile credere e che nessun
film può rendere esattamente. Bisogna vedere le foto di quei cadaveri straziati, le immagini
censurate che si trovano negli archivi sono raccapriccianti, posso garantire. Una
guerra fatta d’assalti contro reticolati e mitragliatrici. Vi furono episodi – documentati
– in cui gli ufficiali austro-ungarici facevano cessare il fuoco e gridavano in
italiano: tornate indietro, non potete farvi ammazzare così! Si fa presto a
dire, oggi, io non mi sarei fatto ammazzare in quel modo. Si fucilava per un
nonnulla. Fu strage, con 670mila morti, mezzo milione d’invalidi; solo nell’autunno
del 1917 si contarono, nel gorgo di quel naufragio che fu Caporetto, secondo
una comunicazione del cap. Mortara del Comando supremo: “30mila morti, 300mila
prigionieri sicuri, 100mila ammalati circa e altrettanti feriti, sbandati
sicuri 350mila”.
Cadorna era un ottuso inflessibile
e D’Annunzio chiaramente uno psicopatico (*), pericolosi entrambi. Non giudico
senza cognizione. Luigi Cadorna aveva scritto prima del conflitto un librino: Attacco frontale e ammaestramento tattico, che
nacque come articolo per la Rivista
militare italiana nel 1888, venne riveduto nel 1895 e emanato nel corso di
quasi trent’anni, evidentemente incurante degli sviluppi tecnologici e degli
aggiornamenti tattici di quei decenni. Nella sua dottrina l’autore esponeva la
propria cieca convinzione nelle offensive compatte di fanteria, senza tener
conto della potenza di fuoco avversaria:
«Se la fanteria della difesa – scriveva legnosamente Cadorna – è nascosta dietro trincee o dietro altri
ripari, l’artiglieria dell’attacco non avrà che un effetto limitato contro di
essa; ma allora, facendo avanzare la fanteria, il difensore dovrà nella maggiore
parte dei casi scoprirsi se vorrà batterla col fuoco e ne approfitterà l’artiglieria
per fulminare con rapido tiro il difensore».
Non gli passava nemmeno per la
mente, tra l’altro, che la linea di difesa potesse aprire il fuoco a distanza
ravvicinata sugli assalitori e che dunque l’artiglieria restasse impotente e
muta per il rischio concreto di colpire i suoi. E difatti, lo steso Cadorna,
nelle sue memorie afferma: “Era necessaria la dura esperienza del 1915 per
giungere all’impiego di quei metodi che tal genere di guerra suggeriva e che i
nemici, i quali avevano iniziato la lotta un anno prima, già possedevano” (**).
Dura esperienza che si tradusse in centinaia di migliaia di morti. C’è da chiedersi a cosa servissero
le osservazioni fatte fino ad allora sul fronte francese e ampiamente riportate
dalla pubblicistica di ogni tipo. E difatti solo dopo Caporetto si cominciarono
a seguire i metodi del fronte francese e anche i modelli di trinceramento e
perfino di costruzione delle latrine ispirati alle direttive britanniche (***).
C’è da dire che alla prova dei
fatti non fu certo agevole mantenere un fronte di oltre 600 chilometri con così
scarse risorse, ma ciò valeva anche per l’avversario, impegnato poi anche su un
fronte altrettanto ampio contro i russi che muovevano con successo, iniziale, su
tutta la Galizia (****).
Nei giorni della tragedia di
Caporetto, con il fronte sbandato, soldati e ufficiali catturati o in fuga,
Cadorna trovò l’occasione, dopo aver fatto colazione con caffelatte e
savoiardi, di emettere un ordine del giorno nel quale diceva: “Chiunque non senta di dover vincere o
cadere con onore sulla linea di resistenza, non è adatto a vivere”.
Il mattino seguente, il comando
supremo si stabilì in un palazzo di Treviso, a oltre cento chilometri dal
fronte. Secondo la testimonianza diretta del colonnello Angelo Gatti, «durante la prima colazione nel suo nuovo
quartier generale, il capo [Cadorna]
parlò dell’arte e del paesaggio dell’Umbria, impressionando i suoi commensali
con la sua serenità, uno stato d’animo che presumibilmente doveva qualcosa alla
dichiarazione del re e del governo che avevano espresso completa fiducia nel
suo comando militare». Il peggio gode sempre di ampie complicità.
In una lettera pubblicata dalla
stampa nel 1918 è descritto un episodio: un tenente disse ai suoi soldati
superstiti che avrebbe contrattaccato presto, gli ordini stavano per arrivare.
Invece arrivò un sergente in bicicletta che procedeva lungo la stessa strada.
Lo fermarono per chiedergli cosa stesse succedendo, ed egli rispose che il
generale e tutti gli alti pezzi grossi se l’erano filata.
Dopo la disfatta dell’autunno
1917, il Cadorna, invece di essere suicidato sul posto, fu spedito a
Versailles, in un esilio dorato per toglierselo di torno. Al suo seguito alcuni
ufficiali già con lui al comando supremo, tra i quali il ten. col. Pietro
Pintor, zio del noto giornalista Luigi, e il colonnello Angelo Gatti, già
direttore dell’Ufficio storico e poi benevolo ma obiettivo biografo di Cadorna.
Scriveva Gatti in data 30 gennaio 1918 nel suo diario, pubblicato per ovvi
motivi solo dopo il secondo conflitto e con una Premessa a firma del figlio di Luigi Cadorna, Raffaele:
«Che idee si agitavano in quelle teste? Quale forza hanno dunque gli
uomini, per poter mangiare così tranquillamente quell’antipasto, quella
frittata, quel pollo: assaporarli; bere del buon vino; ridere, ridere, ridere,
perché la colazione fu veramente allegrissima, mentre tante cose c’erano nelle
loro teste, e tante cose intorno a loro?».
A quella colazione, a Versailles,
era presente il capo del governo italiano, on. Orlando, con i polsini ancora
sporchi – annota Gatti – come alla conferenza di Rapallo. E – soggiunge il
colonnello – le unghie un pochino velate di nero. Era presente anche Sonnino,
con l’aria di un fanciullone cresciuto troppo presto. Il giorno 7 febbraio,
Gatti registra:
«Cadorna voleva vedere Chartres, Fontainebleau e la Malmaison. Nella
visita a Fontainebleau, ciò che mi ha più colpito in Cadorna è stata l’affannosa
ricerca della ricostruzione della scena dell’addio di Napoleone. Dal primo
momento, ha chiesto quale era la corte degli addi. Per tutto il palazzo, pur
guardando le meraviglie di tanti re e di tanti secoli, non faceva che
domandare:
“Dov’è l’appartamento di Napoleone? Dov’è la stanza dell’abdicazione?
Dove si è voluto suicidare?”
Era una cosa dolorosa. La guida era un poco stupita. Si vedeva che il
generale ravvicinava in sé la propria sorte a quella di Napoleone».
Ecco, mentre decine di milioni di
esseri umani soffrivano le più dure privazioni, e molti di loro venivano immolati
sui fronti di guerra con le motivazioni patriottiche più assurde, le élites se
la spassavano. E difatti lo stesso Gatti ebbe a scrivere: «Le classi ricche o agiate hanno assolutamente tutto ciò che
desiderano. Basta pagare! Si paga un po’ salato, questo e vero».
Per quale motivo non si sarebbe
dovuta fare la rivoluzione?
(*) Per un quadro clinico molto
espressivo di D’Annunzio suggerisco il libro di Mark Thompson, La guerra bianca, vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Il Saggiatore, 2009. In
particolare le pp. 270-71, quelle sull’operazione Timavo.
E però le responsabilità furono
anzitutto politiche, sia dal lato dei rapporti internazionali e dal lato della
preparazione militare al conflitto. Basti dire che la milizia territoriale,
impegnata nelle piazzeforti e nella difesa costiera, era dotata del fucile del
1870, il Vetterli, il quale in origine, come arma dell’esercito svizzero, aveva
un serbatoio da 11 colpi. Temendo uno spreco eccessivo di proiettili, il regio
esercito ne acquistò una versione a colpo singolo! La regia marina lo fece poi
modificare nel 1882 portandolo a 8 colpi, mentre l’esercito nel 1887 adottò a
sua volta una versione con serbatoio di 4 colpi. Con oneri di studio e
realizzazione a carico dell’erario, ovviamente. Il fucile subì poi un’altra
modifica nel 1916, fu portato a 6 colpi! Altro che il Carcano modello 91, buona
arma, come sapeva Lee Harvey Oswald. V’è da dire che il Vetterli venne
impiegato ancora nel 1935 nella guerra d’Etiopia, e quelli monocolpo del 1870,
non riconvertiti, rimasero in dotazione alle truppe coloniali.
A fine maggio 1915, i fucili mod.
1891 in dotazione erano 760mila, 170mila le carabine; le armi modello 1870/78 erano
1.316.000; appena 618 mitragliatrici, cioè due terzi di quelle previste in
organico. Il munizionamento era costituito: 900 colpi per fucile, 700 per
moschetto, 100mila per mitragliatrice. Non si deve supporre, posto che questi
numeri ufficiali corrispondano ai reali approvvigionamenti preso i reparti e i
depositi, che tali quantità fornissero un’adeguata riserva di alimentazione.
Ponendo un volume di fuoco per le mitragliatrici di 3-4mila colpi/die, considerata
la tendenza a far largo uso del poco produttivo tiro frontale e la deficiente
coordinazione di fuoco, dunque dello spreco di munizionamento, le dotazioni indicate
sono sufficienti per appena un mese. Non va molto meglio per i fucili, tenuto
conto che molto munizionamento va disperso e altresì sprecato. I dati numerici
sono tratti dall’allegato n. 31 (tab. in p. 39) al vol. I-bis, L’esercito italiano nella grande guerra,
Ministero della Guerra, Uff. Storico, stampato presso il Provveditorato gen. dello
Stato, 1927.
(**) Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, Treves,
1934, p. 166.
(***) Il comando generale del
Genio, in un documento classificato “riservatissimo”, datato marzo 1918, dirama
la traduzione di una pubblicazione dello Stato Maggiore britannico contenente
dei principi generali di difesa campale e di lavori campali, con relativi
schizzi, tra i quali una tavola (la n. 12) raffigurante l’approntamento di una
latrina profonda fuori del camminamento (cfr. Ministero della Difesa, Ufficio
Storico, L’esercito italiano nella grande
guerra, vol. VI, tomo 2°, Le
istruzioni tattiche del Capo di S.M. dell’Esercito, 1917-18, Roma 1980, p.
357 e sgg.). Con Armando Diaz si passò da una concezione bellica di stampo
ottocentesco a una più aderente le circostanze.
(****) Difatti a Diaz, ridotto
notevolmente l’arco del fronte, fu più agevole mettersi in difensiva, avendo
peraltro per non breve tratto un corso d’acqua importante come linea d’arresto.
Le dispense sulla Rivoluzione francese (*) e le attuali sulla recente Storia italiana - anche per medaglioni -, per chi non se ne fosse occupato in precedenza per curiosità o altro, costituiscono un quadro di riferimento per un'analisi delle situazioni sociopolitiche attuali. Anche una passeggiata sulla Prussia sarebbe interessante per comprendere meglio da Ulbricht alla Merkel stessa (su Weimar non serve, argomento trito e ritrito).
RispondiElimina< Fatta l’Italia, si disse, restano da imbastire gli italiani > Non serve più, vediamo cosa succederà tra Pordenone e Innsbruk, Pavia è in forse se stare con Piacenza o le Langhe; alla griffe Armani è stato affidato lo studio per il design dei nuovi passaporti.
Consultando le proiezioni demografiche sul lungo periodo si constaterà che tra non moltissimi anni di italiani con il DNA in regola ne rimarranno ben pochi.
Se si pensa che molti Paesi che ci circondano hanno popolazioni con il 60 % e più di trentenni e forse anche di età inferiore. Andrò in piazza con la badante, ammesso e non concesso che questi lords mi paghino la pensione.
Felice che il tema dell'alfabetizzazione sia stato messo al primo posto.
(*) Sondaggio poco frequentato.Peccato! Anche tra mille esegeti il confronto Soubul e Furet fornisce (per me) un quadro 'quasi' esaustivo. Grazie, bene prof.
lr