La necessità di espandersi per il
capitale è vitale, come necessità di trovare nuovi mercati, manodopera sempre
più a buon prezzo e disponibilità di materie prime. È vero altresì che durante
tutto l’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento le crisi periodiche erano
considerate inevitabili e si sapeva che dopo qualche tempo si sistemavano;
anzi, da un certo punto di vista tali crisi cicliche erano considerate
benefiche perché permettevano ai capitali più forti di concentrasi in posizioni
monopolistiche.
La crisi degli anni Trenta, nota
come Grande Depressione, fu notevolmente diversa dalle precedenti per intensità
e vastità. Essa poteva segnare un punto di svolta per il capitalismo. Sappiamo che il capitalismo ne uscì per due motivi fondamentali,
ossia a seguito della più cruenta e distruttiva guerra l’umanità abbia
conosciuto, e per l’affermarsi di nuovi prodotti di consumo individuale che
diedero impulso a produzioni su una scala incommensurabilmente maggiore che nel
passato. Seguirono nel dopoguerra i cosiddetti “gloriosi trenta”, ossia tre
decenni nei quali il capitalismo occidentale si sviluppò ed estese in misura
senza precedenti, a spese soprattutto del cosiddetto Terzo Mondo (il petrolio prezzava un dollaro a barile!).
Finché è esistito il monopolio
industriale e finanziario dei paesi occidentali, la classe operaia ha
partecipato ai vantaggi di questo monopolio. I vantaggi furono ripartiti al
suo interno in modo molto diseguale, e tuttavia tutti ne ebbero a beneficiare
in forma diretta e indiretta. Ed è questo il motivo principale, anche se non esclusivo, dapprima del riaccendersi delle lotte operaie volte ad ottenere migliori condizioni di vita, e
poi, ottenuti i miglioramenti, ossia l’accesso ai consumi di massa e alle
tutele sociali, del rifluire del movimento operaio e delle sue lotte.
Si deve considerare con assoluto
rilievo il fatto che le generazioni nate tra il primo e il secondo
dopoguerra in Occidente, e che avevano conosciuto i fascismi e le relative conseguenze, hanno potuto accedere progressivamente, a partire soprattutto dagli
anni 1960, a un benessere tutt’altro che relativo sotto il profilo dei consumi,
delle tutele e delle prestazioni sociali, rispetto a qualsiasi epoca passata. Tutto ciò è stato reso possibile, come detto, dai
vantaggi del monopolio occidentale e dalle politiche espansive della spesa pubblica sia a sostegno del welfare e sia in senso anticiclico. Né va trascurato il peso che ebbero i
partiti di sinistra in Europa, avvantaggiati anche della contrapposizione geopolitica
tra i due grandi blocchi.
La fine del monopolio e del mondo
bipolare, l’avvio della cosiddetta globalizzazione e gli accordi sul libero
commercio, il consolidarsi in posizioni di totale autonomia delle grandi
multinazionali, la finanziarizzazione dell’economia globale, hanno significato
anzitutto stagnazione, la ricomparsa della povertà, disoccupazione e precariato
di massa, ossia la perdita per la classe operaia della precedente posizione
privilegiata; la tendenza di lungo
periodo è di venir ricondotta tutta intera – compresa la parte più privilegiata
(quella che un tempo Engels chiamava “aristocrazia della classe operaia
salariata”) – a livelli prossimi a quelli dei lavoratori degli altri paesi.
C’è da chiedersi, a questo punto,
per quale motivo non riprenda il ciclo di lotte che caratterizzò i primi tre
decenni del dopoguerra, e sia invece subentrata una cupa rassegnazione. Volendo procedere ancora per schemi e semplificazioni, c'è da osservare anzitutto e da un lato, di là delle questioni di natura segnatamente di carattere internazionale e di crisi
degli istituti politici borghesi, lo
smantellamento della struttura produttiva delle grandi fabbriche e dunque delle
condizioni stesse che consentivano un rapido e immediato collegamento e
coordinamento tra grandi masse di operai. Dall’altro, con il ricambio
generazionale, si assiste al mutamento per così dire “antropologico” della classe operaia e alla sostanziale trasformazione o scomparsa delle
strutture organizzative nel ruolo tipicamente sindacale e politico di un tempo.
Il tutto nel quadro di una certa conservazione/resistenza all’erosione
progressiva dei livelli di reddito e di assistenza precedenti, favorita da
motivi di consenso politico-elettorale e di pace sociale. Né del resto va
sottovalutato il peso della manipolazione mediatica a tutti i livelli.
Mutamento “antropologico” peraltro
non nuovo nelle fasi di maggior sviluppo del ciclo capitalistico, tanto è vero
che Marx poteva ai suoi tempi rilevare come man mano che la produzione
capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione,
tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo
di produzione. Poco importa a una classe operaia che ha raggiunto livelli sociali
prima inediti, sapere che solo una piccola parte del suo lavoro è pagato e che
per il resto è appannaggio dei profitti e di una classe di ricchissimi
Vanderbilt, possessori di tutti i mezzi di produzione. Né gli importa più,
almeno fino a quando non si sono fatti sentire gli effetti della
globalizzazione e della crisi innescata dal crollo dei corsi finanziari, la
tendenza del sistema capitalistico a dividere la società in due grandi classi,
quella salariata e propriamente proletaria da una parte e una classe di
milionari dall’altra.
A ciò va ad aggiungersi un altro
dato di grande rilevanza, che agisce potentemente come freno per il costituirsi e l'organizzarsi di movimenti di ispirazione realmente rivoluzionaria, ossia il sostanziale fallimento delle esperienze nate
con la rivoluzione russa e con quella maoista, per tacere di episodi di tragico
delirio come quelli cambogiani, e l’idea, peraltro alimentata ad arte dalla borghesia e per decenni condivisa dai partiti comunisti europei, pur
con qualche distinguo, che quelle esperienze, soprattutto quelle dell’Est, fossero
il prodotto genuino e sostanzialmente
esaustivo dell’alternativa comunista
al capitalismo. Inoltre è stata fatta passare anche un’altra idea dai partiti
della sinistra europea, intaccati dal verme
del cristianismo e dimentichi della storia e della dinamica economico-sociale del capitalismo, ossia quella
della possibilità di un socialismo che superasse tutti gli antagonismi e le
lotte di classe, aspirando a conciliare gli interessi contrastanti delle due
classi in un’umanità superiore.
A tale riguardo, ossia a riguardo delle classi dirigenti, valgono le parole di Engels: “o si tratta di novizi
che hanno ancora molto da imparare, o sono i peggiori nemici degli operai, lupi
in veste di agnelli”. Diciamo che si tratta di iene, di sciacalli e
sciacalletti che hanno interpretato, per una stagione, il ruolo di gattopardi.
Sempre complimenti...ogni post rimette in ordine i tasselli del puzzle...
RispondiEliminaNe aggiungerei uno a proposito del "benessere tutt’altro che relativo sotto il profilo dei consumi": la quantità gigantesca di benessere procurato come frutto della rapina ai danni del territorio e delle risorse naturali.
"Le generazioni nate tra il primo e il secondo dopoguerra in Occidente" hanno consumato, sperperato, cementificato, distrutto, inquinato come non era mai successo prima nella storia dell'umanità. Il loro silenzio e la loro complicità sono stati comprati a debito con un benessere fittizio...che altri stanno già iniziando a pagare.
ciao,g
hai perfettamente ragione, ed infatti ho in cantiere un post dove accenno alla questione (non è per domani poiché ci sarà invece un post propositivo sulle nuove forme della politica). un abbraccio
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