Entrando
in una libreria, la prima immediata riflessione può essere: ma quanta merda è
prodotta dall’editoria! Si monetizza la notorietà mediatica con opere che
resistono immortali per una stagione, quando va bene, come quelle di Scalfari-Mancuso,
del didattico Augias, di frau Gruber, dell’apodittico Messori, del defunto
Martini, dell’eminenza Ruini, dell’immancabile Latouche, di Michela Marzano in Ballarò, di Federico Rampini,
l’infaticabile prosatore del NYT. I libri
che hanno fatto la storia delle idee non sono invece riproposti e non li legge
quasi più nessuno.
«Finché l’Inghilterra ha avuto un monopolio
virtuale dei mercati mondiali per certe importanti classi di prodotti
manufatti, l’imperialismo non era
necessario. Dopo il 1870 questa supremazia nella produzione e nel commercio
è stata molto indebolita: altre nazioni, specialmente la Germania, gli Stati
Uniti e il Belgio, sono avanzate con grande rapidità, e, benché non abbiano
ancora distrutto e nemmeno fermato la crescita del nostro commercio estero,
tuttavia la loro concorrenza ha reso sempre più difficile utilizzare con buon
profitto il sovrappiù complessivo dei nostri prodotti. L’ingresso di queste nazioni neo nostri
mercati, perfino nei nostri possedimenti, ha reso urgenti misure energiche per
assicurarci nuovi mercati. […] I
nuovi mercati […] formano uno sbocco
indispensabile per la sovrapproduzione delle nostre grandi industrie tessili e
meccaniche».
Queste
parole sono state pubblicate nel 1902 da uno scrittore e giornalista liberale, John
Hobson, in Imperialism, tradotto circa
quaranta anni fa anche in italiano dall’ISEDI, un’opera considerata
“fondamentale” da un certo Vladimir Ilich Ulianov. Essendo diventato il nome di
Lenin impronunciabile, almeno nel momento, credo sia di sicuro interesse
rileggere quanto scriveva Hobson nella sua analisi delle cause economiche
relative alla nuova forma assunta dell’imperialismo moderno. Del resto, la
globalizzazione di cui si parla oggi, non è altro che l’imperialismo hobsoniano
mutato di nome e dotato di nuova dimensione e forza, i cui scopi fondamentali sono
rimasti inalterati: esportare merci e capitali, controllare i mercati,
sfruttare profittevolmente le risorse umane e naturali delle aree meno
sviluppate. Il saggista inglese, inoltre, non ignorava affatto il ruolo dei
produttori e spacciatori di oppio:
«L’influenza diretta esercitata dalle grandi
aziende finanziarie sull’”alta politica” è sostenuta dal controllo che esse
esercitano sul corpo dell’opinione pubblica attraverso la stampa che in ogni
paese “civile” sta diventando sempre più un loro obbediente strumento. […] A Berlino, Vienna e Parigi molti giornali
influenti appartengono alle aziende finanziarie che non li usano principalmente
per trarne profitti, ma per suscitare nell’opinione pubblica credenze e
sentimenti tali da influenzare la politica nazionale e di conseguenza anche il
mercato del denaro».
La
nuova fase dell’imperialismo, dopo aver reso universali gli accordi sul libero
commercio, sta producendo cambiamenti importanti che i media diffondono in modo
alterato anzitutto per quanto concerne il modello e stile di vita, il welfare e
il rapporto tra borghesia e classi salariate. In realtà, per lungo tempo con i
sovraprofitti realizzati nello sfruttamento dei cosiddetti paesi in via di
sviluppo, la borghesia ha potuto corrompere le classi subalterne dei propri
paesi e i loro mentori politici e sindacali, creando una classe media moderata,
riformista e solidale con gli interessi di campo.
Nella
nuova fase, per diversi motivi, alcuni strettamente economici legati
principalmente alle dinamiche dei flussi della ricchezza, cioè dei profitti, e
altri più genericamente ideologici, la situazione è cambiata. Bisogna tener
conto che i capitalisti, in quanto tali, sono interessati solo all’acquisto e
allo sfruttamento della forza-lavoro; ma, al di fuori del rapporto di scambio e
di sfruttamento, ogni costo diventa per loro improduttivo, irrazionale e,
dunque, assolutamente privo d’interesse.
Del
resto, ha ragione Mitt Romney. Perché mai il capitalista che, a differenza dei buoni
filantropi, è tutto proteso alla ricerca “scientifica” del massimo plusvalore
estraibile dalla forza-lavoro acquistata e dalla sua massima realizzazione sul
mercato, dovrebbe sprecare il suo tempo e il suo denaro per risolvere i problemi
che affliggono quei gruppi sociali – come i vecchi, i bambini, gli
handicappati, i marginali di ogni genere – incapaci di valorizzare in una sia
pur minima misura il suo capitale? Inoltre, lo Stato, nelle metropoli occidentali,
non è più interessato alla riproduzione della forza-lavoro, se non in misura
marginale e selettiva, dal momento che il capitale multinazionale può trovare
ciò che gli serve altrove e a miglior prezzo.
Per
sostenere tale strategia di rimodulazione dell’ordine politico e sociale
dell’epoca gloriosa del welfare, il grande capitale, alcune centinaia di
holding industriali e finanziarie, ha bisogno di intervenire ancor più decisivamente
e direttamente, in spregio a ogni finzione democratica, nella scelta del
personale politico imperialista, capace di tradurre operativamente una
ristrutturazione radicale e efficiente, da piazzare nei nodi strategici degli
Stati e ai vertici dei grandi istituti finanziari. Liquidando, quindi, gli
elementi non allineati, com’è già successo platealmente e non mancherà di
verificarsi ancora, così come la zavorra inetta, rozza e corrotta che per l’innanzi
la borghesia imperialista aveva usato per i propri scopi.
Per
quanto riguarda direttamente l’Europa, abbiamo prova di questo fenomeno nel
progressivo trasferimento/svuotamento – in nome di superiori e quanto mai
fantomatici interessi comuni – di sovranità dagli Stati nazionali a favore di
organismi sovranazionali solo in parte elettivi e comunque lontani da ogni sia
pur formale controllo dal basso. E n’è prova anche la crisi dei vecchi partiti
politici nazionali, alimentata e amplificata sapientemente dai media. Lo stadio
patologico purulento dei partiti è stato raggiunto soprattutto in Italia, ma il
discredito verso di essi è presente o cova anche in altri paesi.
ottimo articolo che ci fa ben capire che non ci sara' nessuna "politica" in grado di arrestare la " discesa agli inferi" della fu "classe media" e la distruzione di tutti quei meccanismi di equilibrio sociale che negli ultimi 150 avevano parzialmente "temperato" le ferree conseguenze di una societa' basata sulla mera accumulazione capitalistica.
RispondiEliminaSolo una rivoluzione anticapitalistica potra' quindi arrestare un processo che portera' alla vera schiavitu' le " masse" , cioe' la stragrande maggioranza del genere umano .