Alcuni giorni fa rovistavo (è il termine esatto) tra
le cianfrusaglie della casa avita, tra ritratti della principessa Diana,
carabattole old england, libri di cani e cavalli di scarso pregio e un disco 33
giri, The britsh remixes. Non l’ho
trovato sul vecchio Grundig con
piatto giradischi, peraltro aut, ma dentro la credenza (ciò dà il senso
dell’ordine di certe persone, per tacere del concetto d’igiene dei britannici).
Dico al mio chauffeur, cioè a mio
figlio, che me lo sarei ascoltato al ritorno a casa, per vedere un po’ di cosa
si tratta. Lui risponde che se voglio posso ascoltarne subito il contenuto. Sì,
gli faccio, leggo il microsolco con il dito! Lui sorride e cava fuori di tasca
l’aggeggio dei miracoli. Si collega a youtube e mi fa ascoltare le stesse
canzoni del disco.
Perdonatemi l’ameno e compiaciuto ricordo, il quale
però mi serve per avere lo spunto per dire che solo trent’anni fa questo fatto
sarebbe stato considerato teoricamente ipotizzabile ma collocato in un futuro
del quale non si intravvedevano nemmeno le propaggini. Non c’erano ancora i compact disk in commercio e la Tv a
colori noi l’avevamo da appena alcuni anni, e per scrivere si usavano
comunemente le Olivetti e la scheda
telefonica stava soppiantando l’era dei gettoni e ciò ci faceva sentire più
liberi e leggeri.
In pochi lustri la rivoluzione portata dalla
microelettronica e dall’informatica ha cambiato le nostre vite. Ma non ancora con
i risultati che sarebbero possibili. Le potenzialità di applicazione di queste nuove
tecnologie non sono state ancora impiegate al meglio o non lo sono affatto,
specie nella sfera burocratica, tanto più in Italia, considerando pure che la
situazione del centro-nord è diversa da quella di certe aree del sud. E
tuttavia il processo è in atto, esso potrà essere ritardato ma non impedito.
Questo movimento verso
l’informatizzazione ha provocato e causerà ancora disoccupazione di massa. E
tuttavia l’innovazione non riduce né le ore di lavoro e nemmeno lo sfruttamento.
E tutto ciò dipende essenzialmente da un fatto, così come lo descrivevo in un
post recente: il vero
limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, laddove lo sviluppo
incondizionato delle forze produttive sociali viene permanentemente in
conflitto con il suo fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.
Di modo che la produzione capitalistica
trova nello sviluppo delle forze produttive un limite che nulla ha a che vedere
con la produzione della ricchezza in quanto tale, poiché non viene prodotta –
per dirla con Marx – troppa ricchezza, ma
perché viene prodotta ricchezza nelle sue forme capitalistiche che hanno un carattere antitetico.
Teoria che annoia, non date retta.
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