Dopo
che l’utopia neoclassica dell’”equilibrio
perfetto” si dimostrò per quel che era, iniziarono a farsi strada, presso
gli apologeti del capitalismo J.A. Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi
di una “teoria dei cicli” che non era
altro che una presa d’atto della natura ciclica del capitalismo. La crisi
generale del 1929, infine, con la sua sconvolgente drammaticità, rendeva
indilazionabile mettere i piedi per terra, ossia abbandonare l’utopia ed
escogitare nuove giustificazioni.
Ad
assumersi il compito teorico di tranquillizzare la borghesia e offrire nuovo
alimento all’idiozia degli economisti e al relativo parterre, provvide Y.M.
Keynes, uno del pensatoio di Cambridge, con la sua Teoria Generale dell’occupazione,
dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1935. Tale teoria
rappresenterà, per parecchi decenni, una specie di catechismo negli atenei occidentali
e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa potranno
beatificare l’intramontabilità del capitalismo.
La Teoria
generale inizia con una serrata critica alla “teoria neo-classica”:
“Dimostrerò che i postulati della teoria
neo-classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non in
senso generale, la situazione da essa supposta essendo un caso limite delle posizioni di
equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso
particolare, supposto dalla teoria neo-classica, non sono quelle della società
economica nella quale effettivamente viviamo; e che quindi i suoi insegnamenti
sono ingannevoli e disastrosi, se si cerca di applicarli ai fatti
dell’esperienza”.
In
altri termini, Keynes sostiene che la teoria neo-classica, della quale egli in
passato era stato uno degli più eminenti esponenti, è un’invenzione, una fola
che non ha nulla a che vedere con il mondo reale. Keynes nel suo “modello”
della Teoria generale prende atto che
il sistema capitalistico, lasciato alla sua spontaneità, non tende
all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori a causa della divaricazione
tra domanda e offerta. Invece di indagare a fondo le cause di tale
“disarmonia”, peraltro scoperte da Marx, s’inventa a sua volta una bizzarra “legge psicologica” che chiama della “diminuzione della propensione al consumo”.
Che
Keynes sia un ciarlatano al pari degli altri suoi colleghi, compresi quelli
venuti dopo, è evidente. Egli sostiene che per ricondurre il sistema
all’equilibrio di piena occupazione, è necessario produrre una domanda
aggiuntiva, “aggregata”, tramite l’intervento dello Stato, che si esplica
essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse, la politica
fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli investimenti per
determinarne il volume complessivo (aggiungo, a chiarimento, che le politiche di sostegno della domanda da parte dello Stato sono vecchie come il cucco. Del resto il New Deal cominciò ben prima della pubblicazione della Teoria generale, opera di cui non si tenne conto in Germania, ecc).
Appare
chiaro come Keynes, nonostante la sua critica ai neo-classici, rimane
sostanzialmente tutto interno al loro quadro di pensiero. Anche per lui,
infatti, alla base dei movimenti economici stanno non ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre dai
neo-classici vengono utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della determinazione dei prezzi, in lui
giustificano la tendenza, ugualmente “misteriosa”,
del sistema allo squilibrio.
Keynes,
cioè, prende atto di una contraddizione reale, ma impossibilitato (data la sua
posizione di classe) ad individuarne le cause vere, non può far altro che
rifugiarsi, come i suoi predecessori, nella “psicologia”. Così facendo, infatti,
la contraddizione perde il carattere capitalistico
per assumerne uno “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che
contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana; non è quindi il
modo di produzione che va cambiato, ma la testa degli uomini!
Pertanto,
anche quando si assume e riassume il punto di vista di Keynes per criticarlo
[*], sostenendo che lo “stimolo artificiale della domanda” produce guasti al
sistema provocando infine un enorme debito, cosa alla quale avrebbero
contribuito “in ugual modo la propaganda pubblicitaria e la filosofia dei
maîtres à penser della sinistra sessantottina”, si rimane esterni e lontani dalle
cause reali della crisi
capitalistica, con il rischio concreto di prendere lucciole per lanterne.
Ancora una volta la contraddizione perde
il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”, in questo caso quello
dell’avidità, “l’incontinenza di Bassanio e di Antonio, la loro incapacità di
adattare le loro aspirazioni alle loro risorse”.
Oggetto
e terreno della contraddizione fondamentale del modo di produzione
capitalistico, dalla quale sono generate a cascate le altre e quindi la crisi,
non ha nulla a che fare con la circolazione, il consumo, il debito, eccetera.
Per farsene persuasi, è sufficiente prendere contatto diretto con Marx, senza mediazioni, altrimenti sarà destino
perdersi in ciacole dai tratti reazionari.
TI dirò: hai del tutto ragione, la mia critica all'incontinenza di Bassanio e Antonio è sbagliata. Altrove avevo preso le distanze da questa interpretazione moralistica, e qui ci sono cascato a pié pari (e ti dirò perché: per "salvare" Shylock ed evitare malintesi). Si tratta di un'incontinenza, magari, ma è *necessaria*, è una fuga in avanti dalla minaccia (pre-esistente) della crisi. Riguardo al resto della tua argomentazione sono d'accordo, anche sul fatto che Keynes e ideologie annesse non sono il primo motore della crisi, ma (come ho scritto altrove) un tentativo di riformare il sistema capitalista per rimandare la crisi (rendendola più catastrofica).
RispondiEliminala cosa ti fa onore
EliminaHo dunque aggiunto una frase per chiarire la questione: "Eppure come mi fa notare acutamente la blogger Olympe de Gouges sarebbe sbagliato, fuori dalla commedia shakesperiana, attribuire all’incontinenza degli uomini la responsabilità di una crisi strutturale. Se Antonio e Bassanio s’indebitano, è perché non possono fare altro. E se il correttivo keynesiano ha avuto tanto successo, è perché si trattava l’unico modo di rimandare il collasso, già previsto in agenda, dell’economia capitalista."
RispondiEliminaCommento ECCELLENTE!
RispondiElimina"Bisogna rifare il new deal", "il keynesismo", "l'intervento dello stato a supporto della domanda"... cose di questo genere le sento soprattutto da "sinistra" e posso dirti che sono anche stufo.
Ben vengano gli interventi come il tuo.
Un appunto. La propensione al consumo e quella al risparmio può assere calcolata anche in modo oggettivo: siffatta è uno strumento POTENTE per le politiche fiscali, di crescita e di redistribuzione. Il fatto è che nessuno entra mai nel merito, perché si scoprirebbe che la propensione al consumo è al massimo tra gli operai (vado a memoria: mi pare intorno al 87 per gli operai contro il 70 ca. per i manager e poco più del 50 per gli autonomi). Se ne conclude che per rilanciare i consumi e l'economia bisogna redistribuire, anche secondo la teoria capitalista. Ovviamente, questo in tv, ma neanche altrove, non te lo diranno mai. meno male che certi dati si pubblicano ancora: li trovi tutti sul sito della Banca d'Italia.
Un invito. Vedo che ultimamente ti interessi sempre più di economia in generale e non soltanto di Marx. Non può che farti onore. Ti propongo anche Piero Sraffa, "Produzione di merci a mezzo di merci".
Due curiosità. La prima. L'ultima volta che sono passato in biblioteca della Facoltà di Economia avevo chiesto quante volte e con quale frequenza sia stato prestato il suddetto libro. La risposta è a dir poco curiosa, solo due volte da quando è stato pubblicato.
La seconda. Sraffa non ha mai finito il libro, e se lo leggi con attenzione capirai perché. Così capirai anche perché un capolavoro del genere non entrò mai nella "sintesi". Anche se personalmente sono convinto che dentro di sé il libro lo ha finito del tutto perché non era di certo uno sprovveduto. Lo si capisce dal linguaggio altamente rigoroso che adopera.
saluti
purtroppo non posso risponderti a lungo. il libro di Sraffa l'ho letto negli anni settanta. Grazie, ciao.
EliminaTutto bene Olympe? Problemi di salute, forse? Nel caso, in bocca al lupo. Buonanotte.
RispondiEliminahai un'estimatore...!
RispondiEliminahttp://graisani.blogspot.it/2012/10/dialogare-ed-ascoltare.html
Hum... non sono mica troppo d'accordo con quello che c'è scritto in questo articolo.Che keynes fosse un liberale e non metteva al centro delle sue analisi la questione di classe (e solo "il fattore lavoro" come dinamica dipendente del capitale) ne siamo tutti convinti. Che keynes voleva salvare il capitalismo dalle sue contraddizioni direi pure! Mi pare che leggendolo si possa leggere tutto del suo pensiero a volte "sfacciato" (sia cn liberali che con socialisti). Però "Il fattore umano" per keynes non era certo da cambiare. Era da cambiare la forma capitalista perchè "non poteva riprodursi in uno stato di incertezza". Che l'incertezza fosse un fattore umano è chiaro. Ma non era certo un'accusa ad una presunta mentalità da cambiare. Keynes non ha proposto di "cambiare filosofia" (come chiedono invece gli ultraliberisti di oggi - tipo: "siate meno choosy") nell'approccio della vita umana con l'economia. Al contrario, a mio avviso ha proposto di modellare (nei limiti del possibile) l'attività del capitale perché potesse adattarsi ad un modello di società. Questo poteva avvenire solo ed esclusivamente con una guida politica e collettiva dell'economia.
RispondiEliminaSinceramente questa lettura "alternativa" di keynes mi pare molto falsa.