Morena
ci invita a fare un giro per i bàcari veneziani. Magari, cara Morena. Sai bene
che i bàcari non esistono più, da tanto tempo. Sono stati rimpiazzati – come del resto
le librerie antiquarie (dove trovavi tesori per tutte le tasche, anche per
quelle dei ragazzini) e le botteghe dove l’artigiano intagliava e dorava
cornici, restaurava e “lustrava” mobilia – dai negozi, dicevo, di
cianfrusaglie e da bar gestiti da foresti. Sono scomparsi i clienti dei bàcari
e quindi, inevitabilmente, la ragion d’essere di questo tipo di locali, dove si
gustava il cicchetto e sorseggiava per lunghi momenti l’ombra di vino,
rigorosamente bianco e leggero il mattino, rosso il pomeriggio e più corposo la
sera. T’incontravi e scambiavi, lo spirito giostrava, socializzavi, tanto per
dirla come usa oggi. Che poi, lo sappiamo bene, il rito dell’ombra è antico
quanto il campanile, probabilmente di più. Sotto di esso, seguendo lo
spostamento della sua ombra, appunto al riparo dal sole a chiodo, un tempo, in
piazza San Marco e altrove, si serviva cibo ma soprattutto vino.
Oggi c’è il tramezzino e lo stuzzichino, ma non è per questo motivo che Venezia non esiste più da almeno quarant’anni, ossia da quando è cominciato, massiccio, l’esodo verso la terraferma ed è diventata approdo di turisti frettolosi, senza alcuna autentica curiosità per l’esplorazione, vomitati da gigantesche navi, da jumbo che partono da Tokio e New York, da pullman con la targa dell’Est. La degradazione di tutte le condizioni esistenti si è quindi accompagnata – come sempre avviene nella decadenza – con architetti, restauratori e imprenditori di demolizioni, la stessa gentaglia che ha ben organizzato economicamente il traffico dell’“arte moderna” o di quella antica scrupolosamente in stile hollywoodiano.
Basta
vedere lo scempio della chiesa di San Moisé, la cui facciata – ora di un bianco
abbacinante – è stata semplicemente raschiata a fondo. A fianco, alcuni decenni
prima, era stato costruito l’albergo Bauer, nella cui brochure si legge: “L'Hotel si riconosce per la singolare
facciata”! Per tacere di quanto è avvenuto in campo San Luca, e anche altrove.
Cosa ne possono sapere i visitatori sempre più plebei (in senso culturale, non
economico!!) di cosa è stata un tempo la bellezza e la reputazione di una
simile città?
E anche la memoria di quello che fu
effettivamente la vita popolare a Venezia ha lasciato poche tracce, quando invece
ancora negli anni Sessanta, al più tardi all’inizio del decennio successivo, si
potevano ascoltare i racconti di chi era giovane o almeno adolescente sul
finire del secolo precedente. Potevano costoro, a loro volta, testimoniare
quanto avevano udito dai loro vecchi e di ciò che si tramandava. E adesso, esattamente
negli stessi luoghi, perfino i gatti non mi sembrano più gli stessi.
Struggente questo post, Olympe. Il tempo passa per tutti. Però, come diceva Falcone, ogni manifestazione umana ha un inizio, uno sviluppo e un termine. Perciò quando sono le cose belle a finire, si è tristi, ma per nostra fortuna ci sono anche quelle brutte che terminano e lì, allora, si gode. In ogni caso, sai che palle - o che disperazione - se non cambiasse mai nulla? Come essere immortali! Chi lo vorrebbe veramente? Ioooooo.....! Un abbraccio.
RispondiEliminaciao, Giorgio.
Eliminahai ragione, ma c'è modo e modo di far "passare" (e conservare) il tempo e non tutto è ineluttabile. credo poi – ma è un giudizio del tutto personale – che l'eternità o anche solo una vit troppo lunga, possa diventare noiosa e troppo malinconica.
ricambio l'abbraccio
Olympe, la malinconia, in un certo senso, è resistenza. Cristallizza nella memoria la bellezza perduta, e la salva.
RispondiElimina:-)
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