L’amico Luca mi chiede di scrivere due righe a
proposito di una serie di post comparsi su codesto blog che intesta: “La fine dei tempi nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica”. Francamente non comprendo il senso di tale
intestazione, peraltro scritta di merda. Il titolo di questi post è invece
apparentemente più eloquente: “La fine
del lavoro culturale – una tragedia borghese”.
Due i punti essenziali sollevati e ora scrivo del
primo:
«Il problema
oggi non è che il lavoro culturale «non produce ricchezza», come direbbe un
Tremonti, ma innanzitutto che ne consuma troppa. In effetti, per produrre beni
e servizi si impiegano altri beni e servizi, i cosiddetti fattori produttivi.
Questi fattori produttivi, si tratta di stabilire come allocarli. Il lavoro culturale
è peculiare perché la sua specifica funzione economica è di consumare la
ricchezza al fine di offrire uno sbocco alla sovrapproduzione».
Anzitutto, in senso stretto, che il lavoro culturale offra uno sbocco alla sovrapproduzione, è vero come per ogni altro
genere di lavoro o sfera di attività, per qualsiasi forma di consumo, sia essa
espressione di salario o di reddito.
S’è questo che s’intendeva dire. Così come non è vero che tutto il lavoro della sfera culturale sia improduttivo e consumi troppa ricchezza. Dipende da cosa
s’intende per “lavoro culturale”, ossia se esso si scambia con reddito o
capitale, e da cosa s’intende per “ricchezza”. Come tutte le categorie
dell’economia politica, anche quelle che riguardano il tipo di lavoro o di
ricchezza sono categorie storiche legate
a un determinato modo di produzione.
Il critico d’arte che tiene una conferenza
sull’impressionismo astratto, per quanto la sua conferenza possa rappresentare
grande interesse per numerosi idioti, non svolge un lavoro produttivo,
nonostante le sue elucubrazioni servano a far vendere i pastrocchi degli
“artisti”. Un oggetto d’arte, sia un’opera di Raffaello o uno specchio rotto di Michelangelo Pistoletto, si scambia con
reddito, non con capitale. Viceversa, quando un editore pubblica un libro per
eternare i gocciolamenti di Pollock, egli si presenta nei salotti televisivi e
nelle fiere della vanità letteraria in veste di promotore culturale, ma in
realtà è un capitalista. Eppure non si può negare che egli lavori per la “cultura”,
e la più alta!
Resta quindi da vedere perché il lavoro culturale
consumerebbe troppa ricchezza. Non
solo, come detto, le forme del lavoro e della ricchezza, ma anche il rapporto
tra produzione e consumo è sempre relativo all’ambito storico e quindi al modo
di produzione. Tanto è vero che in una società nella quale non si produce
esclusivamente per il profitto e la valorizzazione del capitale, una volta
raggiunta la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati, posta
una parte supplementare per l’estensione della produzione, quindi un fondo di
riserva o di assicurazione, tutta l’altra parte del prodotto complessivo può
essere destinata come mezzo di consumo, in ostriche e champagne o piramidi, in
tempo libero e versi sciolti.
Per quanto riguarda l’oggi, ossia il modo di
produzione capitalistico, è invece necessario analizzare non solo quanta ricchezza è consumata nella sfera culturale (troppa
si dice), ma anzitutto quale forma della ricchezza. Se per
“ricchezza” s’intende quote di plusvalore altrimenti destinato alla produzione,
allora il discorso è corretto. Se invece la ricchezza destinata al consumo
culturale è parte del reddito disponibile alle diverse classi, come quasi sempre accade, non importa
nulla di come essa venga spesa o sperperata, se il reddito disponibile si
investa in ostriche e champagne o in capolavori immortali dell’arte astratta.
La questione è un’altra e, in questo blog, cento
volte sottolineata come questione che riguarda la
diminuzione del saggio del profitto. Essa è provocata soprattutto dal fatto che il modo di
produzione capitalistico trova nello sviluppo delle forze produttive un limite che nulla ha a che vedere con la produzione
della ricchezza in quanto tale,
poiché non viene prodotta troppa
ricchezza, ma perché viene prodotta – per dirla con Marx – ricchezza nelle
sue forme capitalistiche che hanno un carattere antitetico.
Leggo ancora: «Questa
era in sostanza anche la funzione regolatrice della religione antica, per mezzo
del dispositivo del sacrificio(ovvero la distruzione gratuita di una risorsa in
eccesso). La divinità nasce appunto come «consumatore artificiale» del surplus.
Da questo punto di vista, la Chiesa cattolica ha incarnato con diligenza la sua
missione dissipatrice, così accumulando uno straordinario patrimonio
artistico».
Le religioni sono state utili al potere anche per
altre ragioni, in definitiva si rivelavano assai vantaggiose per gli interessi
politici della società e non solo per i loro consumi. Non solo, la chiesa
cattolica ha incarnato anche altro per quanto riguarda la sua funzione
“dissipatrice”. Se è vero che da un lato costruire cattedrali gotiche comporta
un consumo della ricchezza socialmente prodotta, è anche vero che tale
attività, per altri versi, comporta un incremento della produzione e uno
sviluppo delle tecniche e delle arti, sorvolando sul fatto che anche la
conoscenza tecnico-scientifica ha inevitabilmente qualcosa a che spartire con
la cultura, per non dire che lo sviluppo della scienza costituisce la forma più
solida della ricchezza ed è uno dei lati , delle forme in cui si manifesta la
ricchezza.
Breve digressione: la quantità delle risorse a
disposizione del clero cattolico antico superava largamente quello che il clero
poteva consumare da solo e non esistevano arti e manifatture con il prodotto
delle quali esso potesse scambiare il proprio surplus. Perciò il clero lo
impiegava nella costruzione di chiese e conventi, ma anche nella più “prodiga
ospitalità – come ebbe a osservare Adam Smith (*) – e nella più larga carità”.
Esso non solo manteneva quasi tutti i poveri, ma anche molti cavalieri e
gentiluomini privi di mezzi propri. L’autorità del clero decadde proprio quando
esso cessò di sostenere la carità e l’ospitalità. “I ceti inferiori del popolo
– scrive ancora Smith – non videro più quell’ordine di conforto delle loro
miserie e il riparo della loro indigenza, anzi al contrario erano irritati e
disgustati dalla vanità e dal lusso e dalla spesa del clero più ricco, il quale
mostrava di spendere per i suoi piaceri ciò che prima era sempre stato
considerato il patrimonio dei poveri”. Un po’ come capita ora con i partiti
politici da quando, per ragioni di bilancio, non possono più elargire favori e
prebende a piene mani come prima ma continuano a spendere e spandere solo per
se stessi e i più intimi.
La chiesa si diede al lusso quando trovò sul mercato
i prodotti corrispondenti – sostiene Smith –, e tuttavia a decretarne la
decadenza non fu solo un fatto soggettivo, la brama del lusso, ma lo sviluppo
oggettivo delle forze di produzione e dei relativi rapporti. Fosse dipeso solo
dall’indignazione dei poveri, la chiesa non avrebbe perso un grammo del suo
potere. Fine della digressione.
(*) Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Del reddito del sovrano o della repubblica, Mondadori, vol. II, p. 790 - 92.
Ti ringrazio per le osservazioni pertinenti : questa serie di post è un cantiere, e anche un modo di proporre ipotesi da verificare. Riguardo all'intestazione del blog, in effetti è scritta di merda, potresti spiegarmi come ottieni quel bell'effetto sfumato finto-argento su "diciotto brumaio"? Scrivimi pure in pvt xxx.
RispondiElimina- Il passaggio che citi è effettivamente vago, e annuncia uno sviluppo sulla questione della ricchezza e del calcolo del PIL che vorrei riuscire a piazzare da qualche parte. Sul concetto di "lavoro" arriverò invece con il prossimo post, se avrai modo e pazienza di leggerlo. Per esempio non sono sicuro che la strada giusta sia distinguere tra produttivo e improduttivo, mi pare una strada spinosa, moralista, che non aiuta a fare chiarezza, e che appunto non tiene conto della relatività storica del concetto di ricchezza. Trovo più utile affrontare la questione in termini di domanda e offerta. Semplificando quello che svilupperò presto, definisco consumo una forma di lavoro che produce beni per i quali non esiste domanda, e ricchezza la somma dei beni per i quali esiste domanda.
In questo senso il problema sorge dall'accumulazione di capitale (umano innanzitutto) che ha perso la sua utilità, a causa di una trasformazione del mercato che dipende da una trasformazione strutturale dell'economica che dipende probabilmente, come dici tu, da quello che chiami caduta tendenziale del saggio di profitto.
- Mi aiuti a recuperare la citazione di Smith ?