Buongiorno. L’economia è faccenda assai complicata, almeno per il modo nel quale ce la raccontano gli “esperti”, i quali usano un gergo tecnico anglosassone che è ideologia pura, distillato d’interessi di classe, nel senso che serve a mascherare la loro ignoranza dei fenomeni economici fondamentali e conseguentemente nel designare oggetti reali con termini e concetti fasulli. Ma anche e anzitutto per negare evidenza alla truffa, almeno quella più grande, ossia l’appropriazione indebita del lavoro altrui sotto mentite spoglie.
L’economia politica è invece, nelle sue linee essenziali, materia assai semplice, tanto da poter essere spiegata a degli adolescenti di terza media. Più difficile con gli adulti, specie se in qualche modo sono entrati in contatto con le teorie di Tremonti, il quale agisce come un vaccino arrogante contro l’intelligenza; del resto lui è un avvocato e sappiamo bene a quali espedienti possono ricorrere certi azzeccagarbugli in cambio di un paio di capponi (si fa per dire).
David Ricardo, l’eminente economista inglese, compendiò le sue teorie di economia politica nei Principi (On the Principles of Political Economy and Taxation), un libro di non troppe pagine dove c’è già tutta dispiegata la materia che conta. Ne scrisse con semplicità che appare inusitata e quasi provocatoria rispetto agli almanacchi bocconiani odierni. Eccone uno scampolo significativo anche per chiarezza e stile:
È naturale che ciò che ciò che è di solito il prodotto del lavoro di due giorni o di due ore abbia un valore doppio di ciò che è di solito prodotto del lavoro di un giorno o di un’ora. Che questo sia il vero fondamento del valore di scambio di tutte le cose, eccettuate di quelle che non si possono accrescere per mezzo dell’operosità umana, è dottrina della massima importanza dell’economia politica; giacché da nessun’altra fonte derivano in questa scienza tanti errori e tante divergenze di opinione come delle idee vaghe che sono attribuite alla parola valore (p. 9 dell’ed. Isedi, 1976).
Insomma, aveva già capito e presagito soprattutto cosa sarebbe accaduto in seguito ad opera degli apologeti del capitale.
Adam Smith, altro pilastro dell’economia politica classica, fu più prolisso ma non meno chiaro di Ricardo. La ricchezza delle nazioni consta di due grossi volumi, ma essi contengono una gran serie di digressioni, spesso interessantissime, come quella gustosissima e imperdibile, nel secondo volume, che riguarda i redditi del clero. Ma le cose essenziali Smith le scrisse in non molte pagine.
Quindi arriva Karl Marx, il quale scrive copiosamente, un po’ perché è un grafomane ipocondriaco ma soprattutto perché è il più grande scienziato sociale della storia, un gigante che ha capovolto il mondo delle idee dei nani d’allora rimettendolo con i piedi per terra. La sua concezione materialistica della storia è diventata senso e patrimonio comune dei viventi, tanto che anche Ratzinger, quando gli fa comodo, ne usa a piene mani. Poi ha ridato una sistemata, mettiamola così, all’intero castello dell’economia politica. Non ha scoperto il plusvalore, ha precisato in via definitiva che cos’è e cosa non è. Così per il resto. Ha scoperto invece la legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica, non preoccupandosi nemmeno di pubblicarla e lasciandone il compito al suo esecutore testamentario.
Chi sostiene che Marx abbia “descritto” il capitalismo ottocentesco inglese, è il classico tipo che di Marx, quando va bene, ha letto qualche pagina nelle dispense universitarie, in qualche articolo di rivista padronale, di quelle persone che a casa loro, nella loro concettosa biblioteca, tengono in bella mostra Il Capitale, intonso (fatto questo che mi è capitato di verificare più di una volta). Sono quelli che in internet leggono la critica crociana alla legge marxiana sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, e poi raccontano il fattaccio nei dopocena con gente “importante”, cioè i loro pari. Non sapendo che Benedetto Croce, filofascista della prima ora, si è “dimenticato”, tra l’altro, di girare pagina e di leggere il terzo paragrafo del quattordicesimo capitolo del Terzo Libro de Il Capitale. E, al di là di questo mio rilievo, forse basterebbe leggere la critica gramsciana in proposito (Il mat. storico e la fil. di B. Croce, Einaudi, da p. 211). Sono i tipi alla D’Alema, il quale voleva scrivere una tesi (poi non si è nemmeno laureato) su quel povero “kantiano e antimarxista” di Pietro Sraffa, sul suo risibile Produzione di formule a mezzo di formule (come è giusto chiamarlo).
L’ho tirata così in lungo che l’argomento per il quale ho cominciato a scrivere non trova più spazio e perciò dico arrivederci al prossimo post, dove tratterò di una cosa difficilissima, ma così complicata che l’hanno chiamata …… arduo ricordarsene solo il nome!
http://www.adnkronos.com/IGN/Sostenibilita/Tendenze/Sprecato-ogni-anno-un-terzo-del-cibo-prodotto-per-il-consumo-umano_312002042361.html
RispondiEliminaIl Link su,è la controprova di quanto da lei asserito nel post :"E' possibile? Nemmeno per necessità ",ed in particolare mi riferisco alla prima osservazione,quella sul "cibo per tutti".
Saluti,e mi scuso per il ritardo.
Luigi.
grazie
RispondiElimina