venerdì 6 maggio 2011

L'eden dei Benettòn



Sul manifesto di oggi c’è un articolo di Ernesto Milanesi dedicato alle amministrative in Veneto dal titolo: Sconfitti a casa loro. Ora la Lega teme il crac. La cosa non mi appassiona per nulla, anche perché dopo sessant’anni di DC e vent’anni di Lega e Forza Italia come fai ad avere ancora la benché minima speranza che i tempi brutti finiranno? E con chi, con il Pd? Sono tutti avvoltolati nello stesso groppo d’interessi. Il Veneto non ha quasi più rapporto con il proprio territorio e il suo passato se non nelle forme schizofreniche del “riempimento”, della caccia alle volumetrie. Non rimpiango certamente i tempi della contessa Onigo, ma si sarebbe potuto ottenere una liberazione dalla miseria con uno sviluppo diverso. Considerando i risultati materiali e intellettuali odierni c’è solo da osservare che il paesaggio veneto e il suo ambiente sociale sono morti stecchiti nella lunga teoria di capannoni semivuoti o in saldo, nelle mansarde e taverne delle villette a schiera, dei nuovi slums  che chiamano quartieri residenziali. Nessun tentativo del resto di programmazione urbanistica decente è possibile quando a prevalere sono gli interessi per i lotti e i valori fondiari.

Nell’articolo di Milanesi c’è una chicca: «Luciano Benetton, l’uomo simbolo … stila un bilancio fuori dalle righe: “Se avessi 30 anni, non avrei dubbi nel scegliere di lasciare l’Italia”».

Eh già, se avesse 30 anni e non avesse certi interessi. Stiliamo un bilancio serio, fuori dalle righe, del signor Luciano:

Benettòn acquistò dallo stato italiano (cioè roba nostra) il 30% della società Autostrade (ora Atlantia) nel 2000 investendo 2,5 miliardi di euro attuali (1,3 di mezzi propri e 1,2 di debito). Il prezzo di mercato delle azioni si aggirava intorno ai 6 euro.
Tre anni dopo Benetton lanciò un’OPA per l’acquisto dell’intera società a un prezzo molto più alto. Il prezzo fu di circa 10 euro per azione, vale a dire che il valore delle azioni acquistate nel 2000 era aumentato di oltre il 40%!

Il signor Benetton fra il 2000 e il 2009 ha prelevato da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi (ovvero profitti dai pedaggi autostradali). Inoltre ha collocato in borsa il 12% della società a un prezzo molto più alto incassando altri 1,2 miliardi. Quindi è rientrato dall’investimento, ha azzerato i debiti e ha in portafoglio una società che vale almeno 3 miliardi di euro. Alla faccia nostra. Questi soldi, cioè i nostri soldi, gli servono per investire all’estero e chiudere le manifatture italiane (si chiama delocalizzazione: Goebbels era un esangue dilettante in fatto di neologismi).

Il motivo principale per il quale Luciano Benettòn non ci libera della sua presenza è che egli è il principale esattore dei pedaggi autostradali. Di quelle autostrade costruite con la fatica e i sacrifici di un’intera generazione di proletari italiani.

Benettòn ha partecipazioni, tra l’altro, in Grandi Stazioni, Aeroporti di Roma, Aeroporto di Torino, Firenze e Bologna. Quindi Mediobanca, Unicredit, Alitalia, eccetera. L’Italia, un paese che ha anteposto le competenze finanziarie e di lobbying a quelle produttive, per i Benettòn, i quali non hanno alcuna competenza specifica di ruolo nei settori partecipati, è una miniera d’oro e la lasciano solo con i loro jet privati per recarsi nelle loro immense tenute sudamericane.

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