giovedì 6 marzo 2014

Tra le fresche frasche


Ho letto con raro interesse questa intervista a Carlo Formenti che mi è stata segnalata dapprima dal mio amico Luca e poi anche da un lettore. In attesa di leggere il libro di Formenti e di farmi un’idea spero più precisa delle sue tesi, passo a scribacchiare alcune impressioni sull’immediato.

Anzitutto mi ha colpito nell'intervista la sua premessa, laddove sancisce:

la natura eminentemente politica della crisi, il che vieta di sperare in una “ripresa” che restituisca opportunità di lavoro, livelli di reddito e servizi sociali dignitosi alle classi subalterne, e la irriformabilità del regime politico/finanziario che è venuto consolidandosi negli ultimi decenni, il che vieta di nutrire illusione in merito a un possibile ritorno alla democrazia “normale” e al compromesso storico fra capitale e lavoro.



Non sono d’accordo sul fatto che si tratti di una crisi “eminentemente politica”, anche perché non mi pare chiaro cosa esattamente o più estesamente Formenti intenda alludere con tale espressione. Propendo, per parte mia almeno, per una crisi di sistema che coinvolge la realtà capitalistica in tutte le sue forme, sia dal lato economico finanziario e sia dal lato della rappresentanza politica, in un quadro di crisi sociale dei “valori” di riferimento e di coscienza sufficiente, nel prosieguo, ad uccidere un’intera epoca, come già successe un secolo addietro (ma sappiamo con quali costi e chi soprattutto fu chiamato a pagarli).

Insomma una crisi che si è elaborata nella forma compatibile con il massimo sviluppo delle forze produttive di questa fase storica del modo di produzione capitalistico, per cui l’ulteriore sviluppo si presenta come decadenza, e il nuovo sviluppo non potrà che cominciare da una nuova base.

Sono invece d’accordo (e come non esserlo?) sul non nutrire “illusione in merito a un possibile ritorno alla democrazia “normale” e al compromesso storico fra capitale e lavoro”, posto che fosse questo, ma Formenti non lo dice nell’intervista, l’obiettivo delle lotte di classe novecentesche, ossia la pacificazione sociale. Del resto, quante volte ho scritto in questo piccolo scoglio sulla fine di questa illusione? Ormai si tratta di una consapevolezza che è maturata nei fatti della crisi e si sta rapidamente diffondendo e diviene perciò acquisizione e sentimento comune.

Mi trovo anche d’accordo sulla presa di distanze, sul rifiuto, di certe teorizzazioni negriane sui concetti come – da ultimo – moltitudine e biopotere, così come di alterazioni consimili (*).

Un’altra frase di Formenti:

Rivoluzioni e riforme radicali avvengono quando le crisi assumono proporzioni catastrofiche e toccano i rapporti di forza fra le classi, oppure, al contrario, quando periodi di espansione economica permettono una ridistribuzione dei redditi e una maggiore partecipazione popolare alla gestione del potere.

E questo aspetto della criticità storica è noto fin dai libri delle elementari, perciò non rilevo a tale riguardo alcun apporto teorico nuovo. È ben noto che tutte le passate forme di società sono perite in seguito allo sviluppo della ricchezza, ossia in seguito allo sviluppo delle forze produttive sociali. Non sarà stato un caso che la società feudale, per esempio, crollò in presenza dell’industria cittadina, del commercio, dell’agricoltura moderna.

Altro punto decisivo dell’intervista è quando Formenti dice:

per chi resta ancorato alla concezione marxiana del conflitto sociale come conflitto di classe, il partito inteso come organizzazione degli interessi di una parte sociale resta una categoria imprescindibile. Il che non implica che tale categoria debba incarnarsi nella forma “classica” del partito leninista: la storia del movimento operaio è punteggiata di “eresie” democratico-consigliari che hanno concepito la forma partito in modo assai diverso (basti citare Rosa Luxemburg).

Perfettamente d’accordo sul fatto che il partito non può surrogare la classe, che non può, soggiungo ancora, elevarsi a soggetto della storia e dunque che partito e classe sono una contraddizione, lati conflittuali di uno stesso processo. E non basta, l’ho scritto altre volte, nemmeno che “il partito” abbia una lucida coscienza di tale contraddizione. Troppi casi della storia recente ci hanno mostrato a quali tragedie si va incontro. E tuttavia i soggetti della storia, le classi sociali, non possono esimersi dall’organizzarsi politicamente e strategicamente come forza autonoma se vogliono contare, come forza alternativa di potere se vogliono vincere.

La borghesia sa ben organizzarsi, sa fare la lotta di classe, lo vediamo bene; quanto a noi, per il momento e data la situazione, converrebbe concentrarsi anzitutto nel creare la base necessaria di conoscenze per rendere anzitutto effettivamente possibile una critica non laterale del sistema di dominio capitalista. E non snobberei tanto, come invece fa esplicitamente Formenti, l’impiego dei nuovi mezzi di comunicazione. Del resto, se ricordo bene, l’introduzione del libro a stampa ebbe pur qualche non trascurabile rilievo nei processi di cambiamento sociale dal Cinquecento in poi.


 (*) Osservo che si tratta di critiche (penso a quelle rivolte a libri come Il comunismo e la guerra, edito da Feltrinelli nel 1980, o alla sua appendice Politica di classe … , scritto “dal campo di Palmi”) ben svolte più di trent’anni fa e che evidentemente non sono state raccolte per diverse ragioni delle quali ne dico un paio di molto semplici: perché nella pubblicistica prevale la fascinazione per certi “arricchimenti”, fenomeno questo non nuovo; e perché le critiche più sostanziali e ponderate provenivano da ambienti della lotta armata. Il lato più comico della vicenda repressiva della lotta armata in Italia è stato quello di attribuire – soprassediamo da parte di chi e per assecondare che cosa – a Toni Negri un ruolo all’interno delle Brigate Rosse fino al punto da farne “il capo”. Delirio.

3 commenti:

  1. Le analisi di Formenti convincono anche me: il suo "pessimismo della ragione" è anche il mio che penso che in questa fase vediamo- per chi lo vuol vedere, per tutti gli altri c'è il dibattito sulla riforma elettorale- come il capitalismo finanziario può tranquillamente fare a meno della democrazia.

    La questione della costruzione politica e dei possibili modelli penso anch'io sia ineludibile.I tempi però li vedo pericolosamente biblici. Nessuna soggettività oggi in campo- dal movimento NoTav a quello per la casa- è così forte da porsi come problema la costruzione di un soggetto politico. Anzi, molte soggettività questa possibilità la escludono dichiaratamente senza però ragionare ancora sul poi. "Non ci rappresenta nessuno" è uno slogan che io posso condividere ma poi non posso non pormi il problema di cosa vuol dire seriamente auto organizzazione. E', credo, un discorso, che andrebbe sprovincializzato allargandosi anche a molti altri angoli di mondo, l'Egitto ad esempio...

    Quanto a Negri, pur non condividendolo, continuo ad ascoltarlo. Diciamo che preferisco Negri ai negriani: il passaggio al post fordismo e l'analisi sull'operaio sociale credo siano stati contributi importanti. Dal punto di vista editoriale impero è stata una categoria fortunata d quello politico direi mica tanto.....

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  2. Posso permettermi di segnalare contemporaneamente, un libro e un sito di compagni e compagne che si sono dati una buona organizzazione, nel sostenere concretamente le lotte dei lavoratori, disoccupati, precari e quant'altro? http://www.clashcityworkers.org/dove-sono-i-nostri.html

    "Con lo sguardo rivolto a questo campo di battaglia, questo libro vuole raccontare, con rigore e accuratezza scientifica, com’è fatto il proletariato nell’Italia di oggi. A partire da un’analisi della struttura produttiva del nostro Paese, capiremo non solo come si produce la ricchezza, ma chi la produce, quali sono state le trasformazioni più significative del mondo del lavoro negli ultimi decenni e quali le linee di tendenza per il prossimo futuro.
    Chi sono i nostri? E dove sono? Lavoratori dipendenti, parasubordinati, produttivi e improduttivi, “finte” partite iva, Neet, immigrati: manifestazioni differenti dello stesso fenomeno, etichette e catalogazioni – molte delle quali imprecise e da sfatare – che spesso servono a frammentare ciò che in realtà è unito da interessi comuni e simili ritmi di vita.
    In questa fase delicata, di passaggio, per l’Italia – e per il mondo – è necessario pensare a modelli organizzativi adeguati alla struttura del capitale. Dall’altra parte della barricata lo stanno già facendo. Ora tocca a noi".

    Grazie a quanti, si prenderanno la briga di visitare il sito, e magari di leggere il libro.

    CLASHCITYWORKERS

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  3. In quanto all’auspicato allargamento delle problematiche in ambito internazionale e in particolare all’attenzione che il Nostro propone per i nuclei di ‘condensazione operaia’ che dovrebbero costituire fronti di opposizione, il discorso è puramente teorico e suppongo che manchi di assoluta esperienza sul campo. E mi riferisco ad un intervallo spaziale che va dal maghreb all’estremo oriente (Russia e Cina escluse).
    Mantenendoci in ambito musulmano le classi operaie maghrebine – più quelle egiziane - sono innazitutto impermeabili tra loro e all'applicazione di modelli nati in ambiente filosofico esclusivamente europeo.

    lr

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