lunedì 17 marzo 2014

Divagazioni del lunedì


La necessità di espandersi per il capitale è vitale, come necessità di trovare nuovi mercati, manodopera sempre più a buon prezzo e disponibilità di materie prime. È vero altresì che durante tutto l’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento le crisi periodiche erano considerate inevitabili e si sapeva che dopo qualche tempo si sistemavano; anzi, da un certo punto di vista tali crisi cicliche erano considerate benefiche perché permettevano ai capitali più forti di concentrasi in posizioni monopolistiche.

La crisi degli anni Trenta, nota come Grande Depressione, fu notevolmente diversa dalle precedenti per intensità e vastità. Essa poteva segnare un punto di svolta per il capitalismo. Sappiamo che il capitalismo ne uscì per due motivi fondamentali, ossia a seguito della più cruenta e distruttiva guerra l’umanità abbia conosciuto, e per l’affermarsi di nuovi prodotti di consumo individuale che diedero impulso a produzioni su una scala incommensurabilmente maggiore che nel passato. Seguirono nel dopoguerra i cosiddetti “gloriosi trenta”, ossia tre decenni nei quali il capitalismo occidentale si sviluppò ed estese in misura senza precedenti, a spese soprattutto del cosiddetto Terzo Mondo (il petrolio prezzava un dollaro a barile!).

Finché è esistito il monopolio industriale e finanziario dei paesi occidentali, la classe operaia ha partecipato ai vantaggi di questo monopolio. I vantaggi furono ripartiti al suo interno in modo molto diseguale, e tuttavia tutti ne ebbero a beneficiare in forma diretta e indiretta. Ed è questo il motivo principale, anche se non esclusivo, dapprima del riaccendersi delle lotte operaie volte ad ottenere migliori condizioni di vita, e poi, ottenuti i miglioramenti, ossia l’accesso ai consumi di massa e alle tutele sociali, del rifluire del movimento operaio e delle sue lotte.



Si deve considerare con assoluto rilievo il fatto che le generazioni nate tra il primo e il secondo dopoguerra in Occidente, e che avevano conosciuto i fascismi e le relative conseguenze, hanno potuto accedere progressivamente, a partire soprattutto dagli anni 1960, a un benessere tutt’altro che relativo sotto il profilo dei consumi, delle tutele e delle prestazioni sociali, rispetto a qualsiasi epoca passata. Tutto ciò è stato reso possibile, come detto, dai vantaggi del monopolio occidentale e dalle politiche espansive della spesa pubblica sia a sostegno del welfare e sia in senso anticiclico. Né va trascurato il peso che ebbero i partiti di sinistra in Europa, avvantaggiati anche della contrapposizione geopolitica tra i due grandi blocchi.

La fine del monopolio e del mondo bipolare, l’avvio della cosiddetta globalizzazione e gli accordi sul libero commercio, il consolidarsi in posizioni di totale autonomia delle grandi multinazionali, la finanziarizzazione dell’economia globale, hanno significato anzitutto stagnazione, la ricomparsa della povertà, disoccupazione e precariato di massa, ossia la perdita per la classe operaia della precedente posizione privilegiata; la tendenza di lungo periodo è di venir ricondotta tutta intera – compresa la parte più privilegiata (quella che un tempo Engels chiamava “aristocrazia della classe operaia salariata”) – a livelli prossimi a quelli dei lavoratori degli altri paesi.

C’è da chiedersi, a questo punto, per quale motivo non riprenda il ciclo di lotte che caratterizzò i primi tre decenni del dopoguerra, e sia invece subentrata una cupa rassegnazione. Volendo procedere ancora per schemi e semplificazioni, c'è da osservare anzitutto e da un lato, di là delle questioni di natura segnatamente di carattere internazionale e di crisi degli istituti politici borghesi, lo smantellamento della struttura produttiva delle grandi fabbriche e dunque delle condizioni stesse che consentivano un rapido e immediato collegamento e coordinamento tra grandi masse di operai. Dall’altro, con il ricambio generazionale, si assiste al mutamento per così dire “antropologico” della classe operaia e alla sostanziale trasformazione o scomparsa delle strutture organizzative nel ruolo tipicamente sindacale e politico di un tempo. Il tutto nel quadro di una certa conservazione/resistenza all’erosione progressiva dei livelli di reddito e di assistenza precedenti, favorita da motivi di consenso politico-elettorale e di pace sociale. Né del resto va sottovalutato il peso della manipolazione mediatica a tutti i livelli.

Mutamento “antropologico” peraltro non nuovo nelle fasi di maggior sviluppo del ciclo capitalistico, tanto è vero che Marx poteva ai suoi tempi rilevare come man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. Poco importa a una classe operaia che ha raggiunto livelli sociali prima inediti, sapere che solo una piccola parte del suo lavoro è pagato e che per il resto è appannaggio dei profitti e di una classe di ricchissimi Vanderbilt, possessori di tutti i mezzi di produzione. Né gli importa più, almeno fino a quando non si sono fatti sentire gli effetti della globalizzazione e della crisi innescata dal crollo dei corsi finanziari, la tendenza del sistema capitalistico a dividere la società in due grandi classi, quella salariata e propriamente proletaria da una parte e una classe di milionari dall’altra.

A ciò va ad aggiungersi un altro dato di grande rilevanza, che agisce potentemente come freno per il costituirsi e l'organizzarsi di movimenti di ispirazione realmente rivoluzionaria, ossia il sostanziale fallimento delle esperienze nate con la rivoluzione russa e con quella maoista, per tacere di episodi di tragico delirio come quelli cambogiani, e l’idea, peraltro alimentata ad arte dalla borghesia e per decenni condivisa dai partiti comunisti europei, pur con qualche distinguo, che quelle esperienze, soprattutto quelle dell’Est, fossero il prodotto genuino e sostanzialmente esaustivo dell’alternativa comunista al capitalismo. Inoltre è stata fatta passare anche un’altra idea dai partiti della sinistra europea, intaccati dal verme del cristianismo e dimentichi della storia e della dinamica economico-sociale del capitalismo, ossia quella della possibilità di un socialismo che superasse tutti gli antagonismi e le lotte di classe, aspirando a conciliare gli interessi contrastanti delle due classi in un’umanità superiore.


A tale riguardo, ossia a riguardo delle classi dirigenti, valgono le parole di Engels: “o si tratta di novizi che hanno ancora molto da imparare, o sono i peggiori nemici degli operai, lupi in veste di agnelli”. Diciamo che si tratta di iene, di sciacalli e sciacalletti che hanno interpretato, per una stagione, il ruolo di gattopardi.

2 commenti:

  1. Sempre complimenti...ogni post rimette in ordine i tasselli del puzzle...

    Ne aggiungerei uno a proposito del "benessere tutt’altro che relativo sotto il profilo dei consumi": la quantità gigantesca di benessere procurato come frutto della rapina ai danni del territorio e delle risorse naturali.
    "Le generazioni nate tra il primo e il secondo dopoguerra in Occidente" hanno consumato, sperperato, cementificato, distrutto, inquinato come non era mai successo prima nella storia dell'umanità. Il loro silenzio e la loro complicità sono stati comprati a debito con un benessere fittizio...che altri stanno già iniziando a pagare.
    ciao,g

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    1. hai perfettamente ragione, ed infatti ho in cantiere un post dove accenno alla questione (non è per domani poiché ci sarà invece un post propositivo sulle nuove forme della politica). un abbraccio

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