Leggo dal blog del liberalismo reale:
«Riqualificare la spesa pubblica è una bella proposizione teorica, sin quando non si toccano i percettori di quella parte di spesa considerata superflua o nociva. Nel momento in cui qualcuno tenta di farlo, ecco spuntare come funghi i sovranisti, populisti, stampatori e ridistributori. Motivo per cui parlare di “riqualificare” la spesa è una rassicurante illusione. La spesa pubblica tende a essere additiva, non sostitutiva».
Se dal lato dei tagli alla spesa pubblica non si può più di tanto, salvo scottarsi i diti con le proteste di strada e alle elezioni, allora sarà il caso di «aumentare la pressione fiscale, magari di tipo patrimoniale». Chiede con perplessità l’analista: «quando la Francia ha un livello di spesa pubblica da paese socialista?». Come si fa a dargli torto, lasciamo a “Mazzarò perfino il sole che tramontava”.
Anche questa è una strada, soggiungo, che porta poco avanti, primo perché finisce per (tar)tassare i soliti noti, mentre la ricchezza cospicua ha molti modi per sfuggire alla rete fiscale, ma soprattutto perché chi governa a livello nazionale e globale sono i rappresentati di Mazzarò, potenti lobby (evito di chiamarle multinazionali) e caste locali.
Il cul de sac classico nel quale si agita il riformismo democratico, indeciso come l’asino di Buridano, per cui raglia una volta per il taglio della spesa e un’altra volta per aumentare le tasse ai “ricchi” (concetto quanto mai vago), strizzando l’occhiolino agli elettori indecisi.
È così che Macron (cui è dedicato il post dello psicoanalista economico), capofila dei riches, si trasforma nel presidente di tutti i francesi, compresi quelli contro i quali stava ancora combattendo il giorno prima. Il bruco candidato di una singola specie si trasforma in una farfalla di tutti gli animali della foresta, direbbe Jean de La Fontaine.
Gli ottimisti, tolte le mollette dal proprio naso domenica sera, credono tanto all’ultimo Macron che alcuni al mattino mentre si guardano allo specchio si vedono già come primo ministro. Uno di questi è sicuramente Jean-Luc.
Il riformismo vuol dare ad intendere che si possano risolvere al meglio le contraddizioni insite nei rapporti di classe, dunque nei rapporti di sfruttamento borghesi, semplicemente giostrando con i tagli della spesa pubblica, con la sua rimodulazione, e agendo su imposizione e ridistribuzione. Sarebbe solo una questione di “scelte”, d’indirizzi economico-gastronomici da impartire secondo dottrina.
È in definitiva un continuo rimestare nella stessa mota, salvo poi nel pieno delle crisi veder precipitare il cosiddetto patto democratico tra “cittadini” e gridare al lupo, vuoi nelle sembianze di Le Pen o simili.
Per contro, vi fu un tempo in cui certi marxisti, prendendo atto che dalle aporie del capitalismo non vi è scampo (e questo è vero), considerarono bastasse per via rivoluzionaria trasferire la proprietà giuridica dei mezzi di produzione dal privato al
pubblico, dai capitalisti individuali al capitalismo di Stato. La dittatura del proletariato avrebbe fatto il resto, sovvertendo i rapporti sociali borghesi da cima a fondo.
Lenin, da ultimo, si rese conto dell’abbaglio, e preconizzò la durata della nuova politica economica (NEP) per parecchi decenni. Non bastava portare la luce elettrica nelle isbe e addestrare le cuoche a governare la pianificazione industriale. Stalin fu più pragmatico, anche perché la situazione internazionale e la necessità di uscire dal feudalesimo non gli consentiva di fare altro. Poi sui metodi un po’ rozzi si può discutere e trovarsi sicuramente in disaccordo con il suo sistema (basta poi ricordarsi che Solženicyn sarebbe d’accordo con Putin).
I più conseguenti, bisogna ammetterlo, furono i cosiddetti Khmer rossi, i quali abolirono il capitale e i relativi rapporti economici, sicuri che ciò risolveva il problema una volta per tutte, orrori a parte. Non fu solo un ritorno alle palafitte, ma direttamente alle caverne.
Il post sta diventando troppo lungo per i miei 25 lettori, perciò taglio corto con questo flusso d’incoscienza. Oggi la situazione è completamente diversa. Proprio per una question de vie et de mort il modo di produzione capitalistico ha sviluppato tecnologicamente a tal punto i processi produttivi, aumentando enormemente la produttività del lavoro umano, da aver ridotto a un minimo il tempo di lavoro necessario (*).
Assistiamo così a un fatto curioso: il lavoro in forma immediata diviene sempre meno la grande fonte della ricchezza, e il tempo di lavoro tende in tal modo a essere sempre meno la misura della ricchezza, e ciò dimostra il carattere storico e transitorio della legge del valore, la quale non gode di proprietà “naturali” valide in tutte le epoche.
Un aspetto di questo fenomeno generale, considerato da un punto di vista sociologico, si può cogliere anche in quella che viene chiamata great resignation e che, leggo da wikipedia, “sta facendo impazzire analisti e imprenditori che non riescono a trovarne le cause”.
Più in generale, le nuove tecnologie e l’aumentata produttività del lavoro, ha creato paradossalmente (che cosa non è paradossale nel capitalismo?) nuovi problemi, quali per esempio una stagnante disoccupazione di massa che richiede massicce misure di sostegno pubblico per garantire la sopravvivenza delle persone escluse dal reddito lavorativo. Misure sempre più insostenibili dal lato della spesa pubblica e che faticano, per vari motivi, a trovare compensazione nei proventi del gettito fiscale, unica fonte dalla quale attingere in ambiente economico privatistico.
Tutto ciò entra in contraddizione, tra l’altro e come accennato, con le nuove soggettività che sempre più chiedono e cercano nuovi modelli di vita, di rapporti e di consumo. Le imponenti trasformazioni degli ultimi decenni hanno messo in crisi tutti i vecchi rapporti sociali. La politica risponde a queste “istanze” battendo vecchie strade: la sua crisi è sostanzialmente di paradigma e dunque irresolubile.
Ridurre il lavoro necessario della società a un minimo e far fronte a masse crescenti di senza lavoro, con ciò che comporta in termini di sostegno ai redditi e costi di assistenza, e dall’altro garantire saggi del profitto adeguati alle imprese in rapporto ai capitali investiti, è stato fino a oggi reso possibile dall’aumento del debito pubblico, dal basso costo delle materie prime, dai salari sotto la media (come in Italia), dallo sviluppo dei settori del
“lusso”, dal trasferimento delle produzioni nelle aree a più intensa estrazione sia del plusvalore assoluto che relativo, dagli investimenti nel commercio estero e nella speculazione finanziaria, eccetera.
Ciò ha consentito di mantenere eccezionalmente elevati, specie in alcuni settori, tanto il saggio quanto la massa del plusvalore. Queste condizioni, di per sé già instabili, stanno svanendo sempre più e ne avremo conferma già nel breve periodo.
(*) Non va dimenticato che, secondo legge, lo sviluppo della produttività del lavoro si esprime in una diminuzione del saggio del profitto. Ciò non significa che diminuisce la massa dei profitti, ma che il relativo saggio tende a cadere in rapporto agli investimenti.
Quindi vediamo come andò cent'anni fa: i pescicani della guerra ingrassano, il malcontento della plebe aumenta, la necessità di un uomo d'ordine diviene necessaria (pardon), dittatura, guerra.
RispondiEliminaRipetutamente la storia si ripete?