martedì 6 settembre 2016

Gli omeopati del capitalismo


È caratteristico della crisi intellettuale e della decadenza dell’odierna economia politica borghese che essa non si ponga – nemmeno sotto il profilo teoretico – il problema della transitorietà del modo di produzione borghese. Faccenda di cui invece ebbero ad occuparsi gli economisti classici. Nella nostra epoca gli economisti e gli intellettuali in genere, diventati gli omeopati del capitalismo, non si occupano di simili questioni, che tanto più sono scomode e tanto più sono manipolate o, come capita più spesso, semplicemente ignorate. Essi prospettano le cose in due modi, vedendovi il lato buono e quello cattivo, il vantaggio e lo svantaggio, che presi insieme formano la contraddizione (sic!) in ogni categoria economica. Tutto il problema da risolvere consiste nel conservare il lato buono, eliminando quello cattivo.

Lo stesso dicasi per la politica, laddove si ricerca il lato buono e vantaggioso per la società nel suo insieme, prescindendo – dicono – da ogni considerazione ideologica. Solo che anche la società borghese nel suo insieme non esiste senza classi sociali, con ciò che consegue.

Già ai suoi tempi Marx osservava: “Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”.

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Sismonde de Sismondi (1773-1842) è stato il primo a sottolineare il carattere storico e transitorio del modo di produzione capitalistico. Un altro economista, meno noto di Sismondi, ma per certi aspetti superiore allo stesso Ricardo, ossia Richard Jones (1790 -1855), dal 1835 successore di Malthus alla cattedra nell’East India College di Hailebury, sottolineava in una sua opera (1852) il carattere necessariamente storico e dunque transitorio del capitalismo. Entrambi gli economisti pervennero a questa conclusione dall’analisi delle differenti strutture storiche succedutesi nel tempo, e dunque deducevano che anche il modo di produzione capitalistico “non è per nulla un risultato ultimo” dello sviluppo economico, sebbene esso nei confronti di tutte le forme economiche precedenti, “se si considera lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, rappresenti un progresso enorme”.

Sismondi critica in maniera convincente – sostiene Marx – le contraddizioni della produzione borghese, “ma non le comprende e quindi non comprende neppure il processo della loro dissoluzione. Egli di fatto si fonda sull’intuizione che alle forze produttive sviluppatesi nel seno della società capitalistica, alle condizioni materiali e sociali della creazione della ricchezza, devono corrispondere nuove forme d’appropriazione di questa ricchezza; che le forme borghesi sono solo forme transitorie e contraddittorie in cui la ricchezza assume sempre un’esistenza antitetica e compare ovunque come il suo contrario di sé stessa. È ricchezza che ha sempre per presupposto la povertà e si sviluppa soltanto perché sviluppa questa” (*).

Di grande interesse le considerazioni che Jones sviluppava nel suo manuale nel 1852, e che l’improbabile lettore curioso può contestualizzare cliccando qui. Di seguito uno stralcio tratto da pagina 73:



Marx, subito dopo aver riportato questo brano preso da Jones (nel vol. delle Teorie sul plusvalore c'è la traduz. italiana), così commenta:

«Qui Jones dice senza mezzi termini che egli “accetta” il capitale e il modo di produzione capitalistico solo come una fase di transizione nello sviluppo della produzione sociale, una fase, che, se si considera lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, rappresenta un enorme progresso rispetto a tutte le forme precedenti, ma che non è affatto  un risultato finale, anzi, nella sua forma antagonista fra gli “oweners of accumulated wealth” e  gli “actual labourers” implica la necessità del suo tramonto » (**).

*

Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Marx scrive: «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.»

Naturalmente Marx non si limitò a questo genere di considerazioni, ma ad esse pervenne infine attraverso l’analisi rigorosamente scientifica del modo di produzione capitalistico, e dalla quale emerge la necessità del tramonto del capitalismo e le cause che lo condizionano non più sul fondamento di analogie storiche, come “presentimento”, come per esempio nei citati economisti Sismondi e Jones.

Preciso che qui la questione dell’analisi marxiana non viene sfiorata, se non in riferimento a due concetti: di quali “forze produttive” e di quali “rapporti di produzione” parla Marx? Ogni modo di produzione implica una duplice serie di rapporti: quelli degli uomini con la natura e quelli degli uomini tra di loro. Riferendoci ai primi, parleremo di forze produttive, quanto ai secondi utilizzeremo il concetto di rapporti di produzione.

Come ognuno può constatare prima facie, lo sviluppo delle forze produttive, in sé e per sé, non ha nulla a che fare con il processo di valorizzazione capitalistica, in quanto quest’ultimo è da ricondurre al lavoro umano “astratto” (naturalmente si tratta sempre di lavoro utile, concreto). Infatti Marx precisa:

«Il processo lavorativo, come l'abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d'uso; appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani; condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura; condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita, e anzi è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana.»

Partiamo dunque dal fatto che ogni determinata forma storica del processo di produzione sviluppa la base materiale e le forme sociali. E però, com’è facilmente intuibile, la forma di questi rapporti è decisiva per la comprensione dell’intero movimento della produzione, poiché è lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale il motore propulsore dello sviluppo storico. Scrive Marx ne Il Capitale «Non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche», ed infatti «impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vidarà la società del signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale» (***).

È tutto interesse della borghesia denotare il concetto di forze produttive come avente una propria autonomia rispetto ai rapporti di produzione, dando cioè ad intendere che essi si svilupperebbero secondo leggi proprie e neutrali e il loro movimento determinerebbe casualmente i rapporti di produzione. Non possono ammettere che questi rapporti sociali determinati sono prodotti dagli uomini esattamente come lo sono i prodotti della loro attività lavorativa, e che dunque anche i rapporti sociali borghesi non sono eterni, dati una volta per sempre. 

In che cosa consiste dunque l’opposizione tra le forze produttive e il loro involucro, ossia i rapporti di produzione? Scrive Marx alla fine del cap. 51 del III Libro:

«Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori dall’altro. Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale».

Ciò vale per qualsiasi forma storica determinata in cui gli uomini producono e riproducono la loro vita immediata, e vale ovviamente anche per il modo di produzione capitalistico. L’aumento progressivo del capitale costante in rapporto alla diminuzione di quello variabile, peculiare del modo di produzione capitalistico, a un dato punto, diviene sempre più un vincolo allo sviluppo delle forze produttive e della società nel suo insieme.

Questa contraddizione ha un carattere oggettivo, ed è alla base della crisi generale del modo di produzione capitalistico. Si tratta della crescente difficoltà del capitale a valorizzarsi, nonostante e paradossalmente la massa dei profitti aumenti. È la crisi della forma valore (“Non è quel che viene fatto, ma come viene fatto… ”), la cui produzione è lo scopo esclusivo e assoluto del capitale.

Dicendo che ha un carattere oggettivo non s’intende negare il ruolo decisivo che vi svolge la soggettività, ma essa si produce e si manifesta proprio sulla base di questa contraddizione oggettiva, e non può prescindere da essa senza raccogliere vento e tempesta.

Non vi sarà dunque alcun crollo del capitalismo istantaneo e immediato, per carità. Nessuna rivoluzione bolscevica è alle porte. Riconoscere la contraddizione dialettica, l’interazione reciproca tra forze produttive e rapporti di produzione, quale base oggettiva della crisi del modo di produzione capitalistico, non comporta alcuna concessione al determinismo. S’è vero che ogni modo di produzione instaura nel suo seno la latenza del modo di produzione successivo, è di grande interesse scorgere, nella babele delle opinioni, i segni del mutamento.

Quanto alla coscienza di classe che dovrebbe farsi interprete di tali contraddizioni, ebbene permettetemi di essere realista: si può essere certi che prima verrà l’azione, e poi, forse, la coscienza di quanto sarà avvenuto.

(*) Teorie sul plusvalore, III, MEOC, vol. XXXVI, p. 51. Oppure in: Storia delle teorie economiche, III, Einaudi, pp. 59-60.

(**) MEOC, cit., p. 460; Einaudi, cit., p. 445.


(***) Quest’ultima citazione è tratta da: Miseria della filosofia, MEOC, VI, p. 173; in Editori Riuniti, 1969, p. 94.

9 commenti:

  1. è di grande interesse scorgere, nella babele delle opinioni, i segni del mutamento.

    Certamente ,ma io non vedo " procedere" ancora nulla di nuovo e peggio ancora non vedo in arrivo niente di "progressivo".
    ws

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    1. può essere una questione di diottrie

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    2. Potrebbe indicarceli questi..."segni del mutamento? (anche a grandi linee).

      Grazie e saluti.

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    3. pensa a una cabina telefonica con la gettoniera vuota, o, per contro, all'affermarsi di concetti e situazioni come "reddito di cittadinanza" o smart working, ecc.

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    4. Ho capito grazie. Ma dello smart working, non ne ho mai sentito parlare. C'è qualcosa che si può leggere in merito?

      Ri-saluti.

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    5. http://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/come-evolve-l%E2%80%99organizzazione-dell%E2%80%99impresa-gli-esempi-di-smart-working

      naturalmente il tutto sotto il segno della competitività

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    6. e questo in particolare sulla possibilità negata ad un ulteriore sviluppo del sapere sociale:

      https://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/il-settore-istruzionericerca-nell%E2%80%99economia-europea-che-non-cresce

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  2. argomento per eccellenza scottante su cui si gioca in gran parte la possibilità delle prossime generazioni di avere un futuro oppure di stagnare in una agonia sempre più tragica, con la tecnoscienza a dare una parvenza progressiva a ciò che, il rapporto di produzione classista, è sta sbattendo da tempo contro i propri limiti. ma ovviamente ci sbattono anche le forze produttive.

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  3. Temo che abbiano 'rubato' ai giovani il loro futuro, così come hanno rubato a noi la nostra vecchiaia, grazie a fornero e monti e compari, questo paese avrà una agonia che tale non pare grazie alle realtà virtuali, basta un gadget tecno e tutto pare immobile......appunto. Mala tempora currunt.

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