sabato 17 settembre 2016

Filantropi


Leggo che Bill Gates avrebbe dichiarato che il 95 per cento del suo patrimonio non gli serve per vivere. Si sbaglia. Per campare assai bene gli basterebbe, ad essere larghi, lo 0,1 per cento della sua ricchezza. Gates non dice che gran parte della ricchezza accumulata è costituita da lavoro non pagato, soprattutto di operai e tecnici che non sono mai stati alle dipendenze delle sue aziende. Anche questa è una forma di redistribuzione (del plusvalore).

Sarebbe bello se questi filantropi globali, che lucrano da mane a sera nella cyber-economia, devolvessero parte delle loro ricchezze a chi arranca davvero la vita. E se tutti pagassero le tasse in proporzione ai loro redditi. Sono in molti a sostenere che in tal modo i problemi sociali che affliggono le nostre società sarebbero in gran parte risolti. E invece delle disuguaglianze sociali e di tante altre nequizie avremmo finalmente un capitalismo dal volto umano.

In un libro pubblicato lo scorso anno (*), la buonanima di Luciano Gallino faceva risalire la sconfitta dell’uguaglianza alla “doppia crisi, del capitalismo e del sistema ecologico”. La crisi del capitalismo l’attribuiva all’incapacità di vendere tutto quello che produce. Mi limito ad osservare: mai il mondo è stato così tanto misurato, mai come nella nostra epoca è possibile conoscere e censire ogni cosa, sapere cosa serve o non serve; pertanto non si tratta dell’incapacità di vendere, ma del modo in cui si produce.

Per quanto riguarda la disuguaglianza sociale, essa è la base su cui poggiano le società di classe. Per quanto riguarda l’impiego delle risorse, è appena il caso di rilevare che migliaia di miliardi di pubblico denaro sono destinati per il salvataggio di banche che hanno perso fantamiliardi in arrischiate speculazioni finanziarie e in crediti facili.

*



Gallino, Stiglitz, Krugman, Piketty e molti altri economisti, sociologi e opinionisti, ritengono che la questione cruciale della nostra epoca sia quella fiscale. La loro critica al sistema si può riassumere in una breve frase: troppa ricchezza rimane in (poche) mani private. Propongono sia tassata e distribuita meglio di come avviene. Ritengono altresì che tale obiettivo sia raggiungibile con opportune misure legislative in ambito locale e globale.

Resta forte il dubbio che vi sia la volontà di percorrere la strada della riforma del sistema fiscale e della cosiddetta lotta all’evasione/elusione (il caso Apple è poco più che fumo negli occhi). Tuttavia poniamo il caso – facendo astrazione da altre considerazioni (**) – che sia possibile raggiungere intese ed accordi sia a livello europeo che internazionale in tema di regimi fiscali omogenei e di tassazione dei profitti. Ciò indubbiamente avrebbe effetti sui bilanci statali, sulle risorse disponibili per rilanciare l’economia attraverso investimenti pubblici e nuova spesa sociale. Agendo sul cosiddetto “moltiplicatore”, ciò potrebbe sortire effetti virtuosi e benefici, ma solo per un certo periodo.

Tali misure avrebbero però effetti anche sui bilanci aziendali, e non ci vuole molto a capire che trasferire maggiori quote di plusvalore dalla sfera della produzione alla spesa pubblica avrebbe infine effetti ancor più critici per quanto riguarda gli investimenti, dirottandoli ulteriormente verso quelli speculativi (***). Inoltre a farne le spese sarebbero i settori economici più deboli a vantaggio delle multinazionali che potrebbero scaricare sui prezzi i maggiori oneri fiscali.

Questo ad ogni modo non ha nulla a che vedere con le cause della crisi economica, che non riguardano la sfera della circolazione bensì quella della produzione.

(*) Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, 2015.

(**) Bisogna tener conto che il grande capitale, ossia il capitale monopolistico multinazionale, nel perseguire la realizzazione del profitto, riesce a sovrapporre alla determinazione economica quella politica, con successo come vediamo.


(***) È bene precisarlo: non è in ballo la questione di quanto siano diventati più ricchi i ricchi, anche se comprendo che tale faccenda appassiona e solletica il dibattito. Se è pur vero che la massa dei profitti aumenta (e dunque anche i patrimoni personali dei capitalisti e i redditi dei loro leccapiedi), è altrettanto vero che l’accumulazione capitalistica avviene attraverso un aumento continuo della composizione organica del capitale sociale: il rapporto fra la parte costante (c) e la parte variabile (v) si sviluppa con un movimento decrescente della parte variabile rispetto a quella costante. Si giunge così ad una diminuzione del saggio generale del profitto, in quanto il plusvalore cresce sempre meno del capitale complessivo (c + v). Quanto più si sviluppa l’accumulazione, tanto più il saggio del profitto cade, in quanto la massa del profitto, pur potendo aumentare in assoluto, aumenta in maniera insufficiente a consentire la valorizzazione del capitale sempre crescente sulla base precedente: l’estensione della produzione e la valorizzazione entrano in conflitto.

5 commenti:

  1. Il problema è che, a livello politico e intellettuale, le scoperte di Marx vengono ignorate o stoltamente irrise nello stesso identico modo di come, all'epoca, le élite politiche e intellettuali irridevano o ignoravano l'eliocentrismo.

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  2. I filantropi semo noialtri chè se non ci avessimo tutta 'sta paura dell' horror vacui avremmo già da un pezzetto intravisto un' altra e logica combinazione sociale

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    1. ci hai ragione tu.
      per lo schiavo antico era normale la sua condizione, nondimeno vale anche per quello moderno

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    2. Mao sosteneva che gli operai (ora anche quelli intellettuali) non sono altro che piccoli borghesi. Piccoli borghesi con pulsioni e desideri borghesi.Forse aveva/ha ragione.
      Peraltro la creazione di uno stato di paura e di ansia è essenziale nel meccanismo della Propaganda, in quanto non solo elimina del tutto la razionalità ma permette di creare l'aspettativa della "salvezza".
      Diceva l'omino di Altan,: 'preferisco il sogno all'utopia.Sognando almeno si dorme'

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