È
la “sinistra” in festa per il grande successo elettorale: l’immancabile braccio
alzato con il pugnetto chiuso, qualcosa di rosso sullo sfondo e magari anche nell’intimo.
Ieri in Grecia, oggi in Spagna e, chissà, forse un giorno sarà così anche qui
da noi. Fino a quando il gregge va a votare compatto o quasi, i grandi poteri
economici possono stare tranquilli: non accadrà nulla che possa mettere in
discussione il loro dominio.
Per
quanto questi movimenti politici possano porsi come rappresentanti delle cosiddette
istanze delle classi proletarie, cosa peraltro tutta da dimostrare, essi non
escono dai limiti del pensiero borghese e della politica borghese fino a quando
ne accettano il gioco. E del resto puntano anch’essi alle riforme, a
un’ulteriore espansione delle forze produttive sotto la bandiera
dell’occupazione e della crescita nel momento in cui i rapporti di produzione
strozzano la ripresa del ciclo virtuoso. E tuttavia, come ho scritto qui
infinite volte, siamo a un cambio di passo della storia del capitalismo e della
sua crisi.
I
gioiosi attivisti di Syriza e di Podemos sono i figli e i nipoti di quei
“marxisti” che un tempo hanno sognato una rivoluzione sul tamburo, ma come
solito è stata la realtà a incaricarsi di far giustizia dei facili ottimismi
sulla possibilità di una rapida modificazione dei rapporti sociali di
produzione (per la dominanza di quelli borghesi sono occorsi secoli!) senza una
lunga e dura lotta di classe.
Poi,
una volta raggiunta una certa posizione personale nell’ambito del sistema, sono
diventati i migliori alleati di esso. Come si dice: rivoluzionari a vent’anni e
conservatori a quaranta (ma anche prima). Si erano fatti l’idea che bastasse
decretare la confisca dei grandi mezzi di produzione per arrivare a stabilire
un modo di produzione originale, cioè il “loro” comunismo. Si sono stancati
subito o poco dopo aver scritto qualcosa in lode della Rivoluzione, poi hanno
sfruttato le “opportunità” professionali cominciando a scrivere e predicare
tutto l’opposto.
I
loro figli e nipoti non si pongono nemmeno il problema del mutamento e della
transizione. Senza punti di riferimento teorici, senza un’idea radicale di
cambiamento, pensano semplicemente che non vi sia possibilità di alternativa.
Essi coltivano e lasciando credere al gregge votante che tra politica e potere
vi sia ancora una qualche corrispondenza, che dunque attraverso la politica
istituzionale vi sia ancora la possibilità di incidere sulla realtà, di
modificarla.
Ma
esercitare il potere significa anche la possibilità di usarlo contro gli altri,
e finora s’è visto contro chi viene usato! Ecco dunque perché essi sono i
migliori alleati dei proprietari del mondo e i migliori interpreti della servitù
volontaria.
*
La
specifica forma politica sorge dai
rapporti di produzione stessi, da una determinata configurazione economica
della società. E “la specifica forma
economica in cui il pluslavoro non pagato è succhiato ai produttori diretti,
determina il rapporto di signoria e schiavitù, come esso è originato dalla
produzione stessa e da parte sua reagisce su di essa in modo determinate”. Così
diceva quel matto di Treviri.
Il
quale, a chiarimento, soggiungeva: “È
sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i
produttori diretti … in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento
nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica
del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello
Stato in quel momento”. Quanto spreco di paroloni inutili quando basterebbe
prendere contatto diretto con Marx.
Ciò
significa che tra i rapporti di produzione e le forme politiche opera un
imprescindibile rapporto di determinazione reciproca, una relazione di unità e
distinzione nello stesso tempo. Nulla di meccanico e di schematico. Lo spazio
sociale della formazione capitalistica è, per così dire, curvo, non euclideo, non omogeneo, multi-temporale, scomponibile in
molte regioni – dell’economico, del giuridico, delle forme ideologiche, di
quelle artistiche, delle forme religiose, eccetera –, mai totalmente riducibili
l’una all’altra per semplice “sussunzione” e dotate di un movimento relativamente autonomo dal rapporto
fondamentale.
Che
cosa significa “relativamente autonomo”? Che nella formazione capitalistica la
forma d’interdipendenza e di reciproca determinazione tra queste regioni muta
di continuo in relazione al movimento della contraddizione basilare.
Quest’ultima, sempre determinante
“in ultima istanza” dell’intero movimento, non
è però necessariamente anche dominante in ciascun momento. Per esempio, in
questa fase ci troviamo in presenza di una dominanza del politico nella
versione della dominanza degli esecutivi (non solo nazionali).
Ad
ogni modo, per non prendere lucciole per lampioni, bisogna tener conto che
anche nelle fasi in cui il “politico” assume un ruolo dominante, esso non
elimina la determinazione in ultima istanza dell’”economico”, ma anzi ne
garantisce gli scopi e gli obiettivi, specie nelle fase di crisi e di
potenziale “turbolenza” sociale.
Perdona la mia insufficienza dialettica, ma il terzultimo e il penultimo paragrafo mi spingono a chiederti ulteriori delucidazioni, per comprendere a pieno l'alto livello teorico esposto nel presente post. Grazie.
RispondiEliminaP.S.
Quest’ultima parte la volevo eliminare, apparentemente astratta. Provvedo molto schematicamente. Struttura e sovrastruttura operano in modo dialettico. L’economia domina ma non è dominate in ogni momento storico, in ogni fase. Pensa per esempio al medio evo: l’aspetto economico non era dominante; in ciascuna dimensione della formazione sociale dominava l’aspetto politico-religioso, e tuttavia, in ultima istanza, era la struttura economica a marcare i movimenti particolari di ciascuna dimensione della formazione sociale (religiosa, politica, giuridica, ecc.).
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