Nel
modo di produzione capitalistico per aumentare la quota di plusvalore il
capitalista ha da percorrere una strada maestra, ossia deve innanzitutto ridurre
il costo del lavoro e aumentarne lo sfruttamento (*). Riducendo il famigerato
“costo del lavoro”, cioè riducendo la parte retribuita del lavoro e
aumentandone quella non retribuita, il lavoro viene svalorizzato e così ogni singola
merce contiene meno valore e cala anche di prezzo.
Se
però svalorizzo il lavoro in rapporto al capitale, con ciò cade il saggio del
profitto attorno al quale gira tutto il Barnum del capitalismo. È una questione aritmetica, non un costrutto ideologico. Posso vedere aumentare la massa assoluta
dei profitti ma non in proporzione al
capitale investito. Un bel problema, dunque.
Per
far fronte alla caduta del saggio del profitto, il singolo capitalista è
indotto ad escogitare sempre nuovi modi per risparmiare lavoro: nuove macchine,
schiavi più a buon mercato, aumento dello sfruttamento, ecc.. È il classico
cane che si morde la coda.
Marchionne,
un tossico che “s’inietta pagine e pagine di Ricardo e Marx” è arrivato al
punto di invitare i suoi colleghi vampiri ad associarsi per risparmiare su quello
che egli chiama “capitale fisso”, cioè investimenti e ricerca. Il suo scopo,
essendosi appunto accorto dell’evidenza aritmetica di cui sopra, è di
ristabilire un rapporto accettabile tra capitale costante e quello variabile,
vale a dire tra investimenti e salari, quei salari che in tutti i modi ha
voluto svilire.
È
il tentativo tipico di aggirare le contraddizioni, con degli escamotage o
cambiando nome alle contraddizioni stesse. Per esempio, laddove domanda e
offerta non s’incontrano, non si trova di meglio che evocare una “diminuzione
della propensione al consumo”. E da cosa dipenderebbe tale diminuzione di
“propensione”? Da non ben definiti elementi “psicologici”.
Risulta
evidente a chiunque, in una crisi di sovrapproduzione, lo squilibrio tra
domanda e offerta. E tuttavia tale squilibrio non ha origine nella crisi, ma al
contrario la crisi stessa è un suo specifico effetto. La cosa buffa è che per
gli ideologi borghesi la crisi non sta nel fatto che il valore complessivo
contenuto nelle merci supera il valore pagato in salari, e dunque nella impossibilità
di consumo pari alla produzione, ma l’eccedenza di offerta viene fatta
dipendere da qualcosa di misterioso, da una “diminuzione della propensione
psicologica al consumo”.
Si
prende atto di una contraddizione reale, ma, impossibilitati ad individuarne le
vere cause, data la propria posizione di
classe, non si fa altro che rifugiarsi nella psicologia. Nel nostro caso, la contraddizione perde il carattere
capitalistico per assumerne uno umano: non è il modo di produzione che
contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana; non è quindi il
modo di produzione a essere chiamato in causa, ma la testa degli uomini!
In
quasi ogni ambito delle cosiddette scienze sociali (e non solo) gli specialisti
borghesi procedono in modo analogo. Quando poi passa la moda delle “leggi” psicologiche,
il problema sociale viene ricondotto al “biologico”. Tale atteggiamento, a ben
vedere, è speculare all’approccio di tipo religioso, al concetto di “peccato”
e alla sua ontogenetica “originale”.
(*)
Maggiore sfruttamento non significa necessariamente che la forza-lavoro venga
sottoposta a un grado maggiore di “fatica” o semplicemente a un orario più
lungo di lavoro (raggiunto anche diminuendo le “pause”). La riduzione del tempo
di lavoro necessario a riprodurre l’operaio, dunque l’aumentata produttività
sociale del lavoro, comporta un prolungamento del tempo di lavoro assoluto
della giornata lavorativa complessiva.
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