Le
elezioni politiche del 1913 si svolsero il 26 ottobre e il 2 novembre
(ballottaggi). Furono le prime elezioni a suffragio universale maschile
(introdotto nel 1912), con collegio uninominale e maggioritario. Gli iscritti
alle liste erano 8.672.000 ma votarono solo in 5.100.615, ossia il 58,8 per
cento. Il partito socialista italiano ottenne il 17,2 per cento dei voti ma
solo il 10 per cento dei seggi, quindi 52 su 508. I socialisti riformisti di
Bissolati (espulsi dal PSI l’anno prima tra l’altro per il sostegno dato alla
spedizione militare in Libia) ottennero 19 seggi, e 8 ne ottennero i socialisti
indipendenti. Complessivamente 79 seggi, ossia il 15,5 dei seggi complessivi,
con 1.151.419 voti, pari al 22,57 per cento dei voti validi. A trionfare furono
giolittiani e cattolici (patto Gentiloni) che sommando i loro voti ottennero il
51,8 e una larga maggioranza dei seggi.
Un
anno e mezzo dopo, nella notte del 20 maggio, scrive La Stampa, si apprende che a Roma “i treni speciali per gli
ambasciatori sono pronti”. Le truppe di cavalleria, appiedate, hanno provveduto
a isolare palazzo Chigi, sede dell’ambasciata dell’Austria. Il Giornale d’Italia riferiva che anche
l’ambasciatore turco era pronto a lasciare Roma. In mattinata Piazza Colonna è
circondata dalla folla che attende l’ingresso dei deputati alla Camera. Nelle
scuole gli studenti hanno fatto “patriottiche manifestazioni”, e molte officine
sono “disertate per gioia nazionale”.
Quel
20 maggio 1915, la Camera approvava il passaggio dei poteri straordinari al
governo di Antonio Salandra in caso di guerra. Questo voto fu il preludio per la
dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria. Presenti 482 deputati, il governo
ebbe 407 voti favorevoli, 74 contrari, un astenuto. Dunque votarono a favore
anche i cattolici neutralisti, nonché i giolittiani.
In piazza Navona si riuniscono “parecchie migliaia di persone ad acclamare il Governo. Si notano le personalità più in vista del partito repubblicano, socialista riformista, rappresentanze operaie dei grandi opifici romani che hanno concesso libertà alle maestranze. In mezzo alla piazza sono le bandiere del Trentino, dell’Istria, di Trieste e la bandiera azzurra colle tre teste di leopardo della Dalmazia”. Segue corteo di 30mila persone.
Salandra
motivò che l'Italia aveva fatto tutto il possibile per mantenere la neutralità,
ed era stato costretta a revocare la sua alleanza con l'Austria a causa delle
azioni di quel governo. Ebbe la faccia tosta, dopo quasi un anno dai fatti, di
denunciare che "l’ultimatum dell'Austria alla Serbia, senza consultare
l'Italia, sua alleata, aveva violato i termini della Triplice Alleanza, ed era
contrario agli interessi italiani”. Vero che l’iniziativa unilaterale
dell’Austria contro la Serbia non obbligava l’Italia ad intervenire, disconoscendo
il casus foederis, ed è pure vero che
la violazione dell’art. VII del trattato la liberava dall’alleanza, ma lo
schierarsi con la parte avversa all’Austria poteva considerarsi un atto di
tradimento verso chi era stato l’alleato per oltre trent’anni.
Quasi
un anno prima, quando ancora la guerra non era stata dichiarata, ecco chiariti
gli intendimenti del ministro degli esteri italiano, Antonino Paternò marchese
di San Giuliano, in un telegramma che l’ambasciatore dell’Austria-Ungheria a
Roma, Kajetan Mérey, inviava a Vienna:
«Spontaneamente
il ministro degli esteri mi ha esposto oggi [29 luglio 1914] l’atteggiamento
dell’Italia nel caso di una guerra europea. Poiché la Triplice Alleanza ha un
carattere prettamente difensivo e noi, per il nostro violento procedere contro
la Serbia, abbiamo provocato la conflagrazione europea, ed inoltre non ci siamo
precedentemente accordati col governo di qui, l’Italia non avrebbe alcun
obbligo di partecipare alla guerra. Con ciò non è detto che l’Italia, presentandosi
questa eventualità, non si metta il quesito se meglio non corrisponda ai suoi
interessi porsi militarmente al nostro fianco o rimanere neutrale. Egli,
personalmente, sarebbe più inclinato verso la prima alternativa; e la
riterrebbe anche più probabile, a condizione che gli interessi dell’Italia nei
Balcani fossero salvaguardati e che noi non cercassimo colà mutamenti che si
offrissero una posizione preminente a scapito dall’Italia» (Luigi Alberini, Le origini della guerra del 1914, vol.
III, pp. 318-19).
In
realtà, gli alleati, tra cui Gran Bretagna e la Francia, promettevano all’Italia
concessioni territoriali sostanziali affinché rompesse l’alleanza con l’Austria e
la Germania ed entrasse in guerra al loro fianco. Il governo italiano giocava
la partita dell’intervento su due tavoli, ben sapendo però quale sarebbe stato
il tavolo su cui avrebbe potuto raccogliere una posta più alta. L’intesa fu
raggiunta con il Patto di Londra del 26 aprile 1915.
Non
che l’Austria non avesse avanzato delle proposte di cessioni territoriali
all’Italia, attraverso il barone Stephan Burián. In buona sostanza si trattava
di Trento, Rovereto, Riva, eccetera, ad eccezione di Madonna di Campiglio. Il
governo italiano però chiedeva Trieste, e non solo. Anche le isole Curzolane (*)
e che l’Austria lasciasse mano libera all’Italia in Albania. Tuttavia,
l’ambasciatore italiano a Vienna, il duca Avarna, telegrafava il 25 aprile: “se
poi per circostanze impreviste il Governo imperiale e reale finisse per cedere
all’ultimo momento anche su questo argomento come già avvenne per questioni di
massima, cosa poco probabile, vi sarebbe sempre da risolvere la grave questione
dell’esecuzione immediata dell’accordo” (La
Stampa, 21 maggio 1915).
Si
chiedeva tutto e subito, insomma si voleva la guerra!
Il
21 maggio, il disegno di legge veniva approvato all'unanimità dal Senato, i cui
componenti erano di nomina regia (in realtà nominati dal presidente del
consiglio). Il 22 maggio, furono diramati e pubblicati gli ordini per la
mobilitazione dell'esercito. La dichiarazione ufficiale di guerra fu consegnata all'Austria dall'ambasciatore italiano il 23 maggio con immediata apertura
delle ostilità.
Sul
ruolo che vi giocò la stampa si rammenta che il direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini,
divenuto senatore, «agiva ormai come uomo politico, che cercava di risolvere
questioni organizzative e militari (dal problema delle munizioni a quello dello
sviluppo dell’aviazione) inviando relazioni al presidente del Consiglio, al
Comando supremo, a vari ministri e mantenendo contatti con esponenti del mondo
politico e militare italiano e straniero» (Luciano Monzali, Nota biografica, in L. Alberini, cit., vol. I, p. 696).
*
Ecco
dunque in caso di grave crisi internazionale, come per ogni altro sostanziale caso,
a cosa serve il voto elettorale sul quale poggerebbe la propria
sovranità il cosiddetto “popolo”, espressione quanto mai eterogenea e astratta.
Si potrebbe citare in lungo in largo Lenin, ma si tratta di un autore divenuto
recentemente sospetto. E allora si pronunci Canfora, autore che taluni con
sprezzo del ridicolo vorrebbero filo marxista, il quale ritiene, senza peraltro
giungere a deduzioni radicali, che questo sistema sia dominato da
“un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di
costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto
controllo i meccanismi elettorali”.
(*)
La stampa dell’epoca riporta testualmente “isole Curzolari”. È un errore poiché
le Curzolari (o Echinadi) si trovano in Grecia e non hanno nulla a che fare con
le Curzolane che sono in Dalmazia e oggi fanno parte della Croazia. In alcune
di esse, come a Curzola e Lissa, vi si parlava la lingua veneta, con Napoleone
fecero parte del Regno d’Italia e dal 1915 al 1918 furono sotto l’Austria, poi
fino al 1921 furono occupate dall’Italia. Precisamente in quell’arcipelago
dalmata (di cui l’isola di Curzola è la maggiore) avvenne la tragica sconfitta
della marina italiana del 1866. Nel 1298, nella battaglia navale tra genovesi e
veneziani fu fatto prigioniero Marco Polo. Fino al 1920 vi abitavano
esclusivamente genti veneto-dalmate.
Esistono numerosi indizi che fanno pensare che la scelta dell'Italia per l'Intesa sia stata ben altro che una semplice scelta "di mercato", nel senso del mercato delle vacche: optare per il migliore offerente. Probabilmente non sapremo mai con esattezza quante pressioni e quante velate minacce da parte di Gran Bretagna e Francia (altro che le piazzate interventiste) abbiano determinato la decisione di Salandra e Sonnino. Sappiamo però che l'Italia, come del resto nel 1940 e come oggi, dipendeva largamente dal traffico mercantile che passava e passa per Gibilterra e Suez. E sappiamo che dopo Caporetto (ma dovevano essere stati stesi ben prima) esistevano piani inglesi per impossessarsi della flotta italiana e mettere su un governo fantoccio filoalleato nel caso in cui la situazione politica e militare fosse precipitata e il governo avesse chiesto l'armistizio alle Potenze centrali.
RispondiEliminail fronte italiano è sempre stato sottovalutato dagli alleati, almeno a parole, ma sapevano bene che se cadeva andava a rotoli tutto. senza l'italia la francia sarebbe crollata, come successe 20anni dopo
EliminaChissà perché questi fatti storici non sono celebrati nelle sedi istituzionali.
RispondiEliminasenza sottovalutare il mercanteggiamento cretino ( all' austria si chiedeva tutto-e-subito dai francoinglesi invece ci bastava un "paghero'" :-) ) io credo che abbia giocato un ruolo maggiore "l' obbedienza massonica " a cui questo paese e' tenuto fin dalla sua "nascita"
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