venerdì 10 aprile 2015

C’è molta differenza?


Poniamo vi sia un generale a capo di un’armata, e che una sua unità speciale proceda alla fucilazione immotivata di civili. La responsabilità di tale atto non può ricadere direttamente sul comandante dell’armata. Potremmo dunque sostenere che quel comandante generale è immune da ogni responsabilità?

Non è certamente immune da responsabilità amministrative se non ha emanato idonee disposizioni a ogni livello della scala gerarchica tese a prevenire simili atti, specie in presenza di una delicata situazione in cui sia ipotizzabile che dei reparti speciali possano lasciarsi andare ad operazioni “non convenzionali”. Né vale sostenere che tale opera di prevenzione non sarebbe necessaria poiché già esistono delle norme comuni che vietano violenze immotivate e indiscriminate sui civili.

Anche nel caso quel generale avesse emanato direttive affinché i comandanti a tutti i livelli vigilino sul comportamento delle truppe, egli sarebbe comunque responsabile moralmente dei crimini perpetrati dalle sue truppe, così com’è rilevabile, a un livello diverso, una responsabilità politica. Insomma, se anche quel comandante non andrà a processo per il crimine commesso dalle sue truppe, quantomeno non dovrebbe essere proposto per una medaglia.



Se poi si viene a considerare che quel reparto speciale, come insieme e come singolo individuo, è indottrinato secondo determinati modelli mentali e ideologici per cui non deve far specie un certo suo modo di operare “non convenzionale”, ebbene allora le responsabilità apicali dovrebbero essere valutate diversamente e non solo sotto il profilo amministrativo e morale.

Voglio dire, per fare un esempio in termini semplici, che se un reparto delle Ss ha commesso delle atrocità, non ci si può meravigliare come se la cosa non rientrasse nel novero di quello che denota ideologicamente e operativamente quel tipo di truppe.

Non dunque di una reazione “patologica” si tratta, ma di conformità a comportamenti e codici largamente condivisi (comandi, ingiunzioni, emozioni e rituali selezionati secondo specifici profili) che nel gregarismo alienato trovano il terreno esplicativo più congeniale, tanto da essere quei comportamenti giustificati in obbedienza di “ordini” e in rapporto alle “circostanze eccezionali”.

E dunque, per quanto riguarda i vertici militari, oltre che di responsabilità amministrativa, politica e morale, vi si potrebbero invece rintracciare anche delle responsabilità sotto altro profilo, così com’è avvenuto in occasione di processi per crimini di guerra.


Se invece di “reparto speciale dell’esercito” lo chiamo “reparto speciale di polizia”, se invece di “comandante in capo” dico “capo della polizia”, c’è molta differenza in termini di responsabilità?

5 commenti:

  1. Gli esecutori materiali ,in genere avvertono ,prima ancora di ricevr ordini specifici,se intorno a loro esiste "un clima "favorevole tale da permettergli di dar sfogo ai loro piu'bassi istinti con garanzia di quasi impunita'.

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  2. L'ho scritto ance a Malvino. L'assoluzione in Cassazione non è sicuramente un fatto da ignorare. Ma cosa dimostra? Che non ha commesso un atto criminoso (anzi, che non si può dimostrare abbia commesso il crimine, che non è proprio lo stesso).
    Resta il fatto che la macchina alla cui guida era stato messo ho funzionato nel peggiore dei modi.
    Cambiamo similitudine?
    A un generale a 3 stelle viene affidato un settore importante del fronte, una posizione strategica, una missione importante.
    La missione fallisce, porta a una disfatta, a una perdita di posizione.
    In una situazione stile guerra 15-18 la corte marziale analizzerebbe le responsabilità (un tanto al chilo per il fante, con la bilancia da orafo per il generale) e stabilirebbe le colpe.
    Bene, se il generale ha sbagliato e la disfatta è sua responsabilità, che risponda il generale. Altrimenti si scende la catena gerarchica fino a individuare il/i responsabili.
    Però del generale che ne facciamo?
    Lo abbiamo assolto, ma gli abbiamo affidato una grande responsabilità e non l'ha saputa gestire. Non è colpevole, non ha responsabilità diretta degli orrori né ha provato a coprirli.
    Resta il fatto che ha fallito nel gestire la grande responsabilità che gli era stata affidata.
    Troviamogli una sistemazione dignitosa, una fra le migliaia che si affidano a riciclati e trombati più o meno illustri.
    Però troviamogliene una un po' meno prestigiosa, un po' meno di primo piano, un po' meno remunerativa.

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  3. Ma nel caso specifico mi sembra chiaro che quanto è successo sia frutto di decisioni politiche mirate.
    Ok, questo è difficile da provare nei processi, ma conoscendo i fatti credo che si possa dare questo giudizio, non credete?
    La responsabilità reale è più alta dello stesso capo della polizia, è appunto politica.
    Al G8 si sono voluti incentivare scientemente disordini e punire i manifestanti pacifici.
    Probabilmente lo scopo era di dissuadere il più possibile la gente dal partecipare a questo tipo di manifestazione, e poi dare discredito alle tesi no-global tramite un etichettatura di violenza.
    Beh, ci sono riusciti.

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  4. Chi è colpevole, Olympe: l'esecutore o il mandante? ENTRAMBI
    "La banalità del male" (Eichmann a
    Gerusalemme).In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà
    di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha
    accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di
    distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro
    implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi
    nel lavoro della Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del
    fenomeno del Totalitarismo. La prima reazione della Arendt alla vista di
    Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che "le azioni erano
    mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne
    mostruoso". La percezione dell'autrice di Eichmann sembra essere quella
    di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità
    che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che
    consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi
    di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era
    neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di
    pensare. Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti
    permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la
    componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca
    obbedienza. Egli non era l'unica persona che appariva normale mentre gli
    altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di
    uomini perfettamente "normali" i cui atti erano mostruosi. Dietro questa
    "terribile normalità" della massa burocratica, che era capace di
    commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la
    Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". Questa
    "normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla
    società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova
    luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul
    contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente . Eichmann ha
    introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del
    caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che quei
    tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora,
    terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le
    atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a
    Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di
    criminale, realmente "hostis generis humani", "commette i suoi crimini
    in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che
    agisce male. "
    Saluti

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