Rade volte risurge per li rami
l’umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si
chiami.
Eugenio
Scalfari, nel suo consueto editoriale, ricostruisce lungamente la storia
d’Italia dall’Unità fino ad oggi, e parla diffusamente della guerra e della Liberazione.
Scrive “di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la
Resistenza l'ha riscattato”. Le solite cose. Afferma ancora: “gli italiani distrussero il loro
Paese”. Ma questi “italiani” chiamati rei da Scalfari non hanno corpo, fisionomia
sociale e politica. È pur sempre un’ammissione che il fascismo non fu un
fenomeno meteorologico, ma manca il richiamo a identità sociali, alle responsabilità dirette di classi e di gruppi, non vi è traccia di espressioni quali: classi dirigenti,
borghesia, agrari, clero, latifondisti e proprietari di giornali, eccetera. Chi
diede appoggio e denari a Mussolini?
Del resto, si potrebbe obiettare che ieri
si ricordava la Liberazione, non la nascita del fascismo, non la lunga
dittatura e gli strascichi di ogni genere che il regime ha lasciato e dei quali
troviamo ancora molte tracce a settant’anni dalla sua fine. Scalfari elude le responsabilità oggettive in capo alle classi dominanti, preferisce scaricarle genericamente sugli “italiani”, i quali agirebbero così per il fatto che l’unità del
paese arrivò tardi. Perciò la corruzione, la mafia, la crisi politica e
istituzionale, tutto discende da lì, dice sicuro. Eh già, la colpa è degli
austro-ungarici, dei borboni, degli angioini, magari dei saraceni e forse forse prima ancora del papato che si
oppose ai disegni egemonici dei Longobardi.
E
lui, Scalfari, in quei giorni del settembre 1943, prendeva il treno, salutava
gli amici del liceo, tutta gente in gamba naturalmente. Borghesia di provincia,
come Calvino e il suo papà che di fascismo sapeva bene. Dove
andava in età di chiamata alla leva? Fuggiva. Sui monti non l’hanno visto, né
altrove. Sul suo conto che avesse ragione Carlo Scorza, allora vicesegretario
del PNF?
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