Poniamo vi sia un generale a capo di un’armata, e che una sua unità speciale proceda alla
fucilazione immotivata di civili. La responsabilità di tale atto non può
ricadere direttamente sul comandante
dell’armata. Potremmo dunque sostenere che quel comandante generale è immune da ogni responsabilità?
Non
è certamente immune da responsabilità amministrative se non ha emanato idonee
disposizioni a ogni livello della scala gerarchica tese a prevenire simili atti,
specie in presenza di una delicata situazione in cui sia ipotizzabile che dei
reparti speciali possano lasciarsi andare ad operazioni “non convenzionali”. Né vale
sostenere che tale opera di prevenzione non sarebbe necessaria poiché già
esistono delle norme comuni che vietano violenze immotivate e indiscriminate
sui civili.
Anche
nel caso quel generale avesse emanato direttive affinché i comandanti a tutti i
livelli vigilino sul comportamento delle truppe, egli sarebbe comunque
responsabile moralmente dei crimini perpetrati dalle sue truppe, così com’è
rilevabile, a un livello diverso, una responsabilità politica. Insomma, se anche
quel comandante non andrà a processo per il crimine commesso dalle sue truppe, quantomeno
non dovrebbe essere proposto per una medaglia.
Se
poi si viene a considerare che quel reparto speciale, come insieme e come
singolo individuo, è indottrinato secondo determinati modelli mentali e
ideologici per cui non deve far specie un certo suo modo di operare “non
convenzionale”, ebbene allora le responsabilità apicali dovrebbero essere
valutate diversamente e non solo sotto il profilo amministrativo e morale.
Voglio
dire, per fare un esempio in termini semplici, che se un reparto delle Ss ha commesso delle atrocità, non ci si può meravigliare come se la cosa non
rientrasse nel novero di quello che denota ideologicamente e operativamente
quel tipo di truppe.
Non
dunque di una reazione “patologica” si tratta, ma di conformità a comportamenti
e codici largamente condivisi (comandi, ingiunzioni, emozioni e rituali
selezionati secondo specifici profili) che nel gregarismo alienato trovano il
terreno esplicativo più congeniale, tanto da essere quei comportamenti giustificati
in obbedienza di “ordini” e in rapporto alle “circostanze eccezionali”.
E dunque, per quanto riguarda i vertici militari, oltre che di responsabilità
amministrativa, politica e morale, vi si potrebbero invece rintracciare
anche delle responsabilità sotto altro profilo, così com’è avvenuto in
occasione di processi per crimini di guerra.
Se
invece di “reparto speciale dell’esercito” lo chiamo “reparto speciale di
polizia”, se invece di “comandante in capo” dico “capo della polizia”, c’è
molta differenza in termini di responsabilità?
Gli esecutori materiali ,in genere avvertono ,prima ancora di ricevr ordini specifici,se intorno a loro esiste "un clima "favorevole tale da permettergli di dar sfogo ai loro piu'bassi istinti con garanzia di quasi impunita'.
RispondiEliminaè vero anche questo
EliminaL'ho scritto ance a Malvino. L'assoluzione in Cassazione non è sicuramente un fatto da ignorare. Ma cosa dimostra? Che non ha commesso un atto criminoso (anzi, che non si può dimostrare abbia commesso il crimine, che non è proprio lo stesso).
RispondiEliminaResta il fatto che la macchina alla cui guida era stato messo ho funzionato nel peggiore dei modi.
Cambiamo similitudine?
A un generale a 3 stelle viene affidato un settore importante del fronte, una posizione strategica, una missione importante.
La missione fallisce, porta a una disfatta, a una perdita di posizione.
In una situazione stile guerra 15-18 la corte marziale analizzerebbe le responsabilità (un tanto al chilo per il fante, con la bilancia da orafo per il generale) e stabilirebbe le colpe.
Bene, se il generale ha sbagliato e la disfatta è sua responsabilità, che risponda il generale. Altrimenti si scende la catena gerarchica fino a individuare il/i responsabili.
Però del generale che ne facciamo?
Lo abbiamo assolto, ma gli abbiamo affidato una grande responsabilità e non l'ha saputa gestire. Non è colpevole, non ha responsabilità diretta degli orrori né ha provato a coprirli.
Resta il fatto che ha fallito nel gestire la grande responsabilità che gli era stata affidata.
Troviamogli una sistemazione dignitosa, una fra le migliaia che si affidano a riciclati e trombati più o meno illustri.
Però troviamogliene una un po' meno prestigiosa, un po' meno di primo piano, un po' meno remunerativa.
Ma nel caso specifico mi sembra chiaro che quanto è successo sia frutto di decisioni politiche mirate.
RispondiEliminaOk, questo è difficile da provare nei processi, ma conoscendo i fatti credo che si possa dare questo giudizio, non credete?
La responsabilità reale è più alta dello stesso capo della polizia, è appunto politica.
Al G8 si sono voluti incentivare scientemente disordini e punire i manifestanti pacifici.
Probabilmente lo scopo era di dissuadere il più possibile la gente dal partecipare a questo tipo di manifestazione, e poi dare discredito alle tesi no-global tramite un etichettatura di violenza.
Beh, ci sono riusciti.
Chi è colpevole, Olympe: l'esecutore o il mandante? ENTRAMBI
RispondiElimina"La banalità del male" (Eichmann a
Gerusalemme).In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà
di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha
accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di
distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro
implicazioni morali, compiti che sono stati estremamente significativi
nel lavoro della Arendt fin dai primi scritti nel tardo 1940 del
fenomeno del Totalitarismo. La prima reazione della Arendt alla vista di
Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che "le azioni erano
mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne
mostruoso". La percezione dell'autrice di Eichmann sembra essere quella
di un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità
che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che
consiste, nell'organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi
di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era
neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di
pensare. Eichmann ha sempre agito all'interno dei ristretti limiti
permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la
componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca
obbedienza. Egli non era l'unica persona che appariva normale mentre gli
altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di
uomini perfettamente "normali" i cui atti erano mostruosi. Dietro questa
"terribile normalità" della massa burocratica, che era capace di
commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la
Arendt rintraccia la questione della "banalità del male". Questa
"normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla
società - in questo caso i programmi della Germania nazista - trova
luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul
contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente . Eichmann ha
introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del
caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che quei
tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora,
terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le
atrocità messe insieme, poiché implica - come fu detto e ripetuto a
Norimberga dagli imputati e dai loro patroni - che questo nuovo tipo di
criminale, realmente "hostis generis humani", "commette i suoi crimini
in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che
agisce male. "
Saluti