venerdì 17 aprile 2015

Una questione così vecchia che sembra nata oggi


Questo lungo post si compone di una prima parte che accenna a una ricostruzione storica degli aspetti politici della vicenda di quello che è stato chiamato “revisionismo”, cui doveva seguire una parte “teorica” a riguardo dei nessi causali tra la crisi del modo di produzione capitalistico e le conseguenze sul piano geopolitico. Questa seconda parte era più lunga della prima e perciò ho deciso di stralciarla lasciando infine solo un cenno.

Il richiamo alla vicenda storica del revisionismo mi serve per mettere a giorno le motivazioni dalle quali è nata la sua contrapposizione al marxismo, posto che sul piano della vicenda storica del Novecento il revisionismo e con esso il riformismo appaiono come i veri vincitori della contesa con il marxismo. Tuttavia, come dirò in seguito, a considerare le cose dappresso, cioè alla luce degli accadimenti dell’ultimo secolo, se il riformismo, quale espressione politica, e il revisionismo, quale fondamento teorico, sembrano aver vinto, ciò sta nella misura in cui la collaborazione con la borghesia è servita a rendere la classe dominante più forte e il suo potere assoluto, senza peraltro risparmiarci immani tragedie (passate, presenti e ... future).

Ciò che il revisionismo e il riformismo non possono occultare della realtà del modo di produzione capitalistico sono gli effetti della contraddizione fondamentale che sta alla base del processo di valorizzazione del capitale, i quali si esprimono, come sempre, con la crisi. Quella in corso presenta caratteri di persistenza e dinamiche economico-sociali complessive che a tratti la distinguono dalle precedenti. Il disorientamento in cui è piombato l’establishment politico e il fallimento di ogni previsione degli economisti borghesi ne costituiscono una presa d’atto.

Solo alla luce del marxismo le cause e i fenomeni della crisi del modo di produzione capitalistico trovano risposta sul piano scientifico.

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Le dispute accese e le vere e proprie lotte che dalla fine dell’Ottocento hanno diviso dapprima il movimento socialista e poi per un secolo quella che chiamiamo genericamente “sinistra”, possono essere viste e riassunte, dando retta a un’interpretazione corrente, come uno scisma tra l’assoluto e il possibile.

Che cos’è stato il revisionismo? Almeno all’inizio è stato un orientamento teorico che attaccava scientemente i postulati del marxismo per trasformare il partito in un movimento democratico alleato della borghesia. Si trattava di una forma di opportunismo mascherato da realismo politico che non negava le contraddizioni del capitalismo ma sosteneva di volerle smussare e con le riforme puntare gradualmente a instaurare il socialismo.

Anzitutto bisogna osservare che, almeno fino al primo conflitto mondiale, la conoscenza diretta e approfondita delle opere fino allora edite di Marx e di Engels fu patrimonio di una ristrettissima cerchia di persone ai vertici e nei quadri dei partiti socialista e poi comunista. Per il resto, il comune atteggiamento verso le questioni del socialismo e della critica sociale era grossomodo di tipo spontaneo, non troppo dissimile da quello anarchico se si fa eccezione per l’impostazione individualistica e la disposizione a compiere atti insensati che caratterizzava quest’ultimo. Abbondavano in lungo e in largo gli stereotipati, le approssimazioni e le volgarizzazioni che con il materialismo dialettico non avevano nulla a che spartire.

È sufficiente ricordare il cosiddetto “socialismo della cattedra”, oppure leggere le glosse al Programma di Gotha redatte da Marx per farsi un’idea di quali semplificazioni e contraddizioni allignassero in seno ai gruppi dirigenti socialisti. Perciò categorie e concetti si denotavano di approssimazione e assumevano toni declamatori non solo a livello delle masse. Possiamo ben dire che revisionismo e opportunismo da un lato e dogmatismo “massimalista” dall’altro avessero buon gioco nel fare strazio del marxismo.

È in una tale situazione, ancor prima della teorizzazione esplicita del revisionismo, che Marx arrivò a pronunciare la fin troppo celebre e fraintesa frase: Je ne suis pas marxiste. Con la sua morte, toccò ad Engels assumersi in solitudine, oltre al non facile onere di dar corso alla pubblicazione degli altri due libri de Il Capitale, la fatica di raccordare e mediare tra le fazioni del socialismo, e di dispensare consigli e ammonimenti ai rissosi leader dei partiti e movimenti socialisti europei (1).

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Uno dei personaggi chiave del revisionismo fu senza dubbio Eduard Bernstein. Nato in una modesta famiglia ebraica, autodidatta, giunto al socialismo per motivi sentimentali, all’età di 19 anni era andato in esilio in Svizzera per effetto delle leggi antisocialiste di Bismarck (1878). Lì redige un giornale, il Sozialdemokrat, con Bebel e Kautsky, meritandosi il plauso di Engels, anche se questi lo considerava un “filisteo” (2). Nel 1888 Bernstein si trasferì a Londra dove entrò in contatto diretto con Engels e prese a scrivere un libro sul comunismo inglese del XVII secolo. Durante questi anni egli fu corrispondente del giornale del partito, Vorwärts, e della Neue Zeit di Kautsky.

Lo scopo che il partito socialdemocratico tedesco perseguiva era quello di utilizzare la tribuna del parlamento come centro del dibattito politico e le elezioni come mezzo di propaganda per diventare abbastanza forte da costringere il governo ad adottare una legislazione di concessioni in campo sociale in modo da migliorare le condizioni di vita della classe operaia. Si trattava di obiettivi tattici perseguiti nell’ottica più ampia di una strategia che avrebbe saputo mantenere salda nelle masse la fiducia nella rivoluzione e della trasformazione del sistema.

Non mancò chi vide in ciò un tradimento e una concessione al fatalismo. Erano quei critici che non si curavano del processo storico, e che invece tendevano a porre l’accento esclusivamente politico della conquista del potere, considerando la rivoluzione come un risultato soprattutto dell’intervento soggettivo nel processo storico.

Bismarck fece votare dal Reichstag alcune leggi per “la tutela dell’operaio” che erano un primo abbozzo di una legislazione sulle assicurazioni sociali (1883). Ciò da un lato s’iscriveva nelle tradizioni illuminate della Prussia, e nel paternalismo di stampo cristiano, ma soprattutto aveva lo scopo di disarmare l’opposizione socialdemocratica che chiedeva leggi che facilitassero l’integrazione sociale e politica degli operai nel sistema.

Molti discepoli di Lassalle o ammiratori di Rodbertus (!), la cui influenza si faceva sentire specie tra gli intellettuali, ritenevano che non si dovesse opporre un rifiuto alla politica bismarckiana. Erano quelle correnti del socialismo democratico ed etico che puntavano, anche a quel tempo, a una serie di correzioni o eliminazioni dei “lati cattivi” del capitalismo per portarlo ad un grado di perfezione. A tali correnti non apparteneva Bernstein, il quale in tale occasione ebbe a scrivere sul Sozialdemokrat: “Attendersi dall’attuale Stato di classe la soluzione del problema sociale è come sperare che il carbone produca uva”(3).  

E però Bismarck se da un lato si proponeva di riconciliare le masse lavoratrici con lo Stato per strapparle all’influenza socialista e dei sindacati, dall’altro non era assolutamente disposto a garantire agli operai la protezione dello Stato contro l’arbitrio padronale. E ciò portava acqua al mulino dei marxisti che concepivano il socialismo come contrapposizione globale, pur nella dialettica del processo storico, e non come semplice correzione. Essi ritenevano insuperabile nell’ambito del capitalismo la contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive, il cui carattere sociale tende sempre più ad accentuarsi, e l’ordinamento dei rapporti di produzione in cui viceversa domina l’appropriazione privata della ricchezza. That is the question.

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Engels morì nel 1895, e già l’anno seguente Bernstein manifestò apertamente i propri dubbi in relazione al marxismo e al superamento del capitalismo. A Londra viveva in una posizione isolata e sempre più si convinceva che la storia non stesse seguendo quello che egli credeva il sentiero tracciato da Marx.

Dal 1896 al 1898 egli stampò una serie di articoli nella Neue Zeit sui Problemi del socialismo, inviò poi un suo discorso al congresso del partito tedesco a Stoccarda. Sviluppò poi questi temi in un volume pubblicato nel 1899 dal titolo Die Voraussetzungen des Sozialismus (I presupposti del socialismo). Questo libro rappresentò la prima messa a punto teorica del revisionismo socialdemocratico, e fu certamente molto più letto di quanto lo siano mai stati gli scritti di Marx. Non solo l’intellighenzia riformista del partito accolse con favore il libro, ma tra le fila della borghesia si levarono (occorre dirlo?) gridolini di giubilo.

Bernstein esprimeva un orientamento antimaterialistico, tanto che senza tener conto dei suoi rapporti con il movimento filosofico neo-kantiano la sua svolta risulterebbe incomprensibile. Comincia a mettere in dubbio il ruolo giocato dai rapporti economici nella formazione sia dei rapporti politici e giuridici, e sia dalla coscienza sociale: “Se regna la necessità, a che serve l’azione?”. Ecco dunque che il socialismo deve attenersi piuttosto a un criterio d’ordine morale; le nozioni etiche di giustizia e di uguaglianza possono ispirare l’azione creativa. Tanto creativa che Bernstein arriva ad appoggiare il colonialismo perché ciò favorisce l’espansione del capitalismo.

Respingeva l’analisi marxiana, giungendo a scrivere che «Ciò che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, essi l'hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa». In nome dell’economia marginalista, che Bernstein conosce attraverso i lavori di Jevons e di Böhm-Bawerk, dirige il suo attacco contro i fondamenti teorici stessi della critica marxiana dell’economia politica, e del plusvalore che ne risulta.

Le obiezioni che Bernstein muove contro Marx non sono tuttavia d’ordine scientifico ma prendono spunto dal raffronto concreto tra la realtà del capitalismo così come si andava sviluppando e ciò che egli riteneva essere la teoria “catastrofica” di Marx, secondo il quale il crollo del capitalismo si situa al termine di un processo ineluttabile. Vi erano altresì prove palesi che il capitalismo era ben lontano dal crollo, e che invece il sistema si stava innegabilmente sviluppando in modo forte e aggressivo.

La borghesia non stava scomparendo, il numero di persone abbienti era in aumento e non in diminuzione, il capitale non si concentrava in poche mani, la classe lavoratrice non stava subendo un depauperamento progressivo. Anzi, specie nei paesi a capitalismo più avanzato si stava formando in seno al proletariato un ceto operaio “aristocratico”.

Padroni e servi ci sarebbero stati sempre, ma un’era di prosperità si stava affacciando, una vita senza fame e dove uomini, donne, nonni e bambini non sarebbero più vissuti ammassati insieme, mangiando, dormendo, fornicando, ammalandosi e crepando in miserabili casamenti senza vetri alle finestre e con i tetti che lasciavano filtrare la pioggia. Non scriveva esattamente queste parole ma il senso era quello.

Si trattava dunque di una realtà che contraddiceva le previsioni di Marx, o almeno quelle che Bernstein considerava tali (4). Insisteva dunque sul fatto che più si diffondeva il denaro e un relativo benessere tra la classe operaia, meno facile era che ogni singola crisi economica sfociasse in una rivoluzione. Se i socialisti aspettavano questo, disse, avrebbero atteso all’infinito.

Quella di Bernstein, come detto, non era una posizione isolata, tutt’altro. Sull’onda dei successi conseguiti sul terreno pratico e in vista di successi maggiori, la prospettiva socialista diventava sempre più qualcosa di mitico e la socialdemocrazia un partito democratico-borghese che puntava al socialismo non attraverso la crisi economica, sociale e politica, bensì estendendo progressivamente il controllo sociale e attuando gradualmente il principio della cooperazione.

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La risposta più efficace Bernstein l’ebbe dalla storia, come del resto la stiamo avendo anche noi oggi, accecati da un benessere che si fa sempre più rarefatto e diseguale. È in nome di questo tipo di sviluppo che è stato rotto ogni equilibrio con la natura, condotto l’esaurimento delle risorse minerali, vegetali e animali, alterati i rapporti umani. Nel suo modo d’essere l’accumulazione della ricchezza si disinteressa del progresso sociale laddove il profitto non vi trovi il suo tornaconto.

Bernstein non vedeva come il saccheggio delle risorse e l’arricchimento della classe dominante migliorasse solo incidentalmente le condizioni di vita delle classi sfruttate, e come la crisi riproponesse il vecchio tema del ritorno diffuso della povertà e dell’insicurezza. Aveva dichiarato che difficilmente vi sarebbero state ancora delle crisi economiche generali, grazie allo sviluppo del sistema creditizio e di quello delle comunicazioni (lo venisse a raccontare oggi!), e viceversa nuove crisi arrivarono già agli inizi del Novecento, per non dire poi della sconvolgente crisi economica del 1929 che aprì le porte al nazismo e agli orrori del secondo conflitto interimperialista (che B. non vide essendo deceduto del 1932). Conflitto che seguiva a vent’anni di distanza la prima carneficina su scala industriale che aveva cancellato dall’Europa un’intera generazione.

Ciò che poté constatare fu un’altra smentita alle sue previsioni, ossia che i sindacati avrebbero gradualmente espropriato i profitti a favore dei salari, e altre amenità del genere che furono brillantemente sottoposte a una critica serrata da Rosa Luxemburg, in particolare in una recensione al libro di Bernstein, dal titolo Riforma sociale o rivoluzione? In buona sostanza, come rileva Rosa Luxemburg, Bernstein ha messo in discussione “il corso stesso dello sviluppo della società capitalistica e conseguentemente il passaggio all’ordinamento socialista” (5).

Oggi di questi temi non ci si occupa nemmeno più, lo stesso termine “socialismo”, per non dire del “comunismo”, è percepito come desueto e anacronistico, superato dal corso degli eventi e messo in totale discredito.

Il privilegio edonistico, un tempo riservato solo a una classe sociale, si è democratizzato, con la più grande soddisfazione sia degli schiavi che dei padroni, i quali recuperano nell’incasso delle vendite infinitamente molto più di ciò che sborsano in salari. In ciò gli opportunisti del riformismo borghese vedono il trionfo delle loro tesi e il successo della loro politica.

È stato l’emergere del mercato di consumo a garantire al capitale un nuovo ciclo pluridecennale dell'accumulazione, ma le stesse leggi che hanno prodotto tale slancio ci confermano ogni giorno di più che nulla è per sempre, nella crisi generale del modo di produzione capitalistico esse mostrano il carattere dialettico dei processi ininterrotti del divenire e del transitorio, la caducità di tutte le cose.

Nello stadio del dominio reale del capitale, la logica di sviluppo (condizione, forme, settore di applicazione) delle macchine e così come dell’applicazione tecnologica della scienza è tutta interna al processo di valorizzazione. Essa risponde alla duplice esigenza di ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario, e di assumere il controllo sui lavoratori. L’aumento della forza produttiva del lavoro e la riduzione del lavoro necessario ad un minimo è la tendenza necessaria del capitale.

Tale tendenza necessaria implica sconvolgimenti epocali sotto ogni aspetto della materia sociale.

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La questione del capitalismo e del socialismo per Marx ed Engels non si poneva nei termini proposti da Bernstein e dai revisionisti. Sarebbe oltretutto ingenuo considerare che Marx ed Engels, ad esempio, non si rendessero conto del fatto che “man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”, e avevano altresì ben chiaro il costituirsi di un ceto operaio “aristocratico”, e già Engels nel lontano 1852, in una lettera a Marx, parlava degli «operai perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperity».

Scrive, tra l’altro, Marx nel cap. 23 del suo librone che: “tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dell’accumulazione e ogni estensione dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi. Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare”.

Per quanto astratta, tale formulazione esprime una legge, per comprendere la quale è necessario sapere di che cosa si sta parlando e dunque è necessario un approccio scientifico e dialettico alle questioni, e però ciò che manca con ogni evidenza nella critica dei revisionisti al marxismo è proprio il nesso vivo, dialettico, esistente tra teoria e prassi.

Su un punto il revisionismo riformista aveva ragione, e cioè questo:

Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso, nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.

Solo che queste parole non sono di Bernstein, bensì di Karl Marx (6). E dunque anche secondo Marx si sarebbe dovuto attendere il maturare di tali condizioni materiali per nuovi e superiori rapporti sociali. Si tratta di attendere il giorno fatidico in cui suoneranno le campane a morto e sarà annunciata la fine del capitalismo? Marx prosegue:

Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.

Che le condizioni materiali per la soluzione del problema esistessero già o quantomeno fossero in formazione è confermato dal fatto che sia sul piano teorico che su quello fattuale quel problema l’umanità se l’è posto per tempo e anzi ha tentato anche di risolverlo sul piano concreto della realtà storica. Il tentativo non si produsse però nei paesi a capitalismo avanzato, bensì in quelli più arretrati e semifeudali, dunque in singole realtà isolate e in condizioni oggettivamente impossibili.

Ciò che ci sta davanti è invece una situazione storica assai diversa e in via di trasformazione sul piano economico, di mutamento sul piano sociale e dei rapporti internazionali. Il capitalismo, a causa del suo sviluppo non meno che delle sue contraddizioni, sta diventando qualcosa d’altro, lo dicono le latenze che in esso stanno maturando. In simili circostanze è sempre in agguato il pericolo della guerra:

“Il mezzo con il quale l’imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stato la guerra. Infatti, la guerra permette innanzitutto alle potenze imperialistiche vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo” (7).

Il processo della terza guerra mondiale è già molto avanti, e di ciò ormai sono in molti a esserne consapevoli. Il precipitare della crisi potrà accelerare tale dinamica in qualunque momento. La collaborazione di classe e il mantenimento dell’ordine all’interno costituiscono, ancora una volta, la condizione essenziale per la guerra.



(1) Nella corrispondenza di Engels di quel periodo è molto frequente imbattersi in termini come “bestie”, “asini”, “canaglie”, “somari”, e poi “confusione”, “stupidaggini”, e frasi come queste: “socialisti solo pro forma”, “smidollati dell’ala destra” del partito (lettera del 12 giugno 1883), oppure “noi non ci siamo mai illusi di questa gente” (10 maggio dello stesso anno).

(2) La lettera in cui Engels definisce Bernstein come un “filisteo” è diretta a J.P. Becker, ed è del 1° aprile 1880. In una lettera successiva, del 2 febbraio 1881, diretta a Bernstein, Engels scrive: «I 5 numeri del Sozialdemokrat pubblicati dall’inizio dell’anno testimoniano un significativo progresso. Sono scomparsi i toni melanconici e disperati degli “sconfitti”, la complementare ampollosità piccolo borghese, la retorica rivoluzionaria alla Most continuamente alternata alla docilità filistea […]».

Più interessante, sia dal punto di vista teorico che della ricostruzione storica, la lettera, sempre allo stesso Bernstein, del 12 marzo 1881, laddove E. scrive:

«Per il resto, il giornale si mantiene in generale buono, alcuni numeri sono decisamente molto buoni, anche se non nocerebbe diminuire gli articoli dottrinari come quello sul socialismo di Stato. Come si fa a mettere nello stesso calderone Turgot, uno dei principali economisti del XVIII secolo, e Necker, uomo eminentemente pratico della haute finance, precursore di Laffitte e dei Péreire, e addirittura il miserabile Calonne, l’uomo degli espedienti alla giornata, un autentico aristocratico: après moi le déluge? Come si fa a metterli insieme, specialmente Turgot e lo stesso Neker, con un Bismarck che, al massimo, vuole à la Calonne il denaro a ogni costo, e poi ancora lo stesso Bismarck con Stoecker e, dall’altra parte, con [Albert] Schäffle & Co., ognuno dei quali segue orientamenti del tutto diversi? Se la borghesia ne fa d’ogni erba un fascio, non è un buon motivo perché noi procediamo in modo altrettanto acritico. Le radici del dottrinarismo stanno proprio qui: si crede alle affermazioni interessate e limitate dell’avversario e poi su queste affermazioni si costruisce un sistema che naturalmente sta in piedi o cade insieme ad esse.
[…] È una mera falsificazione interessata – prosegue Engels nella sua lettera – da parte della borgheia di Manchester definire come “socialismo le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza; dazi protettivi, corporazioni, monopoli del tabacco, statalizzazione di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane". Noi dobbiamo criticare tutto questo, non crederci. Se ci crediamo e ci costruiamo sopra una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse, ossia, molto semplicemente, quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che una reazione feudale da un lato e, dall’altro, un pretesto per spremere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dello Stato e di organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, anche un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dei sorveglianti di fabbrica … bel socialismo! Ma a questo si arriva prestando fede ai borghesi, credendo a ciò che essi stessi non credono ma danno solo a intendere: Stato = socialismo.»
L’articolo cui si riferisce E. non era stato scritto da B. ma da Katusky, tuttavia tale articolo è indicativo del clima e della confusione teorica dell’ambiente e vale a comprendere quali fossero già le tendenze teoriche revisioniste in atto.

(3) Jacques Droz, St. del socialismo, Editori Riuniti, 1974, 2, pp. 30-31.

(4) Sul modo in cui Bernstein rendeva il pensiero di Marx, credo sia indicativo quanto ebbe a rimarcargli lo stesso Engels, pur con tutte le cautele e la cortesia che il caso richiedeva. A Bernstein fu affidato l’incarico della traduzione dal francese al tedesco de La Miseria della filosofia, in tale occasione Engels gli scrisse: “Spero che lei non si sia irritato troppo per i molti cambiamenti che ho fatto al Suo manoscritto [della traduzione del pamphlet di Marx]. Come ho già detto a Kautsky, noi non siamo in grado di imitare lo stile di Marx, ma il nostro stile deve tuttavia essere tale da non arrivare a contraddirlo [!!]. Tenga un po’ presente questo e faremo già un lavoro passabile” (lettera del 1° gennaio 1884).

(5) R. Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti, 1967, p. 147.

(6) Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Marx scrive: «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.»


(7) Risoluzione della Direzione Strategica delle Brigate Rosse, febbraio 1978.

3 commenti:

  1. Altri post di questo eccelso livello e, insieme a molti dei precedenti, ci si può fare benissimo un libro.

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    1. Caro Mauro, ti ringrazio per la stima tuttavia non di altri libri abbiamo bisogno ma di lettori che vogliono pensare con la propria testa. ciao

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  2. È da tanto che aspettavo un suo post sul tema, spero proseguirà questo excursus sul revisionismo. ne approfitto per ringraziarla con sentita gratitudine, leggere pressoché quotidianamente le sue parole è un esercizio irrinunciabile, il cervello e il cuore vi si abbeverano come alla fonte più pura. Saluti a pugno chiuso

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