Questo
lungo post si compone di una prima parte che accenna a una ricostruzione
storica degli aspetti politici della vicenda di quello che è stato chiamato
“revisionismo”, cui doveva seguire una parte “teorica” a riguardo dei nessi
causali tra la crisi del modo di produzione capitalistico e le conseguenze sul
piano geopolitico. Questa seconda parte era più lunga della prima e perciò ho
deciso di stralciarla lasciando infine solo un cenno.
Il
richiamo alla vicenda storica del revisionismo mi serve per mettere a giorno le
motivazioni dalle quali è nata la sua contrapposizione al marxismo, posto che sul
piano della vicenda storica del Novecento il revisionismo e con esso il
riformismo appaiono come i veri vincitori della contesa con il marxismo. Tuttavia,
come dirò in seguito, a considerare le cose dappresso, cioè alla luce degli
accadimenti dell’ultimo secolo, se il riformismo, quale espressione politica, e
il revisionismo, quale fondamento teorico, sembrano aver vinto, ciò sta nella
misura in cui la collaborazione con la borghesia è servita a rendere la classe
dominante più forte e il suo potere assoluto, senza peraltro risparmiarci
immani tragedie (passate, presenti e ... future).
Ciò
che il revisionismo e il riformismo non possono occultare della realtà del modo
di produzione capitalistico sono gli effetti della contraddizione fondamentale che
sta alla base del processo di valorizzazione del capitale, i quali si esprimono,
come sempre, con la crisi. Quella in corso presenta caratteri di persistenza e
dinamiche economico-sociali complessive che a tratti la distinguono dalle
precedenti. Il disorientamento in cui è piombato l’establishment politico e il
fallimento di ogni previsione degli economisti borghesi ne costituiscono una
presa d’atto.
Solo
alla luce del marxismo le cause e i fenomeni della crisi del modo di produzione
capitalistico trovano risposta sul piano scientifico.
*
Le
dispute accese e le vere e proprie lotte che dalla fine dell’Ottocento hanno
diviso dapprima il movimento socialista e poi per un secolo quella che
chiamiamo genericamente “sinistra”, possono essere viste e riassunte, dando
retta a un’interpretazione corrente, come uno scisma tra l’assoluto e il
possibile.
Che
cos’è stato il revisionismo? Almeno all’inizio è stato un orientamento teorico che
attaccava scientemente i postulati del marxismo per trasformare il partito in
un movimento democratico alleato della borghesia. Si trattava di una forma di opportunismo
mascherato da realismo politico che non negava le contraddizioni del
capitalismo ma sosteneva di volerle smussare e con le riforme puntare
gradualmente a instaurare il socialismo.
Anzitutto
bisogna osservare che, almeno fino al primo conflitto mondiale, la conoscenza
diretta e approfondita delle opere fino allora edite di Marx e di Engels fu
patrimonio di una ristrettissima cerchia di persone ai vertici e nei quadri dei
partiti socialista e poi comunista. Per il resto, il comune atteggiamento verso
le questioni del socialismo e della critica sociale era grossomodo di tipo
spontaneo, non troppo dissimile da quello anarchico se si fa eccezione per
l’impostazione individualistica e la disposizione a compiere atti insensati che
caratterizzava quest’ultimo. Abbondavano in lungo e in largo gli stereotipati,
le approssimazioni e le volgarizzazioni che con il materialismo dialettico non
avevano nulla a che spartire.
È
sufficiente ricordare il cosiddetto “socialismo della cattedra”, oppure leggere
le glosse al Programma di Gotha redatte
da Marx per farsi un’idea di quali semplificazioni e contraddizioni
allignassero in seno ai gruppi dirigenti socialisti. Perciò categorie e concetti si denotavano di approssimazione e assumevano toni declamatori non solo a livello delle masse. Possiamo
ben dire che revisionismo e opportunismo da un lato e dogmatismo “massimalista”
dall’altro avessero buon gioco nel fare strazio del marxismo.
È
in una tale situazione, ancor prima della teorizzazione esplicita del
revisionismo, che Marx arrivò a pronunciare la fin troppo celebre e fraintesa
frase: Je ne suis pas marxiste. Con
la sua morte, toccò ad Engels assumersi in solitudine, oltre al non facile
onere di dar corso alla pubblicazione degli altri due libri de Il Capitale, la fatica di raccordare e
mediare tra le fazioni del socialismo, e di dispensare consigli e ammonimenti ai
rissosi leader dei partiti e movimenti socialisti europei (1).
*
Uno
dei personaggi chiave del revisionismo fu senza dubbio Eduard Bernstein. Nato
in una modesta famiglia ebraica, autodidatta, giunto al socialismo per motivi
sentimentali, all’età di 19 anni era andato in esilio in Svizzera per effetto
delle leggi antisocialiste di Bismarck (1878). Lì redige un giornale, il Sozialdemokrat, con Bebel e Kautsky,
meritandosi il plauso di Engels, anche se questi lo considerava un “filisteo” (2).
Nel 1888 Bernstein si trasferì a Londra dove entrò in contatto diretto con
Engels e prese a scrivere un libro sul comunismo inglese del XVII secolo.
Durante questi anni egli fu corrispondente del giornale del partito, Vorwärts, e della Neue Zeit di Kautsky.
Lo
scopo che il partito socialdemocratico tedesco perseguiva era quello di
utilizzare la tribuna del parlamento come centro del dibattito politico e le elezioni
come mezzo di propaganda per diventare abbastanza forte da costringere il
governo ad adottare una legislazione di concessioni in campo sociale in modo da
migliorare le condizioni di vita della classe operaia. Si trattava di obiettivi
tattici perseguiti nell’ottica più ampia di una strategia che avrebbe saputo
mantenere salda nelle masse la fiducia nella rivoluzione e della trasformazione
del sistema.
Non
mancò chi vide in ciò un tradimento e una concessione al fatalismo. Erano quei
critici che non si curavano del processo storico, e che invece tendevano a
porre l’accento esclusivamente politico della conquista del potere, considerando
la rivoluzione come un risultato soprattutto dell’intervento soggettivo nel
processo storico.
Bismarck
fece votare dal Reichstag alcune leggi per “la tutela dell’operaio” che erano
un primo abbozzo di una legislazione sulle assicurazioni sociali (1883). Ciò da
un lato s’iscriveva nelle tradizioni illuminate della Prussia, e nel paternalismo
di stampo cristiano, ma soprattutto aveva lo scopo di disarmare l’opposizione
socialdemocratica che chiedeva leggi che facilitassero l’integrazione sociale e
politica degli operai nel sistema.
Molti
discepoli di Lassalle o ammiratori di Rodbertus (!), la cui influenza si faceva
sentire specie tra gli intellettuali, ritenevano che non si dovesse opporre un
rifiuto alla politica bismarckiana. Erano quelle correnti del socialismo
democratico ed etico che puntavano, anche a quel tempo, a una serie di
correzioni o eliminazioni dei “lati cattivi” del capitalismo per portarlo ad un
grado di perfezione. A tali correnti non apparteneva Bernstein, il quale in
tale occasione ebbe a scrivere sul Sozialdemokrat:
“Attendersi dall’attuale Stato di classe la soluzione del problema sociale è
come sperare che il carbone produca uva”(3).
E
però Bismarck se da un lato si proponeva di riconciliare le masse lavoratrici
con lo Stato per strapparle all’influenza socialista e dei sindacati,
dall’altro non era assolutamente disposto a garantire agli operai la protezione
dello Stato contro l’arbitrio padronale. E ciò portava acqua al mulino dei marxisti
che concepivano il socialismo come contrapposizione globale, pur nella
dialettica del processo storico, e non come semplice correzione. Essi
ritenevano insuperabile nell’ambito del capitalismo la contraddizione
fondamentale tra sviluppo delle forze produttive, il cui carattere sociale
tende sempre più ad accentuarsi, e l’ordinamento dei rapporti di produzione in
cui viceversa domina l’appropriazione privata della ricchezza. That is the question.
*
Engels
morì nel 1895, e già l’anno seguente Bernstein manifestò apertamente i propri
dubbi in relazione al marxismo e al superamento del capitalismo. A Londra
viveva in una posizione isolata e sempre più si convinceva che la storia non
stesse seguendo quello che egli credeva il sentiero tracciato da Marx.
Dal
1896 al 1898 egli stampò una serie di articoli nella Neue Zeit sui Problemi del socialismo, inviò poi un
suo discorso al congresso del partito tedesco a Stoccarda. Sviluppò poi questi
temi in un volume pubblicato nel 1899 dal titolo Die Voraussetzungen des Sozialismus (I presupposti del socialismo).
Questo libro rappresentò la prima messa a punto teorica del revisionismo
socialdemocratico, e fu certamente molto più letto di quanto lo siano mai stati
gli scritti di Marx. Non solo l’intellighenzia riformista del partito accolse
con favore il libro, ma tra le fila della borghesia si levarono (occorre
dirlo?) gridolini di giubilo.
Bernstein
esprimeva un orientamento antimaterialistico, tanto che senza tener conto dei
suoi rapporti con il movimento filosofico neo-kantiano la sua svolta risulterebbe
incomprensibile. Comincia a mettere in dubbio il ruolo giocato dai rapporti
economici nella formazione sia dei rapporti politici e giuridici, e sia dalla
coscienza sociale: “Se regna la
necessità, a che serve l’azione?”. Ecco dunque che il socialismo deve
attenersi piuttosto a un criterio d’ordine morale; le nozioni etiche di
giustizia e di uguaglianza possono ispirare l’azione creativa. Tanto creativa
che Bernstein arriva ad appoggiare il colonialismo perché ciò favorisce
l’espansione del capitalismo.
Respingeva
l’analisi marxiana, giungendo a scrivere che «Ciò che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, essi l'hanno prodotto
non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa». In nome
dell’economia marginalista, che Bernstein conosce attraverso i lavori di Jevons
e di Böhm-Bawerk, dirige il suo attacco contro i fondamenti teorici stessi
della critica marxiana dell’economia politica, e del plusvalore che ne risulta.
Le
obiezioni che Bernstein muove contro Marx non sono tuttavia d’ordine scientifico
ma prendono spunto dal raffronto concreto tra la realtà del capitalismo così
come si andava sviluppando e ciò che egli riteneva essere la teoria
“catastrofica” di Marx, secondo il quale il crollo del capitalismo si situa al
termine di un processo ineluttabile. Vi erano altresì prove palesi che il
capitalismo era ben lontano dal crollo, e che invece il sistema si stava
innegabilmente sviluppando in modo forte e aggressivo.
La
borghesia non stava scomparendo, il numero di persone abbienti era in aumento e
non in diminuzione, il capitale non si concentrava in poche mani, la classe
lavoratrice non stava subendo un depauperamento progressivo. Anzi, specie nei
paesi a capitalismo più avanzato si stava formando in seno al proletariato un
ceto operaio “aristocratico”.
Padroni
e servi ci sarebbero stati sempre, ma un’era di prosperità si stava
affacciando, una vita senza fame e dove uomini, donne, nonni e bambini non
sarebbero più vissuti ammassati insieme, mangiando, dormendo, fornicando,
ammalandosi e crepando in miserabili casamenti senza vetri alle finestre e con
i tetti che lasciavano filtrare la pioggia. Non scriveva esattamente queste
parole ma il senso era quello.
Si
trattava dunque di una realtà che contraddiceva le previsioni di Marx, o almeno
quelle che Bernstein considerava tali (4). Insisteva dunque sul
fatto che più si diffondeva il denaro e un relativo benessere tra la classe
operaia, meno facile era che ogni singola crisi economica sfociasse in una
rivoluzione. Se i socialisti aspettavano questo, disse, avrebbero atteso
all’infinito.
Quella
di Bernstein, come detto, non era una posizione isolata, tutt’altro. Sull’onda
dei successi conseguiti sul terreno pratico e in vista di successi maggiori, la
prospettiva socialista diventava sempre più qualcosa di mitico e la
socialdemocrazia un partito democratico-borghese che puntava al socialismo non
attraverso la crisi economica, sociale e politica, bensì estendendo
progressivamente il controllo sociale e attuando gradualmente il principio
della cooperazione.
*
La
risposta più efficace Bernstein l’ebbe dalla storia, come del resto la stiamo
avendo anche noi oggi, accecati da un benessere che si fa sempre più rarefatto
e diseguale. È in nome di questo tipo di sviluppo che è stato rotto ogni
equilibrio con la natura, condotto l’esaurimento delle risorse minerali,
vegetali e animali, alterati i rapporti umani. Nel suo modo d’essere l’accumulazione
della ricchezza si disinteressa del progresso sociale laddove il profitto non
vi trovi il suo tornaconto.
Bernstein
non vedeva come il saccheggio delle risorse e l’arricchimento della classe
dominante migliorasse solo incidentalmente le condizioni di vita delle classi
sfruttate, e come la crisi riproponesse il vecchio tema del ritorno diffuso
della povertà e dell’insicurezza. Aveva dichiarato che difficilmente vi
sarebbero state ancora delle crisi economiche generali, grazie allo sviluppo
del sistema creditizio e di quello delle comunicazioni (lo venisse a raccontare
oggi!), e viceversa nuove crisi arrivarono già agli inizi del Novecento, per
non dire poi della sconvolgente crisi economica del 1929 che aprì le porte al
nazismo e agli orrori del secondo conflitto interimperialista (che B. non vide
essendo deceduto del 1932). Conflitto che seguiva a vent’anni di distanza la prima
carneficina su scala industriale che aveva cancellato dall’Europa un’intera
generazione.
Ciò
che poté constatare fu un’altra smentita alle sue previsioni, ossia che i
sindacati avrebbero gradualmente espropriato i profitti a favore dei salari, e
altre amenità del genere che furono brillantemente sottoposte a una critica
serrata da Rosa Luxemburg, in particolare in una recensione al libro di
Bernstein, dal titolo Riforma sociale o
rivoluzione? In buona sostanza, come rileva Rosa Luxemburg, Bernstein ha
messo in discussione “il corso stesso
dello sviluppo della società capitalistica e conseguentemente il passaggio
all’ordinamento socialista” (5).
Oggi
di questi temi non ci si occupa nemmeno più, lo stesso termine “socialismo”,
per non dire del “comunismo”, è percepito come desueto e anacronistico,
superato dal corso degli eventi e messo in totale discredito.
Il
privilegio edonistico, un tempo riservato solo a una classe sociale, si è
democratizzato, con la più grande soddisfazione sia degli schiavi che dei
padroni, i quali recuperano nell’incasso delle vendite infinitamente molto più
di ciò che sborsano in salari. In ciò gli opportunisti del riformismo borghese
vedono il trionfo delle loro tesi e il successo della loro politica.
È
stato l’emergere del mercato di consumo a garantire al capitale un nuovo ciclo pluridecennale dell'accumulazione, ma
le stesse leggi che hanno prodotto tale slancio ci confermano ogni giorno di
più che nulla è per sempre, nella crisi generale del modo di produzione
capitalistico esse mostrano il carattere dialettico dei processi ininterrotti del divenire e del transitorio, la caducità di tutte le cose.
Nello
stadio del dominio reale del capitale, la logica di sviluppo (condizione,
forme, settore di applicazione) delle macchine e così come dell’applicazione tecnologica
della scienza è tutta interna al
processo di valorizzazione. Essa risponde alla duplice esigenza di
ridurre incessantemente il tempo di lavoro necessario, e di assumere il
controllo sui lavoratori. L’aumento della forza produttiva del lavoro e la
riduzione del lavoro necessario ad un minimo è la tendenza necessaria del capitale.
Tale
tendenza necessaria implica sconvolgimenti epocali sotto ogni aspetto della materia sociale.
*
La
questione del capitalismo e del socialismo per Marx ed Engels non si poneva nei
termini proposti da Bernstein e dai revisionisti. Sarebbe oltretutto ingenuo
considerare che Marx ed Engels, ad esempio, non si rendessero conto del fatto
che “man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe
operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi
naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione”, e avevano altresì ben
chiaro il costituirsi di un ceto operaio “aristocratico”, e già Engels nel
lontano 1852, in una lettera a Marx, parlava degli «operai perfettamente
imborghesiti per la momentanea prosperity».
Scrive,
tra l’altro, Marx nel cap. 23 del suo librone che: “tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono al tempo stesso
metodi dell’accumulazione e ogni estensione dell’accumulazione diventa,
viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi. Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula,
la situazione dell’operaio, qualunque
sia la sua retribuzione, alta o
bassa, deve peggiorare”.
Per
quanto astratta, tale formulazione esprime una legge, per comprendere la quale
è necessario sapere di che cosa si sta parlando e dunque è necessario un
approccio scientifico e dialettico alle questioni, e però ciò che manca con
ogni evidenza nella critica dei revisionisti al marxismo è proprio il nesso
vivo, dialettico, esistente tra teoria e prassi.
Su
un punto il revisionismo riformista aveva ragione, e cioè questo:
Una formazione sociale non perisce
finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso,
nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano
maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro
esistenza.
Solo
che queste parole non sono di Bernstein, bensì di Karl Marx (6). E
dunque anche secondo Marx si sarebbe dovuto attendere il maturare di tali
condizioni materiali per nuovi e superiori rapporti sociali. Si tratta di
attendere il giorno fatidico in cui suoneranno le campane a morto e sarà
annunciata la fine del capitalismo? Marx prosegue:
Ecco perché l'umanità non si propone se
non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso,
si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della
sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.
Che
le condizioni materiali per la soluzione del problema esistessero già o
quantomeno fossero in formazione è confermato dal fatto che sia sul piano teorico
che su quello fattuale quel problema l’umanità se l’è posto per tempo e anzi ha
tentato anche di risolverlo sul piano concreto della realtà storica. Il
tentativo non si produsse però nei paesi a capitalismo avanzato, bensì in
quelli più arretrati e semifeudali, dunque in singole realtà isolate e in condizioni
oggettivamente impossibili.
Ciò
che ci sta davanti è invece una situazione storica assai diversa e in via di trasformazione
sul piano economico, di mutamento sul piano sociale e dei rapporti
internazionali. Il capitalismo, a causa del suo sviluppo non meno che delle sue contraddizioni, sta
diventando qualcosa d’altro, lo dicono le latenze che in esso stanno maturando.
In simili circostanze è sempre in agguato il pericolo della guerra:
“Il mezzo con il quale l’imperialismo
ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è
stato la guerra. Infatti, la guerra permette innanzitutto alle potenze
imperialistiche vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di
quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali,
merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un
periodo di tempo abbastanza lungo” (7).
Il
processo della terza guerra mondiale è già molto avanti, e di ciò ormai sono in
molti a esserne consapevoli. Il precipitare della crisi potrà accelerare tale
dinamica in qualunque momento. La collaborazione di classe e il mantenimento
dell’ordine all’interno costituiscono, ancora una volta, la condizione
essenziale per la guerra.
(1)
Nella corrispondenza di Engels di quel periodo è molto frequente imbattersi in
termini come “bestie”, “asini”, “canaglie”, “somari”, e poi “confusione”,
“stupidaggini”, e frasi come queste: “socialisti solo pro forma”, “smidollati
dell’ala destra” del partito (lettera del 12 giugno 1883), oppure “noi non ci
siamo mai illusi di questa gente” (10 maggio dello stesso anno).
(2)
La lettera in cui Engels definisce Bernstein come un “filisteo” è diretta a
J.P. Becker, ed è del 1° aprile 1880. In una lettera successiva, del 2 febbraio
1881, diretta a Bernstein, Engels scrive: «I 5 numeri del Sozialdemokrat pubblicati dall’inizio dell’anno testimoniano un
significativo progresso. Sono scomparsi i toni melanconici e disperati degli
“sconfitti”, la complementare ampollosità piccolo borghese, la retorica
rivoluzionaria alla Most continuamente alternata alla docilità filistea […]».
Più
interessante, sia dal punto di vista teorico che della ricostruzione storica,
la lettera, sempre allo stesso Bernstein, del 12 marzo 1881, laddove E. scrive:
«Per
il resto, il giornale si mantiene in generale buono, alcuni numeri sono
decisamente molto buoni, anche se non nocerebbe diminuire gli articoli
dottrinari come quello sul socialismo di Stato. Come si fa a mettere nello
stesso calderone Turgot, uno dei principali economisti del XVIII secolo, e Necker,
uomo eminentemente pratico della haute
finance, precursore di Laffitte e dei Péreire, e addirittura il miserabile
Calonne, l’uomo degli espedienti alla giornata, un autentico aristocratico: après moi le déluge? Come si fa a
metterli insieme, specialmente Turgot e lo stesso Neker, con un Bismarck che,
al massimo, vuole à la Calonne il
denaro a ogni costo, e poi ancora lo stesso Bismarck con Stoecker e, dall’altra
parte, con [Albert] Schäffle & Co., ognuno dei quali segue orientamenti del
tutto diversi? Se la borghesia ne fa d’ogni erba un fascio, non è un buon motivo
perché noi procediamo in modo altrettanto acritico. Le radici del dottrinarismo
stanno proprio qui: si crede alle affermazioni interessate
e limitate dell’avversario e poi su queste affermazioni si costruisce un
sistema che naturalmente sta in piedi o cade insieme ad esse.
[…]
È una mera falsificazione interessata – prosegue Engels nella sua lettera – da
parte della borgheia di Manchester definire come “socialismo le intromissioni
dello Stato nella libera concorrenza; dazi protettivi, corporazioni, monopoli
del tabacco, statalizzazione di rami dell’industria, commercio marittimo, regia
manifattura di porcellane". Noi dobbiamo criticare tutto questo, non crederci.
Se ci crediamo e ci costruiamo sopra una teoria, quest’ultima crollerà insieme
alle sue premesse, ossia, molto semplicemente, quando si dimostrerà che questo
presunto socialismo non è altro che una reazione feudale da un lato e,
dall’altro, un pretesto per spremere denaro, con il secondo fine di trasformare
il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dello
Stato e di organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di
militari, anche un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio
imposto dai superiori statali invece che dei sorveglianti di fabbrica … bel
socialismo! Ma a questo si arriva prestando fede ai borghesi, credendo a ciò
che essi stessi non credono ma danno solo a intendere: Stato = socialismo.»
L’articolo
cui si riferisce E. non era stato scritto da B. ma da Katusky, tuttavia tale
articolo è indicativo del clima e della confusione teorica dell’ambiente e vale
a comprendere quali fossero già le tendenze teoriche revisioniste in atto.
(3)
Jacques Droz, St. del socialismo,
Editori Riuniti, 1974, 2, pp. 30-31.
(4)
Sul modo in cui Bernstein rendeva il pensiero di Marx, credo sia indicativo
quanto ebbe a rimarcargli lo stesso Engels, pur con tutte le cautele e la cortesia
che il caso richiedeva. A Bernstein fu affidato l’incarico della traduzione dal
francese al tedesco de La Miseria della
filosofia, in tale occasione Engels gli scrisse: “Spero che lei non si sia
irritato troppo per i molti cambiamenti che ho fatto al Suo manoscritto [della
traduzione del pamphlet di Marx]. Come ho già detto a Kautsky, noi non siamo in
grado di imitare lo stile di Marx, ma il nostro stile deve tuttavia essere tale
da non arrivare a contraddirlo [!!]. Tenga un po’ presente questo e faremo già
un lavoro passabile” (lettera del 1° gennaio 1884).
(5)
R. Luxemburg, Scritti politici,
Editori Riuniti, 1967, p. 147.
(6)
Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica,
Marx scrive: «A un dato punto del loro
sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che
ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per
l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze
produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di
rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o
meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili
sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento
materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere
constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche,
politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che
permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non
si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può
giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se
stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della
vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della
società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché
non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate
in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco
perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché,
a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo
quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono
in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e
borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso
della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese
sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica
non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga
dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si
sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni
materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale
si chiude dunque la preistoria della società umana.»
(7) Risoluzione della Direzione Strategica
delle Brigate Rosse, febbraio 1978.
Altri post di questo eccelso livello e, insieme a molti dei precedenti, ci si può fare benissimo un libro.
RispondiEliminaCaro Mauro, ti ringrazio per la stima tuttavia non di altri libri abbiamo bisogno ma di lettori che vogliono pensare con la propria testa. ciao
EliminaÈ da tanto che aspettavo un suo post sul tema, spero proseguirà questo excursus sul revisionismo. ne approfitto per ringraziarla con sentita gratitudine, leggere pressoché quotidianamente le sue parole è un esercizio irrinunciabile, il cervello e il cuore vi si abbeverano come alla fonte più pura. Saluti a pugno chiuso
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