Credo
che non si possa non tenere in considerazione Henry Kissinger come uomo di
cultura, storico della diplomazia e saggista. Nei suoi libri mostra una grande
padronanza degli argomenti trattati, un’acuta capacità d’analisi e di sintesi
che si accompagnano a uno stile letterario molto efficace che si caratterizza,
per esempio, nell’uso non convenzionale e consapevole della tautologia: «La
guerriglia vince se non perde; un esercito convenzionale perde se non vince»;
«Uno dei principi fondamentali della guerriglia è che per vincere basta non
perdere; un esercito regolare, invece, per non perdere deve vincere».
È
in questi giorni nelle librerie italiane l’ultima sua fatica: Ordine Mondiale. Inizia con una
perorazione ideologica per mascherare una mistificazione. Egli sostiene, a
ragione, che gli Stati Uniti nel dopoguerra si sono adeguati a promuovere tra
le nazioni un “ordine cooperativo in inarrestabile espansione” in osservanza di
“regole e norme comuni, che abbracciano sistemi economici liberali, che
rinunciano a conquiste territoriali, che rispettano la sovranità nazionale e
adottano sistemi di governo partecipativi e democratici”.
Ebbene, grazie, verrebbe da dire, dopo aver fatto i comodi loro in lungo e in largo, gli Stati Uniti hanno adottato quei principi, peraltro ampiamente derogati. Non prima d’allora. Gli Stati Uniti non avevano più alcun bisogno di acquisizioni territoriali dopo il secondo conflitto per esprimere la propria egemonia in Europa, nel Pacifico e altrove. Per quanto riguarda l’America latina essi, ben prima del 1898, avevano elaborato la propria dottrina con John Quincy Adams ed enunciata da James Monroe.
La
scelta dell’espansione mondiale l’avevano fatta negli anni Settanta del XIX
secolo spinti dagli agrari che non si accontentavano più di “reggere la coda
dell’aquilone britannico” e dichiaravano di “giocare un’unica carta e
respingere le eccedenze delle altre nazioni […] così questo paese [può]
assumere l’egemonia mondiale in campo commerciale e finanziario”. Ecco dunque
come si manifesta e sviluppa la mentalità liberista ed espansionista:
respingere le eccedenze degli altri e favorire le proprie.
In
radice il problema era quello fronteggiare le crisi periodiche di
sovrapproduzione che spingevano gli agrari alla protesta. Per sconfiggere
questo movimento protestatario e per risolvere la moltitudine di problemi
sociali ed economici generati dalla rapida oscillazione del ciclo economico, quindi
unire una nazione divisa e con una popolazione che nel decennio 1880-1890 era
aumentata del 50%, non restava altra strada che favorire in ogni modo
un’economia improntata decisamente all’eccedenza.
Per
mantenere la pace sociale interna, per favorire la prosperità e i profitti,
dunque per conservare il sistema politico esistente, era vitale l’espansione
nei mercati esteri, sostenuta da un’adeguata politica imperiale. Questa visione
espansionista aprì un dibattito sui temi della potenza marittima, e cioè sulla
necessità di rivitalizzare la marina mercantile e incrementare la potenza della
flotta militare. Per ottenere questa supremazia sui mari era necessario
acquisire territori e porti strategici per stanziarvi le flotte, per i
rifornimenti, per controllare le rotte. Ciò che si presenta dapprima come necessità,
in seguito trova degli ideologi che scovano la teoria adatta agli interessi
perseguiti.
Trattandosi
di supremazia sui mari era abbastanza scontato che l’ideologo dovesse provenire
dai ranghi della marina militare. Alfred Thayer Mahan era un ufficiale
tranquillo e riservato, si era addossato il compito di dare agli Stati Uniti
una “voce che parlasse costantemente dei nostri interessi esterni”. Gli agrari,
i trafficanti e i banchieri americani, ama anche gli imperialisti di ogni
paese, trovarono nel capitano di vascello Mahan il loro profeta. Sull’Atlantic Monthly scrisse: “Vogliano o
non vogliano, ora gli americani devono cominciare a guardarsi intorno”.
E
si cominciò subito con le Hawaii, con un articolo di Mahn intitolato in un modo
che più eloquente di così non si poteva: “Le Hawaii e il nostro futuro potere
marittimo”. In esso dichiarava che il dominio dei mari era la base principale
della potenza e della prosperità delle nazioni. Mahn pretendeva, e gli venne
riconosciuto, di aver scoperto l’importanza del potere marittimo, di modo che
chiunque sia padrone dei mari è arbitro della situazione. Forse, da ultimi, gli
inglesi non si erano avveduti di tale straordinaria importanza della loro
flotta.
Senza
gli scrupoli e il pudore dei nostri giorni, l’imperialista americano scriveva:
“è urgente prendere possesso, quando si può farlo di diritto, di quelle
posizioni marittime che contribuiscono ad assicurare il predominio”. E laddove
il diritto ancora non sussista, si fabbrica. Le Hawaii, scriveva, “attirano
l’attenzione dello stratega”; esse “occupano una posizione di importanza
eccezionale […] e influenzano potentemente i commerci e il controllo militare
del Pacifico”. In un altro articolo dello stesso mese e sulla stessa rivista
prospettava la necessità impellente di scavare il Canale di Panama.
Già
tre anni prima, nel 1887, gli Stati Uniti avevano acquistato a Pearl Harbor una
base per il rifornimento di carbone delle navi. Il principale impulso per
l’annessione delle isole proveniva dagli interessi dei proprietari americani
laggiù, dunque dal trust dello zucchero. Il modo in cui gli Stati Uniti vennero
in possesso delle isole hawaiane può essere considerato un modello d’ingerenza
e conquista “democratica” di un territorio, in questo caso il Regno delle Hawaii.
Si
cominciò dall’evangelizzazione da parte dei soliti missionari, poi
dall’imposizione di una costituzione democratica (1887) scritta da avvocati e uomini
d'affari bianchi, con tanto di diritto di voto per censo, che fu firmata dal
monarca hawaiano sotto minaccia (“Bayonet Constitution”). Quando la regina
prospettò nel 1893 di adottare una nuova costituzione, con l’appoggio della
Marina degli Usa i proprietari terrieri americani macchinarono una rivolta
contro il legittimo governo indigeno hawaiano nel 1893. La monarchia fu
rovesciata e al suo posto venne insediato il giudice Sanford B. Dole quale
presidente. Subito negoziò un trattato di annessione che poi il presidente
Harrison si affrettò a mandare al Senato per la ratifica.
A
complicare la situazione dell’annessione vennero le solite beghe politiche di
Washington: il presidente Harrison chiese al Senato la procedura d’urgenza per
la ratifica e cioè prima che scadesse il suo mandato il 4 marzo 1893. Gli
doveva subentrare il nuovo presidente eletto, Grover Cleveland, che dopo una
settimana di presidenza revocò dal senato il progetto di annessione delle
Hawaii, con grande preoccupazione, tra gli altri, di un certo Roosevelt. Cleveland
fece di più, diede incarico al comitato per le relazioni estere di indagare sul
colpo di stato avvenuto alle Hawaii con lo sbarco dei marines.
Il
Rapporto Blount mise in luce quanto era accaduto, e dichiarò illegale lo sbarco
dei marines e ciò che ne era seguito. A sistemare le cose provvide la relazione
Morgan che rovesciava le risultanze del Rapporto Blount. La relazione prende il
nome da John Tyler Morgan, già ufficiale confederato, poi senatore dell’Alabama,
nonché un Grand Dragon del Ku Klux Klan, dunque ovviamente fautore della supremazia
bianca e segregazionista, patrocinatore di leggi per l’introduzione del
linciaggio legale (!) e la migrazione dei neri fuori degli Stati Uniti, sostenitore
dell’espansionismo americano e dell’annessione delle Hawaii. Con un simile
curriculum quale poteva essere il risultato raggiunto dalla sua inchiesta?
A
Grover Cleveland successe alla presidenza William McKinley, amico degli anessionisti bianchi hawaiani. Dopo una trattativa, nel giugno del 1897, il Segretario di Stato
John Sherman concludeva con gli esponenti americani della Repubblica delle
Hawaii, nata a seguito del colpo di Stato, un trattato di annessione nonostante
l’opposizione dei nativi hawaiani. Anche così le Hawaii restavano di fatto una
colonia degli Stati Uniti, e del resto facevano parte della lista di paesi colonizzati presso l’ONU, perciò nel 1959 si decise di farne il 50° stato dell’unione.
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