giovedì 14 novembre 2013

Della schiavitù


Nel post precedente ho scritto di come lo sviluppo delle attività commerciali rappresenti il presupposto essenziale che accompagna le grandi trasformazioni dei modi di produzione, ma di per sé non è la causa di tali cambiamenti. Tanto è vero, dicevo esemplificando, che lo sviluppo straordinario del commercio nella Roma antica non ha avuto effetti significativi sulla struttura produttiva dominante improntata allo schiavismo. Del resto, detto en passant, la differenza tra lo sfruttamento del lavoro schiavistico, servile o di quello salariato, riguarda essenzialmente le forme, ossia l’aspetto giuridico, dello sfruttamento stesso, e su di esse il commercio ha solo un rilievo indiretto.

Ciò vale a dire che i grandi cambiamenti epocali, il passaggio da un modo di produzione ad un altro, oltre che dallo sviluppo del capitale commerciale, sono determinati ancora da altre circostanze. La nascita della stessa schiavitù come forma dominante dello sfruttamento del lavoro ha a che fare sia con la trasformazione della struttura produttiva e sia con lo sviluppo del commercio, non ultimo quello degli schiavi stessi (mutate le forme, è quello che succede anche nella modernità con la legislazione del lavoro, ossia con la formalizzazione contrattuale dei rapporti di sfruttamento e tutto ciò che gli corre dietro!).



Anche volendo considerare il commercio nell’epoca della grande espansione europea dei secoli XV - XVII, la creazione di un nuovo mercato mondiale ha esercitato un'influenza decisiva sulla rovina dell’antico modo di produzione che chiamiamo feudale e sullo slancio del modo capitalistico, e tuttavia ciò accadeva perché il modo capitalistico di produzione esisteva già. Scrivevo a tale riguardo in questo post del mese scorso:

il clero, soprattutto i grandi dignitari della Chiesa, trovano nei prodotti delle manifatture e delle arti che si andavano sviluppando qualcosa con cui poter scambiare i loro redditi, ossia trovarono il modo di spendere il surplus a favore del proprio agio personale assecondando i più diversi gusti e temperamenti. La loro carità divenne meno ampia e gradualmente fu privata delle risorse di un tempo. Per lo stesso motivo la nobiltà trovò opportuno e piacevole investire il proprio surplus in prodotti di lusso e altre merci, di modo che la sua ospitalità fu meno pletorica e meno liberale. Ciò peraltro favorì la divisione del lavoro e l’occupazione nei rami della manifattura e del commercio, ma non abbastanza da assorbire le fila di poveri e di marginali.

Dunque il rapporto tra struttura produttiva e sovrastruttura, tra modificazioni della sfera produttiva e di quella commerciale, è di tipo dialettico. Lo sviluppo della civiltà urbana, la separazione delle attività industriali urbane da quelle agricole, favorisce la produzione delle merci, ossia un tipo di produzione non destinata immediatamente al consumo, la cui vendita richiede la mediazione del commercio. In altre parole, la dipendenza del commercio dallo sviluppo delle città e d’altro lato la dipendenza di queste ultime dal commercio sono evidenti. Sempre nello stesso post rilevavo:

È naturale che il clero e la nobiltà desiderassero migliorare le rendite dalle loro proprietà. Non avevano più bisogno, se non entro certi limiti, di prodotti naturali, ma avevano bisogno di denaro o di merci scambiabili prontamente sul mercato. Il denaro era diventato il potere dei poteri. Gli incrementi di rendita si potevano ottenere anzitutto concedendo in affitto i terreni a dei conduttori, i quali diventavano in tal modo indipendenti dal clero e anche i legami di tipo assistenziale venivano in tal modo ad allentarsi, tanto più quanto aumentava il disgusto per la vanità e il lusso di cui davano mostra le gerarchie ecclesiastiche. D’altro lato, lo scioglimento dei seguiti feudali che «dappertutto riempivano inutilmente casa e castello», gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari.

La creazione di una manodopera formalmente libera fu essenziale per sviluppare un modo di produzione che fino ad allora non aveva avuto carattere generale. Ciò dimostra che il modo di produzione moderno si sviluppa unicamente là dove le condizioni necessarie per la sua applicazione si erano venute creando nel Medioevo. Del resto e come detto, dal lato del commercio il mercato mondiale costituisce esso stesso la base di questo modo di produzione.

Noi vediamo oggi come il mercato mondiale abbia raggiunto, dominandoli, gli angoli più remoti del pianeta e come la produzione capitalistica e i suoi scambi abbiano dissolto gli antichi mestieri e i relativi rapporti sociali. Questi fenomeni globali agiscono e s’accompagnano ad una trasformazione radicale dei rapporti sociali e dei rapporti tra i popoli, mettendo soprattutto in mostra come la grande industria e la sussunzione della scienza a essa hanno creato una situazione nella quale la quantità di lavoro erogato nella produzione non è più la fonte principale per la creazione di ricchezza della società.


Dunque, non ciò che ci aspetta, ma ciò che è già in atto è una rivoluzione inedita dei rapporti sociali esistenti, di totale rottura con i vecchi schemi ideologici. Da questo punto di vista appare ancora più puerile e falso l’appello di coloro che richiamano gli schiavi salariati a una maggiore compatibilità!

11 commenti:

  1. Ho un quesito, peraltro per nulla nuovo come Olympe sa bene.

    Il culto del lavoro, l'etica del lavoro, è parte integrante del modo di produzione e di pensiero capitalistici così come del patrimonio ideale della sinistra. Anche a sinistra il lavoro nobilita l'uomo e il tipo sociale comunemente noto come "scansafatiche" (per indole o per scelta) è esecrato.

    La domanda è: poiché il lavoro, così come è concepito e praticato nell'attuale (e ormai da molto tempo) sistema socioeconomico, è null'altro che la materializzazione a fini di profitto dello sfruttamento degli esseri umani e della loro riduzione in schiavitù, rifiutarsi per quanto possibile di aderire senza riserve a questo concetto storicamente determinato di lavoro, boicottare il lavoro capitalistico dall'interno, sabotarlo - sì, anche scansando quante più fatiche possibili - non sarebbe, oggi, un'idea più "rivoluzionaria" che non il lavorismo interclassista che fa tanto union sacrée e piace tanto ai padroni?

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    1. a lato, nel blog, c'è 'sta roba qua:

      Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (Il Capitale, I, VII, 3).


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    2. Per esperienza diretta, aggiungerei una piccola osservazione decisamente più terra-terra: molto spesso il lavoratore medio, in un sistema dove vi è sempre "l'illusione" di poter "crescere", fare carriera, passare "dall'altra parte", perde completamente di vista la sua coscienza di classe (sempre che ne abbia mai avuta una). E' l'idea di poter saltare sul carro dei vincitori che crea gli aziendalisti, i carrieristi, gli etici del lavoro...

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  2. Dunque una rivoluzione dei modi di produzione della ricchezza richiede necessariamente una revisione della dialettica città-campagna (un "ritorno" a una società più rurale)? Confesso che è su questo punto che mi trovo più in difficoltà verso i miei compagni "decrescenti", perché mi sembra antistorico.

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    1. perché antistorico il superamento del dualismo? la sua osservazione merita una riflessione sotto molti altri aspetti. marx non parlava di un ritorno a una società più rurale. in questo non vado per nulla d'accordo con i "decrescenti" (anzi, non mi trovo d'accordo su nulla).

      scriveva marx che perché scompaia la
      “subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale" e perché il lavoro non divenuti soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita …” è necessario “un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa ‘priva di proprietà’ contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali"

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    2. Io non sono riuscito a mettere in relazione (e credo anche Pietro) lo scritto di Marx (critica al programma di Gotha) con la domanda di Pietro. Dovrebbe addurre degli esempi, dirla con parole sue cioè.
      Cordialità.

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    3. vedrò di farci un post, in due righe in risposta a un commento è difficile dire qualcosa di sensato, però a Pietro o chiesto perché lo considera antistorico (e lo è), nel senso di chiarire per quale motivo una rivoluzione così radicale non dovrebbe porre le premesse per il superamento di tale dualismo, quali ostacoli si sovrapporrebbero dal momento che anche la divisione sociale del lavoro e il concetto stesso di lavoro e di produzione cambierebbe radicalmente?

      la prossima volta, per cortesia, usi un nick. grazie

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    4. Antistorico dicevo il ritorno alla società rurale non la revisione e il superamento della divisione città/campagna, mi scuso per l'equivoco. Mi era sembrato, sbagliandomi evidentemente, che nel post ci fosse un'eco, come dire, maoista :). Le mie difficoltà nascono dal fatto che le obiezioni dei "decrescenti", in sostanza una società con meno pretese è una società più giusta ed equilibrata, sono sensate ma non risolutive. La questione non è come redistribuire la ricchezza (cosa buona e giusta per carità), ma come eliminare la divisione in classi della società (su questo meglio di me Evangelisti su Carmillaonline , sulle sue considerazioni sul capitale variabile ci sto ancora rimuginando). La relazione tra quanto scrive Marx e l'estinzione del dualismo mi pare chiara: detto dualismo è proprio di economie con un raggio limitato, ma già la campagna della Londra industriale del XIX secolo arrivava fino ai campi di cotone dell'Egitto e dell'India. Ma la stessa condizione di colonia poneva le premesse dell'indipendenza indiana, perché costringeva gli indiani a chiedersi chi siamo? ora sappiamo di essere gli indiani, e siamo liberi? no, la ricchezza che produciamo ci viene sottratta dai colonizzatori, dobbiamo liberarcene. Così la globalizzazione capitalista pone le premesse (che non necessariamente si tradurranno in conseguenze senza la volontà e l'azione) della presa di coscienza del proletariato e della sua liberazione. È quindi proprio l'indispensabilità del nuovo modo di produzione ai fini della realizzazione di una società senza classi a rendere non auspicabile un ritorno all'antico seppure in nuove forme.

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    5. grazie Pietro. sto scrivendo qualcosina proprio su questo e proprio sul superamento della divisione città/campagna. così infatti avevo inteso il suo commento. ma cercherò, con le mie modestissime forze di andare oltre. cercando d'impostare il problema scientificamente (chiedo scusa per l'intento che denota presunzione nell'infimo blogger). E poi anche sul resto cercherò di dire la mia.
      Naturalmente so bene chi è lei, Pietro, e dunque so che sto parlando con una persona non comune. e ciò mi stimola a migliorarmi. spero di essere se non all'altezza del compito almeno non troppo al di sotto.

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    6. Oh, di sicuro mi confonde con qualcun altro! Sono un Pietro qualunque, davvero.

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