Nel 1059 furono cambiati i criteri dell'elezione del vescovo di Roma. Il Manifesto di ieri offre due pagine dedicate a un avvenimento significativo e poco noto della nostra storia. Acquistate il Manifesto, spesso è molto più interessante, ad esempio, de Il Foglio.
di Giacomo Todeschini
Il 13 aprile dell'anno 1059, un vescovo di Roma eletto da pochi mesi, e che ancora nessuno considerava «il papa», Niccolò II al secolo Gerard de Bourgogne, vescovo di Firenze, convocò a Roma in San Giovanni in Laterano una riunione sinodale durante la quale si stabilì una volta per tutte che soltanto i cardinali riuniti in conclave potevano eleggere il vescovo di Roma, e che costui sarebbe stato il Pontefice massimo di tutta la Cristianità. La decisione di questa élite consacrata prese corpo e fu diffusa per mezzo di una bolla di Niccolò II, la In nomine Domini.
Questa solenne decisione diede inizio al processo di definitiva separazione della Chiesa dal mondo dei poteri sovrani laici europei. A partire dal 1059 l'arcipelago europeo delle chiese comincia a diventare la «Chiesa» e ad avere un suo centro indiscutibile a Roma, nella persona del Papa.
Una figura ambigua
Il periodo storico durante il quale avviene questo mutamento, che ha poi, nel tempo, prodotto un effetto valanga di enormi proporzioni, è politicamente alquanto problematico. Il potere del vescovo di Roma era stato per secoli un potere fragilissimo, molto meno significativo di quello degli imperatori romani insediati a Costantinopoli e anche di quello che gli imperatori romani d'Occidente, da Carlo Magno a Ottone III, avevano rivendicato e parzialmente conseguito. Le chiese occidentali e orientali avevano inteso il ruolo del successore di Pietro a Roma nei termini politici di un primato condiviso con quello che i patriarchi e i vescovi, dall'Europa ai territori bizantini, esercitavano in ogni caso riconoscendo la supremazia degli imperatori seduti sul trono che era stato di Costantino.
Fra Roma e l'area franco-germanica degli imperatori d'Occidente l'equilibrio era, soprattutto, stato delicatissimo almeno da quando, nel nono secolo, i sovrani della dinastia carolingia avevano cominciato a esercitare sul vescovo di Roma un potere fatto in parti uguali di protezione, difesa e controllo. Quando nel decimo secolo il titolo imperiale era passato alla dinastia germanica degli Ottoni, la relazione fra casa imperiale ed episcopato romano si era fatta ancora più stretta.
La faccenda era complicata dal fatto che l'elezione del vescovo romano, ambigua figura da un lato legata a un territorio ben preciso, ma dall'altro simbolico rappresentante dell'universale carisma di Pietro, era decisamente ambita dalle famiglie nobili romane che, spesso, riuscivano a insediare sul trono episcopale un membro dei loro clan.
Il partito dei riformatori
Anche l'elezione di Niccolò II era avvenuta in questo clima conflittuale. Era stata nella sostanza il frutto di un esplicito scontro tra due fazioni: l'una, capeggiata dai conti di Tuscolo, potente famiglia romana, e da una parte del clero romano, che aveva eletto un proprio candidato, Giovanni dei Conti di Tuscolo, con il nome di Benedetto X, l'altra appoggiata dall'imperatrice tedesca Agnese, figlia del duca di Aquitania e di Agnese di Borgogna, reggente in nome di suo figlio, il futuro imperatore Enrico IV, dal duca di Lorena e dal partito ecclesiastico «riformatore», ossia avverso al controllo delle famiglie romane sul Soglio di Pietro, che aveva invece eletto Niccolò II.
La battaglia fu combattuta nel giro di pochi mesi tra Siena, Firenze, Roma e il palazzo imperiale tedesco dove regnava la trentaquattrenne imperatrice Agnese (morirà nel 1077 da penitente reclusa in un monastero romano, avvenuta la sottomissione del figlio imperatore a papa Gregorio VII). L'elezione di un conte di Tuscolo a vescovo di Roma col nome di Benedetto X, nel 1058, fu infatti velocemente seguita dalla contro elezione di Niccolò II, in forza dei superlativi appoggi politici di cui il suo partito godeva.
Il prestigio costituito dall'appoggio di un'imperatrice di grande stirpe, e da quello del signore di Lorena, ebbero una risonanza e una convalida tutta speciale per il fatto di essere sostenuti dal gruppo di intellettuali monaci e vescovi, che, dal ravennate Pier Damiani al lorenese Umberto di Moyenmoutier (o di Silvacandida), formavano il gruppo dei «riformatori», ossia componevano il partito ecclesiastico franco-italiano intenzionato su basi canoniche e teologiche a distinguere il carisma apostolico da quello signorile, nella prospettiva di stabilire il primato del potere sacerdotale su quello signorile, regio o imperiale dei potentes laici.
Un'élite sarcerdotale
L'elezione di Niccolò II e la successiva deposizione e scomunica di Benedetto X furono dunque tanto l'effetto di una vittoria dell'alleanza fra sovrani di portata internazionale e intellettuali ecclesiastici fortemente impegnati in senso teorico e progettuale, quanto la premessa di un consolidamento del potere carismatico degli ecclesiastici riuniti intorno alla figura del vescovo romano, in se stesso già potenzialmente polemico nei confronti del legame che tradizionalmente univa l'episcopato romano alle famiglie degli imperatori e della grande nobiltà europea.
Il primo e più vistoso segno della tensione che i «riformatori» avrebbero instaurato fra Roma e i sovrani dell'Occidente si manifestò, in effetti, già pochi mesi dopo l'elezione e consacrazione di Niccolò II avvenuta il 24 gennaio del 1059. Nella bolla In nomine Domini, infatti, il neoletto pontefice decreta, sulla base di quanto avevano elaborato i teologi riformatori, che il vescovo di Roma, il papa, potrà ormai essere eletto soltanto dai vescovi cardinali, e con il voto aggiuntivo dei cardinali non vescovi, così che il «popolo» e il restante clero sia poi in grado di approvare questa scelta, senza che tuttavia questa facoltà possa significare un diritto di intromettervisi. L'elezione del pontefice riguarderà dunque esclusivamente una élite sacerdotale, quella cardinalizia, mentre il resto del clero e il popolo avranno in questa liturgia un ruolo secondario e passivo (religiosissimi viri praeduces sint in promovenda pontificis electione, reliqui autem sequaces.)
Al tempo stesso, il testo della bolla di Niccolò II precisa che è eleggibile soltanto chi appartenga all'ambito ecclesiastico romano o europeo, e che, quindi, ogni eletto che non sia stato a sua volta precedentemente consacrato legittimamente come sacerdote non potrà di conseguenza avere accesso alla carica di pontefice.
Questi aspetti del documento stabilivano, insomma, che i poteri sovrani laici non avevano più alcun diritto esplicito e formale di partecipare all'elezione dei pontefici e che, allo stesso tempo, nessun fedele di questi poteri poteva diventare pontefice se non fosse stato, prima, consacrato e riconosciuto dalla gerarchia ecclesiastica di obbedienza romana. La «reverenza» della Chiesa nei confronti dell'imperatore (il futuro Enrico IV) non implicava più un suo diritto automatico di scegliere chi doveva diventare vescovo di Roma, ma anzi sottolineava la dipendenza del suo potere da quello sacerdotale: il papa dovrà essere eletto «dal seno della chiesa di Roma, se è trovato degno, altrimenti lo si prenda da un'altra Chiesa. Salvo restando il debito onore e la reverenza verso il nostro diletto figlio Enrico che è ora chiamato re e che si spera sarà con l'aiuto di Dio il futuro imperatore, come gli abbiamo concesso, e verso i successori di lui che personalmente chiederanno questo privilegio a questa Sede Apostolica».
Dalla parte di Satana
In un successivo paragrafo, indirettamente, si cominciava di fatto ad affermare il principio della supremazia della chiesa di Roma sulle altre chiese, sottolineando nello stesso tempo che questa supremazia era anche l'origine della maggiore autorità e autorevolezza della Chiesa romana rispetto ai poteri sovrani laici. Questo doppio concetto, che si affermerà pienamente a partire dal pontificato di Gregorio VII, meno di vent'anni dopo, verso il 1075, viene qui espresso nella forma di una violentissima condanna di tutti coloro che non vogliano sottostare alle decisioni del sinodo lateranense del 1059. Costoro, resistendo al decreto di Niccolò II riguardo a una elezione definita «incorrotta, genuina e libera» perché riservata ai gradi più alti del clero, verranno a trovarsi dalla parte di Satana e fuori dalla Cristianità, intesa a questo punto come un Corpo sociale per appartenere al quale diventa decisivo riconoscersi nelle prese di posizione della Corte pontificia romana.
«Ma se qualcuno, contrariamente a questo nostro decreto promulgato in sinodo, verrà eletto o considerato o insediato in trono attraverso la rivolta, la temerarietà o qualunque altro mezzo, sia da tutti creduto e considerato non Papa ma Satana, non apostolo, ma apostata, e con perpetua scomunica per autorità divina e dei santi apostoli Pietro e Paolo, insieme con i suoi istigatori, partigiani e seguaci, venga scacciato e respinto dalle porte della santa Cristianità di Dio, come Anticristo, nemico e distruttore di tutta la Cristianità. E non gli si dia alcuna udienza riguardo a ciò ma in perpetuo sia privato della dignità ecclesiastica di qualunque grado essa sia stata. Con la stessa sentenza sia punito chiunque sarà dalla sua parte, o gli renderà qualsiasi omaggio come a un Pontefice, o presumerà di difenderlo. E chi temerariamente si opporrà a questo nostro decreto e nella sua presunzione tenterà di confondere e turbare la Chiesa Romana contro questo statuto, sia condannato a perpetuo anatema e scomunica e sia considerato tra gli empi che non risorgeranno nel Giudizio; senta contro di sé l'ira dell'Onnipotente, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e in questa vita e in quella futura sperimenti il furore dei santi apostoli Pietro e Paolo, la cui Chiesa egli presunse sconvolgere; la sua casa sia deserta e nessuno abiti nelle sue tende (Salmo 69, 26); i suoi Figli siano orfani e sua moglie vedova; venga scacciato nello spavento lui e i suoi figli e mendichino e siano respinti dalle loro case; l'usuraio si impadronisca della sua sostanza e stranieri approfittino dei frutto delle sue fatiche; tutta la terra combatta contro di lui e gli elementi gli siano avversi e i meriti di tutti i santi defunti lo confondano e mostrino aperta vendetta su di lui in questa vita».
Legittimità al regno normanno
La riforma o meglio la rivoluzione avvenuta nei criteri dell'elezione del vescovo di Roma, nel 1059, apriva dunque la strada a un insieme di sviluppi possibili, ambiguamente interconnessi fra loro. Mentre in effetti, da un lato, l'elezione di Niccolò II era stata resa possibile grazie al sostegno del mondo imperiale, d'altra parte l'ascesa al trono papale di un «riformatore» inaugurava un'epoca di contrasti con i poteri sovrani che l'epoca medievale avrebbe trasmesso all'Europa moderna. La possibilità di allearsi, a difesa della vera fede, con chi, persona o gruppo, il pontefice romano riteneva più credibilmente cristiano, ma anche di disconoscere questa alleanza ove si rivelasse inutile alla compattezza della respublica cattolica, una realtà politica che si affermava come transnazionale proprio in seguito all'affermarsi del primato del pontefice romano, inaugurava del resto una lunga stagione della politica europea - probabilmente non ancora conclusa - la cui complessa conflittualità sarebbe stata variabilmente orchestrata e arbitrata dal potere sovranazionale dei papi.
Proprio Niccolò II sempre nel cruciale 1059, pochi mesi dopo la sinodo lateranense, darà il via a questa logica nel momento stesso in cui riconoscerà la piena legittimità del neonato regno normanno, un potentato di nuova e incerta legalità, conferendo la sovranità su Campania, Puglia, Calabria e Sicilia a Roberto il Guiscardo e ai capi del clan degli Hauteville. Dal trattato di Melfi nel giugno 1059 al concordato, stipulato ancora a Melfi nell'agosto dello stesso anno, subito dopo un concilio cui avevano partecipato alcuni tra i principali rappresentanti della riforma cattolica romano-centrica, da Umberto di Silvacandida a Ildebrando di Soana, l'autenticazione da parte della Sede romana di un potere cristiano vassallo di Roma su terre fino a poco prima islamiche o bizantine cominciava a significare agli occhi del mondo più cose: innanzitutto che il papa poteva legittimare un potere politico armato com'era già avvenuto ai tempi di Carlo Magno ma, ancor meglio, legandolo a sé con un patto di sottomissione, in secondo luogo che il papa insediato a Roma poteva stabilire un potere a sé fedele su terre non solo infedeli ma anche in passato appartenenti ad altri poteri cristiani rivali (quello dell'imperatore d'Oriente nel caso dell'Italia meridionale), e infine che il papa, unico fra i potenti occidentali, aveva il diritto superiore di rendere istituzionale un potere di fatto per le ragioni indiscutibili della fede, ossia in conseguenza delle scelte tanto politiche quanto ideologiche operate da un nuovo tipo di sovranità, quella papale, il cui disconoscimento significava ormai la fuoriuscita dalla Cristianità.
Un modello di lunga durata
L'affermazione nel 1075 da parte di Gregorio VII del primato romano come primato politico universale («... Egli solo può usare le insegne imperiali; solo al Papa tutti i principi devono baciare i piedi; solo il Suo nome sia pronunciato nelle chiese; il Suo nome sia il medesimo in tutto il mondo; a Lui è permesso di deporre gli imperatori; una Sua sentenza non possa essere riformata da alcuno, mentre al contrario, può riformare qualsiasi sentenza emanata da altri; Egli non può essere giudicato da alcuno; Egli può liberare i sudditi dall'obbligo di obbedienza ai principi che hanno imposto il loro potere con la forza ...»), al di là del tono provocatorio e paradossale che la contraddistingue, portava alle sue logiche conclusioni un discorso già implicito nelle deliberazioni e nelle politiche del 1059.
Questo discorso imponeva, nel cuore stesso del processo di civilizzazione dell'Occidente, che dal medioevo avrebbe portato alla modernità, sia una possibilità per il potere di presentarsi come universale, sovranazionale, carismatico e indiscutibile, sia un modello di autorità unica ed eterna poiché discesa direttamente dal Cristo nel momento della sua incarnazione, e pertanto autorizzata in nome di una Verità superiore a legiferare ben al di là dei confini del suo effettivo dominio territoriale.
La forza di questo modello, le cui prime radici si collocano nel processo di trasformazione delle chiese d'Occidente in una Chiesa gerarchicamente ordinata intorno al Centro costituito dal pontefice romano, si rende già compiutamente visibile nella sinodo lateranense del 1059 sull'unicità esclusiva dell'intronizzazione del vescovo romano. Continuerà comunque ad agire non soltanto nelle politiche teocratiche dei «sovrani pontefici» da Innocenzo III in avanti, ma anche, se non soprattutto, nella volontà espansionistica di un'Europa cristiana il cui obiettivo sarà esplicitamente, nell'era degli Stati nazionali, la conquista e la sottomissione del pianeta Terra.