L’ho già scritto altre volte e forse a qualche lettore del blog verrà a nausea: la crisi finanziaria è l’iceberg di una crisi più generale che riguarda il modo di produzione capitalistico e che si fa notare nei suoi effetti nella stagnazione dei consumi (alias sovrapproduzione, che però non è solo di merci ma anche di capitali), nel deficit di bilancio e del debito statale, nella caduta degli investimenti e della produttività in determinati settori, nella finanziarizzazione dell’economia e sul versante speculativo. Come ho già scritto in uno dei post dedicati al libro di Diego Fusaro, ciascuna categoria dell’economia capitalista, essendo un rapporto, un’unità di opposti, contiene in sé la possibilità della crisi. È il movimento delle categorie economiche, considerate nella loro interdipendenza, a tradurre questa possibilità in necessità, dimostrando che il modo in cui s’iscrive lo sviluppo capitalistico, potendo avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi, ha un carattere storico, transeunte, così come il carattere dei concetti che ne definiscono le leggi e le proprietà.
Se ogni crisi assume caratteristiche particolari che possono più o meno differenziarla dalle precedenti, all’origine delle crisi però stanno le medesime contraddizioni fondamentali. In questo quadro, la caduta tendenziale del saggio generale del profitto rappresenta la causa principale che determina la necessità della crisi, poiché il processo di accumulazione capitalistica si attua solo con un aumento continuo della composizione organica del capitale sociale e quindi, come dimostrato dalla legge scoperta da Marx, con una diminuzione tendenziale del saggio generale del profitto.
Anche le controtendenze alla legge, analizzate da Marx, agiscono come tendenze relative, ma il processo di caduta del saggio generale del profitto non per questo scompare. Tuttavia non solo l’accumulazione continua ad avvenire nella “fase del dominio generale-assoluto del capitale”, ma in questa fase essa avviene su una base produttiva più estesa e tra contraddizioni crescenti. Proprio per questo le contraddizioni non possono più essere contenute all’interno dei rapporti economici esistenti, ma le crisi alle quali esse danno luogo diventano sempre più grandi e distruttive, fino a sfociare in una crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico, ch’è quella che abbiamo sotto gli occhi.
È ovvio l’interesse della borghesia e dei suoi funzionari di negare l’evidenza, convinti che il capitalismo (la cui essenza è la necessità incessante di valorizzazione che lo porta “a produrre per distruggere e distruggere per poter produrre”) può svilupparsi senza fine, e che dunque il suo superamento è solo un desiderio morale, non una necessità storica. Essi negano tale necessità storica poiché l’intendono come necessità automatica e immediata del “crollo”, mentre la crisi, vale la pena ripeterlo, rappresenta la condizione storica necessaria e possibile del superamento del modo di produzione capitalistico. Pertanto, la lotta di classe assume in tale quadro un ruolo essenziale e risolutivo. E, del resto, nemmeno la borghesia e il modo di produzione capitalistico sono diventati dominanti senza aver rivoluzionato, violentemente e nel corso di secoli, i vecchi rapporti sociali.
Per quanto riguarda la crisi attuale, sul piano sociale, è evidente la crisi degli Stati dal lato del debito pubblico, cioè la crisi del cosiddetto welfare. Questa assume caratteri tanto più gravi in quanto, come dimostra chiaramente la situazione odierna negli Stati Uniti, i grandi ricchi non vogliono cedere quote di plusvalore e di reddito sotto forma di tasse. I singoli capitalisti, in quanto tali, sono interessati solo all’acquisto e allo sfruttamento della forza-lavoro; ma, al di fuori del rapporto di scambio e di sfruttamento, ogni costo diventa per loro improduttivo e dunque privo di ogni interesse.
Nel considerare la crisi del debito americano, federale e locale, non bisogna trascurare il fatto che gli Usa, malgrado tutto, restano il paese capitalisticamente più avanzato, sia dal punto di vista industriale e soprattutto tecnologico. Essi stanno mettendo in atto consapevolmente una strategia, appoggiata dai media che diffondono panico a piene mani, tesa a tagliare le spese improduttive sotto la minaccia di default, e di svalutazione del dollaro a fini competitivi.
Da profano, faccio una considerazione. La "crisi" di cui tu parli, è un fenomeno "naturale" al pari di una catastrofe come un maremoto; oppure tale crisi è qualcosa che può essere guidato prima di ricevere lo tsunami in testa? Voglio dire: i pochi grandi possessori di capitale prima di vedersi arrivare il fango in faccia, non potranno "cedere" qualcosa della loro "roba" prima che essa non valga più niente?
RispondiEliminaNon si tratta di una crisi di sproporzionalità, né di una crisi che può essere risolta con una migliore e “più giusta” redistribuzione, poiché l’essenza del modo di produzione capitalistico è la produzione per il profitto, ove ogni capitalista, per aumentare il proprio profitto, tende a ampliare al massimo la produzione, è quindi la LEGGE fondamentale della produzione capitalistica, la produzione di plusvalore per il plusvalore, che determina necessariamente quegli “squilibri”, come li chiamano gli economisti borghesi, per eliminare i quali occorrerebbe eliminare la valenza di questa legge, cioè il modo di produzione capitalistico, la cui essenza, ripeto, è la necessità incessante di valorizzazione che lo porta “a produrre per distruggere e distruggere per poter produrre
RispondiEliminaAl punto in cui esplodono le contraddizioni (il punto non è un preciso istante storico) si dovrà pur mettere mano alla situazione, vi saremo costretti e se non sarà così andrà tutto all’aria, anzi, sottoterra
Non dobbiamo dimenticare che nel corso del novecento, in particolare negli anni trenta, il capitalismo è uscito dalla sua crisi più grave con 50 milioni di morti (senza contare il resto)
pertanto non è questione di cedere qualcosa e è indipendente dalla "buona volontà" dei singoli capitalisti
caro Luca, potremmo costringere i capitalisti a versare una parte più grande delle proprie ricchezze nelle casse dello stato, ma ciò non invaliderabbe le leggi immanenti del capitalismo, tutt'alpiù risanerebbe un poco e momentaneamente la situazione del debito
RispondiEliminaBel post, come al solito.
RispondiEliminaIl mio cruccio personale è però, quanti di coloro che appartengono alla classe degli sfruttati, riuscirebbero a capire tali meccanismi immanenti nel modo di produzione capitalistico?
Voglio dire, come fare a far arrivare agli sfruttati, siffatte consapevolezze, presenti all'interno del modo di produzione capitalistico?
Saluti.
Luigi
"caro Luca, potremmo costringere i capitalisti a versare una parte più grande delle proprie ricchezze nelle casse dello stato, ma ciò non invaliderabbe le leggi immanenti del capitalismo, tutt'alpiù risanerebbe un poco e momentaneamente la situazione del debito".
RispondiEliminaQuindi, è meglio che questa sproporzione gigantesca, segua il suo "naturale" percorso di inumanità, e macelleria sociale?
la domanda era se fosse possibile aggiustare la cosa con una più equa distribuzione
RispondiEliminala risposta è stata: no; va da sé che allieviare le condizioni della povera gente è sempre una cosa da perseguire, così come far pagare i ricchi, ma appunto, non RISOLVE la contraddizione fondamentale
caro Luigi, ad uno sfruttato, in generale, non servono i tecnicismi per avere coscienza della propria condizione
RispondiEliminasaluti a te