Le spese pubbliche italiane nel 2011 per di più si attesteranno al 49,8% del Pil. La Francia è quella con le spese pubbliche maggiori dell'Italia, con il 55,9% del Pil a fronte del 45,7% della Germania e del 42,0% del Canada. Gli Stati Uniti hanno una spesa pubblica al 41,2% del Pil e il Regno Unito al 45,9%.
Insomma tutti i paesi capitalistici più sviluppati registrano un rapporto tra spesa pubblica e Pil tra il 41 e il 56% (oltre il 50% c’è anche Danimarca, Svezia, ecc.). Si tratta dunque di paesi dove il liberismo non esiste perché l’intervento dello Stato nell’economia è assai significativo? Certamente tale intervento è cospicuo, ma questo basta per dire che le politiche economiche dell’Europa e degli Usa non siano tendenzialmente liberiste? Le due cose, liberismo e intervento statale diretto (che non coincide tout court con la spesa pubblica) all’apparenza non stanno insieme e in realtà segnano una contraddizione, un conflitto tra capitalismo privato e quello pubblico.
Veniamo quindi al punto. Il capitale finanziario, cioè il capitale unificato, nel mentre lotta per “la libertà di commercio” su ogni scala dello spazio economico, ha come base non solo il superamento della libera concorrenza dei singoli capitalisti (la quale ovviamente è in contrasto con il monopolio), ma anche l’attività gestita o partecipata dalla Stato in quanto concorrente. La sostanza del liberismo è l’agire senza vincoli sull’intera economia e quindi sullo Stato e la società. L’illusione liberista è quella di poter ridurre a compiti di mera sussidiarietà lo Stato, a compiti di coercizione e di difesa, rendendolo quindi per quanto possibile estraneo ai meccanismi di funzionamento del mercato capitalistico, essendo essi perfettamente in grado di suscitare uno sviluppo economico allo stesso tempo più razionale e continuo. Questa concezione, gabbata per nuova, si era imposta fino alla crisi degli anni 1930.
Le concezioni liberiste non reggevano alla drammaticità degli eventi. Lo Stato fu costretto ad assumere funzioni qualitativamente nuove, ad intervenire direttamente nel ciclo della riproduzione allargata del capitale (il New Deal roosveltiano, l’Iri in Italia, il riarmo e i lavori pubblici in Germania, ecc.). Keynes riteneva che il capitalismo, a causa delle imperfezioni presenti nella sua struttura, non era in grado di garantire automaticamente una buona combinazione di tre leggi essenziali per il suo funzionamento (*). L’analisi che l’economista inglese fece delle cause della crisi era assai poco oggettiva essendo i suoi presupposti di natura fondamentalmente psicologica, tuttavia essa forniva degli elementi di stabilizzazione del sistema attraverso iniziative anticicliche e di aiuto all’accumulazione capitalistica.
Tuttavia la pratica di cui la nuova ideologia si faceva carico, presentò ben presto gli inconvenienti che ben conosciamo, con l’aumento della spesa pubblica e del relativo debito, incamminando lo Stato sulla strada dell’ingerenza economica e del parassitismo, di un deficit sempre crescente. Alcuni decenni dopo, il conflitto tra capitalismo privato e quello pubblico si risolse in un nuovo corso accompagnato dalla solita teoria sulle magnifiche e progressive sorti del capitalismo privato, ignorando peraltro il ruolo effettivo svolto nello sviluppo capitalistico dallo Stato (ruolo centrale e non solo assistenziale) e vedendo nella sua presenza nell’economia solo un aspetto sleale per via del suo rapporto privilegiato con i gangli vitali dell’amministrazione e perciò chiedendone il drastico ridimensionamento. Si tratta in realtà, al fondo delle cose, di una lotta per la ripartizione del plusvalore tra borghesia statale e borghesia privata.
Iniziò negli anni Ottanta, con alterne fortune, un’operazione neoliberista di privatizzazioni del patrimonio pubblico che sostanzialmente ha determinato il trasferimento di parti cospicue del capitale pubblico in mani private senza peraltro che ciò incidesse significativamente sulla riduzione del debito pubblico. A ciò si accompagnava una centralizzazione del capitale senza precedenti. Negli Usa, centro nevralgico del neoliberismo, “sia in campo industriale che in campo finanziario poche decine di corporation dalle dimensioni smisurate sono giunte a formare il vero governo del paese”, scrive Luciano Gallino. Fino alla crisi attuale, laddove si è accentuata l’azione del capitale finanziario che ingloba i settori del capitale industriale, commerciale e bancario.
Ecco quindi rientrare in scena lo Stato con il salvataggio delle banche americane e inglesi per evitare il tracollo del sistema. Qui è lo Stato stesso che diventa banca (basti pensare al ruolo della Federal Reserve nel riciclaggio della spazzatura dei derivati). Sarebbe del resto inevitabile, così come a partire dagli anni Trenta, che con l’aggravarsi e approfondirsi della crisi, lo Stato ridiventi capitalista reale. Infatti, non bisogna mai dimenticare che l’intervento dello Stato e degli organismi finanziari internazionali è volto a garantire l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, di neutralizzare le crisi cicliche, e tale ruolo comporta un’assunzione di funzioni economico-imprenditoriali, oltre che funzioni di prevenzione, controllo e repressione degli antagonismi sociali che le contraddizioni del sistema di estorsione del valore genera.
Sennonché il giochino non può ripetersi nelle modalità e nella misura del passato. Innanzitutto perché la scala dell’intervento richiesto, data la dimensione assunta dallo sviluppo capitalistico, è gigantesca e insostenibile nel lungo periodo; quindi perché, s’è vero che da un lato è stato dato spazio al capitalismo privato, dall’altro è altrettanto vero che le politiche in favore (non solo del welfare come amano propagandare i corifei del liberismo) dell’accumulazione (trasferimenti diretti e indiretti alle imprese, sussidi, fiscalizzazione degli oneri sociali, agevolazioni fiscali, fondi di dotazione, salvataggi e risanamenti vari, sostegno della domanda, ecc.) non sono venute mai meno, e anzi si accompagnano a una crisi fiscale e del debito inedita.
Sia dal lato del riformismo che da quello del neoliberismo, ogni tentativo di ottimizzare o anche solo di salvare il sistema è risultato utopico, dal momento che le ragioni profonde che scuotono il capitalismo trovano una loro effettiva spiegazione solo a partire delle contraddizioni immanenti la struttura della produzione.
(*) La tendenza al consumo; l’efficienza marginale del capitale; la preferenza per la liquidità.
Veramente un bel post, e spero che il signore che si firma con il nick PROCELLARIA l'abbia letto.
RispondiEliminaSolo la democrazia dei Produttori Associati, metterà fine a questo obbrobio che è il modo di produzione capitalistico, traghettandoci, dal regno della necessità, a quello della libertà.
Saluti
P.S.
il modo di produzione capitalistico,è una fase storica della riproduzione umana nel suo rapporto con la natura, e come tale,essa è destinata ad estinguersi.
La sua estinzione è certamente legata alle ingiustizie dei presupposti sui quali si fonda l'economia capitalistica: Alienazione, Schiavitù,Sfruttamento.
Ma in particolar modo deriva dal suo carattere,intrinsecamente irrazionale,che si manifesta negli esiti a cui portano le sue stesse dinamiche: il progressivo immiserimento della classe lavoratrice;
la polarizzazione della dialettica sociale tra una massa sempre più estesa di Lavoratori, e una cerchia sempre più stretta di possessori dei mezzi di produzione;
il ripetersi ciclico delle crisi di sovraproduzione.
http://www.youtube.com/watch?v=612vYQInnrk