Il
difetto principale di tutti coloro che si ripromettono con magiche ricette di
riformare questo sistema economico e sociale, è quello di indicare i motivi
della crisi del sistema in questa o quella causa, oppure in un insieme di cause
che in realtà hanno solo una relazione parziale o addirittura apparente con il
fallimento di questo sistema. Essi denunciano un circolo vizioso di inefficienza e irrazionalità, di abusi e soprusi, che sono ben evidenti ma sono
solo gli effetti di una situazione nella quale agiscono ben altre leggi e
contraddizioni. Ed è per tali ragioni, per contro, che le loro proposte di
stimolare l’economia e di dotare il sistema di nuove regole non producono alcun
frutto o solo dei risultati limitati nel tempo lungo.
Sono
anni ormai che economisti e politici non sanno dire altro che per uscire dalla
crisi è necessario aumentare la produzione, salvo non rilevare che per creare
nuova domanda servono salari più elevati, e neanche questo infine basterebbe
perché la somma dei salari sarà sempre inferiore all’insieme delle merci
prodotte, e per ovvie ragioni i capitalisti non possono consumare
improduttivamente tutti i loro profitti.
La
prima ragione della crisi, apparentemente legata al sottoconsumo come successe
negli anni 1930, oppure come accade oggi in aggiunta di motivazioni legate alla
speculazione finanziaria, riguarda la natura stessa del modo di produzione
capitalistico, ossia la legge economica fondamentale del modo di produzione
capitalistico. Tale legge ci dice anzitutto che il valore di una merce è
determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla.
Indagare
tale legge, rappresenta il solo modo per comprendere il processo di formazione
e l’origine del plusvalore, quindi il modo per ricostruire scientificamente il
concetto di sfruttamento capitalistico. Ogni altro tipo d’indagine economica
che riguardi l’economia in generale o singoli aspetti di essa, ossia non prenda
le mosse da tale presupposto, da tale legge economica fondamentale del modo di
produzione capitalistico, non è destinata solo ad arrivare a conclusioni
sbagliate, ma tale tipo d’indagine non ha nulla di scientifico e la sua
caratteristica principale sarà di avere una funzione ideologica, quella di
mistificare la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non
pagato da parte del capitale, di negare come le categorie economiche siano
l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati.
* * *
La
grande industria e la sussunzione della scienza a essa, hanno creato, secondo
Marx, una situazione nella quale la quantità di lavoro erogato nella produzione
non è più la fonte principale per la creazione di ricchezza della società. Anche
questo è un aspetto poco compreso e anzi totalmente frainteso nelle sue
conseguenze dalla pseudo scienza economica accademica.
Oggi
per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè
di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. Ciò è evidente a tutti
qualora si consideri la massa di lavoro oggettivato che il lavoro vivo può
mettere in moto. In altri termini, la quantità di prodotti disponibili non è
determinata dalla quantità del lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza
produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e rimane la quantità di tempo di lavoro
immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza.
Scrive
Marx nei Lineamenti fondamentali per la
critica dell’economia politica (Grundrisse):
La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria
– nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto,
come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura
astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è
più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione,
quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come
sorvegliante e regolatore.
L’operaio non è più quello che inserisce
l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso;
ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un
processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura inorganica, della
quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione,
anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il
lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma
l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della
natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale —
in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il
grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del
tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come
una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel
frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.
Non appena il lavoro in forma immediata ha
cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e
deve cessare di essere la sua misura, e
quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso.
Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo
della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di
essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di
scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere
anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
[Subentra] il libero sviluppo delle
individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per
creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della
società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo
artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e
ai mezzi creati per tutti loro. Il
capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a
ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di
lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi,
il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo
nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro
superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di
quello necessario.
Queste
cose Marx le scriveva oltre un secolo e mezzo or sono. Quale potenza di
pensiero in quell’uomo. Egli dimostra qui in modo evidente come sia il capitale
stesso a creare le condizioni del proprio superamento, di come il modo di
produzione basato sul valore di scambio sia destinato a crollare per l’effetto
stesso delle leggi del suo movimento. Pertanto, egli dimostra il carattere storico e transitorio della
legge del valore, la quale non gode di proprietà “naturali” valide in tutte
le epoche.
Perciò,
nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si sostituirà al capitalismo,
la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa assumerà un contenuto diverso
da quello che le è proprio nel modo di produzione capitalistico. Marx con ciò
dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di
rapporti sociali di produzione storicamente determinati, tanto è vero che
laddove la forma-valore sopravvive, è perché i rapporti di produzione
effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo
capitalistico. Ed è ciò che è successo precisamente nei paesi così detti
comunisti: non per l’incapacità e la cattiveria di una qualche burocrazia di
partito in particolare, ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche
oggettive indispensabili per tale trasformazione.
Si dibatte, eccome se si dibatte. Persino questi,
RispondiEliminahttp://www.conflittiestrategie.it/indice/wp-content/uploads/2013/05/lagrassa.pdf
che fino a poco tempo addietro erano sospettosi delle istanze emergenti che veicolano l'uscita dalla moneta unica, sia nelle forme radicali di D'Andrea che in quelle appena propugnate nel manifesto "moderatissimo" di Bagnai e Borghi (escano i più forti, e lasciamo l'euro ai più deboli!), la dice lunga di come, alla fin fine, il potere meriti... rispetto. Anche La Grassa si "accompagna" alle retoriche di fuoriuscita dall'euro, che appena 6 mesi prima lo stesso inquadrava come "grimaldello" per la decomposizione del quadro geopolitico multipolare. Adesso, invece, la moneta unica europea è il "progetto egemonico degli USA" di ripristinare la unipolarità geopolitica.
Non ci sono alternative: il potere lo conquisti (e ne gestisci le conseguenze) e/o lo combatti (per gestirne le conseguenze). Ma sempre lotta è.
E quindi la necessità in quei paesi di partiti comunisti leninisti che, oltre a organizzare il proletariato, creasse le condizioni minime per la vera rivoluzione. Ma nell'Europa occidentale? Qui le condizioni sia economiche che politiche (la democrazia volgare) ci sono già, i partiti comunisti dovrebbero avere come unico scopo la presa di coscienza delle classi subalterne attraverso la divulgazione delle scoperte di Marx & Engels. Invece si perdono in cazzate da guerra fredda o trascendentali! Cascano le braccia.
RispondiEliminaLa risposta è semplice e sempre la stessa:
RispondiElimina-BOLA + ESCOLA(movimento brasileiro)
nonnoFranco