Tucidide, generale e storico greco, nella sua Guerra del Peloponneso, ci racconta del conflitto tra Sparta (potenza dominante) e Atene (potenza emergente) per il predominio sulla Grecia. L’analogia che si può tracciare con l’oggi mi pare trasparente: Usa-Cina. Ma anche con situazioni di altre epoche: Roma e Cartagine, Spagna e Portogallo, Inghilterra e Olanda, Francia e Inghilterra e, più di recente, Germania da un lato e Gran Bretagna e Francia dall’altro, senza dimenticare la disputa tra gli Stati Uniti e il Giappone nel Pacifico.
Quando un potere in ascesa minaccia di spodestare un potere dominante, uno scontro violento è la regola, non l’eccezione.
Gli Stati Uniti hanno un problema con la Cina, che non è un problema con Xi Jinping, o con il “comunismo”, il mancato rispetto dei “diritti umani” e cose del genere. Così come avviene in natura, anche nella contesa tra imperialismi non c’è nessun anelito morale o altro principio che spinga alla lotta più della competizione per la supremazia. Gli Stati Uniti non possono dominare se un’altra potenza, desiderosa di dire la sua nel mondo, non si assoggetta alle loro regole.
Dopo cinquant’anni d’intesa tra Pechino e Washington (il riconoscimento di “una sola Cina”), un periodo caratterizzato sia dal trionfalismo unipolare americano sia dall’ascesa della Cina allo status di superpotenza economica, i due paesi sono ora in rotta di collisione. La guerra tra USA e Cina è inevitabile?
Il 23 marzo scorso, scrivevo: «Il duello Washington-Pechino, la “nuova guerra fredda”, è una rivalità globale, ci riguarda tutti, poiché ci trascina in un bipolarismo tanto ingiustificato quanto pericoloso. Ingiustificato perché non è, a differenza della vecchia guerra fredda, ideologico e sistemico; pericoloso perché porta non solo a maggiori incertezze ma a un conflitto aperto che ormai sembra difficile scongiurare (siamo prigionieri della “trappola di Tucidide”)».
Quando c’è sfiducia nei vertici politici, le visioni del mondo sono inconciliabili e quando ciascuna parte considera la propria leadership come preordinata, qualsiasi pretesto va bene. La questione di Taiwan, una collisione tra navi da guerra americane e cinesi nel Mar Cinese Meridionale, la disputa tra Cina e Giappone per delle isole su cui nessuno vuole vivere, l’instabilità nella Corea del Nord o la dirompente controversia economica potrebbero fornire la scintilla per una guerra tra Cina e Stati Uniti. Tutto ciò può accadere troppo facilmente.
C’è chi sostiene che l’equilibrio economico del potere si è inclinato a favore della Cina e che le pretese americane di preservare la propria egemonia sono irrealistiche. Altri sostengono che il Regno di Mezzo è minacciato non solo da nemici esterni, ma anche da una popolazione che invecchia, dunque da un’incombente catastrofe demografica e da un’economia vacillante che porterà la Cina verso il declino molto prima di quanto ci si attenda.
I vertici cinesi, consapevoli di questa tendenza, in previsione che la finestra di opportunità si chiuderà rapidamente, potrebbero decidere di forzare una mossa ora per perseguire i loro obiettivi (Taiwan innanzitutto). Pertanto, è questo il decennio in cui la competizione Usa- Cina toccherà il suo momento di massimo pericolo.
Quest’ultima ipotesi non mi convince, tuttavia sulla base di un insieme di condizioni ritengo il conflitto bellico probabile. Per quanto riguarda Pechino, si tratta di una combinazione di potere, necessità di prosperità e orgoglio nazionale per la civiltà cinese. Un Oriente in ascesa e un Occidente in declino è una tesi diventata (non senza ragioni) un articolo di fede all’interno del partito al potere. Per quanto riguarda Washington, la supremazia globale è semplicemente condizione per la sua sopravvivenza, anche come nazione.
Se gli Stati Uniti, in caso d’invasione cinese di Taiwan, reagissero con la forza militare ma poi perdessero la battaglia, segnerebbero la fine del secolo americano e del suo mito. Viceversa, in caso di sconfitta della Cina, ciò metterebbe fine al progetto del suo riscatto, quello di vendicare il “secolo di umiliazione”, dalla prima guerra dell’oppio alla fine della guerra civile cinese nel 1949.
Ecco perché sia per Pechino e sia per Washington potrebbe rivelarsi irresistibile l’intensificazione delle ostilità, senza esclusione di colpi. In tal caso, nella meno catastrofica delle ipotesi, vi sarebbero le principali città ridotte in cenere e decine di milioni di persone morte. Né Washington né Pechino sarebbero vincitrici.
Mentre l’ordine globale guidato dagli Stati Uniti appare sempre meno sostenibile, e la Cina continua ad accumulare influenza economica e politica, l’optimum sarebbe quello di correre rischi calcolati ed evitare quelli sconsiderati, tuttavia dobbiamo chiederci se oggi abbiamo leader mondiali di caratura tale da poter disinnescare le bombe geopolitiche che stanno per esplodere.
Per evitare una guerra evitabile c’è qualcosa che si chiama “concorrenza strategica gestita”. Implica una comunicazione stretta e continua tra Pechino e Washington per comprendere le reciproche “linee rosse” strategiche irriducibili, riducendo così la possibilità di conflitto a causa di incomprensioni o sorprese. Ma ciò che è accaduto con la Russia non depone a favore di una simile prospettiva.
Inoltre, in una visione globale inclusiva, con una concorrenza strategica gestita, entrambe le parti potrebbero incanalare i loro impulsi competitivi nell’economia, nella tecnologia e perfino verso obiettivi di cooperazione (nelle istituzioni internazionali, missioni spaziali, clima, epidemie, disarmo, ecc.). Janet Yellen, segretario al Tesoro, recentemente in Cina, ha dichiarato: “Crediamo che il mondo sia abbastanza grande perché entrambi i nostri paesi possano prosperare”. Solo che prosperare non è più l’unico obiettivo di nessuna delle due parti. E poi, prosperare sotto la guida di chi?
Washington, non comprendendo altro che un mondo a propria misura, troverà i modi per far accettare alla propria opinione pubblica e ai propri alleati un conflitto con la Cina presentandolo come inevitabile e necessario.
Buongiorno, mi pongo e le pongo una domanda che non attiene alla sua riflessione e mi scuso se per caso la risposta è già stata oggetto di qualche suo articolo (o libro). La leggo da poco e non la conosco e mi perdonerà la mia ignoranza dovuta anche alla mia "giovinezza" (anche se ho 38 anni) oltre che alla mia formazione universitaria (e di vita) rigorosamente liberale. Nell'ottica di una teoria e una politica socialista è la guerra mondiale l'unico spiraglio per ribaltare il tavolo capitalista? Vi sono altre condizioni posto che il Novecento, a mio parere, mostra il fallimento delle politiche socialdemocratiche (penso a Turati, alla scissione di Livorno)? E' possibile ricostruire una coscienza di classe dei lavoratori in un periodo nel quale l'immaginario di ogni singolo uomo è plasmato dal capitale? In un periodo nel quale l'emergenza fomentata incute paura e diffidenze reciproche fra le persone? La ringrazio. Luca
RispondiEliminaLe rispondo volentieri e per ciò che valgono le mie opinioni, ovviamente.
EliminaSu come si svolgerà un’eventuale prossima guerra mondiale abbiamo a disposizione una congettura, non proprio campata in aria, terrificante: l’annientamento della civiltà umana e in gran parte della vita nell’intero pianeta. Pertanto, pensare di poter sfruttare una guerra nucleare per ribaltare il tavolo capitalista mi sembra più una iattura che un’occasione.
Oltretutto, ritengo che non vi sia nessun tavolo capitalista da ribaltare, nel senso classico tipo 1917. Il superamento del capitalismo, qualunque ne potrà essere l’esito, riguarda il processo storico, dunque il tempo lungo. Certo, il treno del cambiamento non procede sempre alla medesima velocità (e vi possono essere anche dei salti di binario), per cui, come scrivevo l’altro ieri (ciò che difficilmente si poteva immaginare nel 1785, … divenne realtà prima della metà del decennio successivo), il processo storico presenta sempre degli inediti e delle sorprese.
Quanto alla domanda “se sia possibile ricostruire una coscienza di classe dei lavoratori in un periodo nel quale l'immaginario di ogni singolo uomo è plasmato dal capitale”, tutto dipende dalle circostanze. Una grave crisi economico-finanziaria (più grave di quella del 2008) può cambiare le carte in tavola, aprire nuovi scenari; allo stesso modo anche una guerra generalizzata in cui le forze in campo non impieghino l’arma nucleare (neanche questa ipotesi va esclusa, del resto nel 1939-45 non furono impiegate armi chimiche e batteriologiche, pur disponibili); lo stesso sviluppo tecnologico e l’inasprimento delle contraddizioni avranno sicuramente un impatto sociale di non poco effetto. More solito l’interconnessione di molte variabili deciderà il futuro, che a noi si presenta confuso e quanto mai incerto (e del resto non è mio costume vendere vane speranze).
Ad ogni modo, dobbiamo tener presente che la battaglia ideologica è una battaglia fondamentale, e di ciò la borghesia n’è pienamente e chiaramente cosciente e vi partecipa, ora vittoriosa, senza risparmio.
Mi complimento per le sue domande e la ringrazio per l’interesse per il blog.
Le guerre sono scontri tra POTERI. G. Arrighi, nel suo “il Lungo XX secolo”, analizza inizio, sviluppo e fine di varie Potenze Egemoni (la capacità di detenere il potere, convincendo chi è subalterno a quel potere, di esercitarlo nell’interesse di tutti): Il ciclo genovese-iberico, quello olandese, quello britannico e quello statunitense. Ogni ciclo egemonico si svolge in 2 fasi: la crescita con l’espansione Materiale e il declino con l’espansione Finanziaria. La fine di ogni ciclo, con cambio di Potenza Egemone, scatena una guerra.
RispondiEliminaGiovanni Arrighi era molto lontano dal mio approccio alla storia.
EliminaNon vi è dubbio che questo sia il decennio in cui la non mette in discussione la globalizzazione nella misura in cui coincide con il progetto imperialista americano per il XXI secolo. Prende semplicemente atto delle sue defaillances, dei contraccolpi indesiderati, e la ridefinisce su basi bilaterali al fine di rafforzarla icompetizione sempre più conflittuale tra Cina e USA raggiungerà la sua acme. Del resto, per quanta simpatia si possa nutrire verso la Russia di Putin, questa non è l’URSS. Né può prenderne il posto, quale che sia il grado, per la verità piuttosto elevato, di confusione e di frustrazione che domina la sinistra e che testimonia l'incapacità di analizzare dialetticamente la realtà senza che ciò comporti l'identificazione con questo o con quel campione e, soprattutto, senza distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo. Personalmente ritengo che la Russia svolga un ruolo geopolitico di contrasto all'egemonismo USA molto importante e che sia il fattore imprescindibile di un futuro (ma non so quanto probabile) ordine multipolare nel mondo. Sennonché, pur essendomi trovato il più delle volte a fiancheggiare Putin, non penso minimamente a identificarmi con lui e lo valorizzo soltanto nella misura in cui le sue scelte vanno nella direzione di un programma (non progressista ma) oggettivamente progressivo. Dal canto suo, Trump vuole fare la pace a Est per fare la guerra a Ovest; vuole cioè congelare i conflitti con la Russia per aprire il vero fronte, quello contro la Cina, che è il vero nemico del XXI secolo per gli USA e, a quanto pare, per quasi tutti i loro miserabili satelliti europei. Sarà allora interessante vedere che cosa faranno i populisti filo-Putin, quando le collisioni con la Cina diventeranno più violente. È facile auspicare un asse eurasiatico e/o pan-populista con i russi, che sono bianchi, ma che cosa accadrà quando i nemici dell'Occidente diventeranno i "musi gialli", ovvero gli 'Untermenschen' asiatici già repressi e massacrati al tempo del colonialismo europeo in Cina?
RispondiEliminaAlcune frasi dell'elaborato sono rimaste spezzate nell'invio. Può essere così gentile da pubblicare il testo del commento nella versione attuale? Non vi è dubbio che questo sia il decennio in cui la competizione sempre più conflittuale tra la Cina e gli USA raggiungerà la sua acme. Del resto, per quanta simpatia si possa nutrire verso la Russia di Putin, questa non è l’URSS. Né può prenderne il posto, quale che sia il grado, per la verità piuttosto elevato, di confusione e di frustrazione che domina la sinistra e che testimonia l'incapacità di analizzare dialetticamente la realtà senza che ciò comporti l'identificazione con questo o con quel campione e, soprattutto, senza distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo. Personalmente ritengo che la Russia svolga un ruolo geopolitico di contrasto all'egemonismo USA molto importante e che sia il fattore imprescindibile di un futuro (ma non so quanto probabile) ordine multipolare nel mondo. Sennonché, pur essendomi trovato il più delle volte a fiancheggiare Putin, non penso minimamente a identificarmi con lui e lo valorizzo soltanto nella misura in cui le sue scelte vanno nella direzione di un programma (non progressista ma) oggettivamente progressivo. Dal canto suo, Trump vuole fare la pace a Est per fare la guerra a Ovest; vuole cioè congelare i conflitti con la Russia per aprire il vero fronte, quello contro la Cina, che è il vero nemico del XXI secolo per gli USA e, a quanto pare, per quasi tutti i loro miserabili satelliti europei. Sarà allora interessante vedere che cosa faranno i populisti filo-Putin, quando le collisioni con la Cina diventeranno più violente. È facile auspicare un asse eurasiatico e/o pan-populista con i russi, che sono bianchi, ma che cosa accadrà quando i nemici dell'Occidente diventeranno i "musi gialli", ovvero gli 'Untermenschen' asiatici già repressi e massacrati al tempo del colonialismo europeo in Cina?
RispondiEliminaA proposito delle regole, divertente il tweet di Nury Vittachi
RispondiEliminaTHE RULES-BASED ORDER
1. The USA rules the world.
2. The USA makes all rules including these rules.
3. No one can know what the rules are, only that they exist.
4. No one is allowed to ask what the rules are.
5. The USA will be in charge of the flexibility provided by the rules’ non-existent nature.
6. Non-western countries must be regularly castigated for not following the rules.
7. Western countries must be regularly praised for following the rules.
8. Alternative rules of governance which work successfully (cf. China, Singapore) must always be derided as “authoritarianism”.
9. Unfair global dominance by the 13% western minority (cf. totalitarianism) must always be referred to as “democracy”.
10. These rules over-ride all other rules, including fundamental justice and the laws of nature.
Thank you and goodnight.
With love, The Pentagon