Scrive nel suo blog Mario Seminerio: «[...] nei quattordici trimestri del periodo osservato, c’è un equilibrio pressoché perfetto: i profitti unitari aumentano in modo molto contenuto, pari all’11%, e i costi unitari del lavoro vanno dietro in modo pressoché coincidente: +10%». Seminerio rileva che «nell’arco di tempo considerato, in Italia c’è stato equilibrio, quindi nessuna “predazione capitalistica” a danno del lavoro. Lo dice l’Ocse, non il sottoscritto.»
In questo tipo di accostamenti, tra saggio del profitto e saggio di sfruttamento del lavoro, s’incorre spesso in un classico errore: rapportare l’uno e l’altro al capitale complessivo anticipato.
Anzitutto va chiarito che cos’è il saggio di sfruttamento, alias il saggio del plusvalore. Tale saggio mostra in quale proporzione il nuovo valore creato dalla forza lavoro nel processo produttivo è distribuito tra l’operaio e il capitalista, ossia qual è la quantità di lavoro (e di valore) non pagato all’operaio di cui si appropria il capitalista.
Per i capitalisti e gli economisti volgari (volgari in senso tecnico-storico), il saggio di plusvalore viene identificato col saggio del profitto e viene calcolato in rapporto al capitale complessivo anticipato, e ciò porta a far credere che sia il “capitale” nel suo complesso la fonte della ricchezza prodotta e che il saggio di sfruttamento della forza lavoro sia notevolmente minore di quanto non sia in realtà.
Il saggio del plusvalore si esprime in saggi del profitto assai diversi a seconda della differente grandezza del capitale costante e quindi del capitale complessivo (vedi qui).
Restando immutato il saggio del plusvalore, si ha progressiva diminuzione del saggio generale del profitto; uno dei motivi per i quali si ha una diminuzione del saggio generale del profitto è la modificazione della composizione media organica del capitale complessivo, ossia un progressivo aumento del capitale costante in rapporto a quello variabile (forza-lavoro).
Potrebbe anche non essere questo il motivo principale, nella situazione concreta italiana, a denotare il suggerito e temporaneo “equilibrio” tra profitti e i costo del lavoro. E del resto, anche per quanto riguarda la riduzione del salario al di sotto del suo valore, essa non ha nulla a che vedere con l’analisi generale del capitale, ma appartiene allo studio della concorrenza. Tuttavia, tale riduzione rappresenta ancora una delle cause più importanti che frenano la tendenza alla caduta del saggio del profitto, per frenare la quale i capitalisti, tra l’altro, si rivalgono con l’aumento dei prezzi delle loro merci. Eccetera.
Pertanto, bisognerebbe usare più cautela nel sostenere che non c’è nessuna “predazione capitalistica” (nel senso di aumento dello sfruttamento, poiché la predazione è conditio sine qua non) poiché ci sarebbe un “equilibrio” tra profitti e i costi del lavoro, tanto più quando ci si esprime per “profitti unitari”, che è un ulteriore elemento di confusione.
Alla base della correlazione OCSE richiamata da Seminerio, così come del suo risultato equipotente, c’è l’idea che il salario sia un reddito, laddove viene obliterata la sua essenza di capitale trasformato. Con questa operazione 'ad usum vulgi' si può quindi immaginare una sua variabilità arbitraria, che dipenderebbe, come in Smith e nell’economia marginalistica, da una grandezza monetaria del tutto svincolata dalla produzione di valore, ossia dal capitale variabile, che è quanto dire, in termini marxiani, dal pluslavoro altrui non pagato e dal capitale costante. Chiaramente una simile teoria del salario come reddito può allignare solo nel campo delle analisi, di stampo marginalistico vecchio e nuovo, dell’economia politica borghese. Si tratta pertanto di una teoria che svincola il “reddito” salariale dalla forza-lavoro come merce dal suo valore e perfino dal lavoro medesimo (si pensi al cosiddetto “reddito di cittadinanza”), pretendendo così di escludere dalla scena l’analisi di classe e la lotta di classe. Sennonché una rappresentazione scientificamente esatta della realtà economica ci dice che qualsiasi “reddito” dei lavoratori non può che provenire dalla capacità di incidere sul plusvalore, positivamente (lavoro produttivo) o negativamente (lavoro improduttivo). Questo significa che la fonte di quel reddito salariale è rintracciabile soltanto o nell’ammontare del valore globale prodotto (qui entra in gioco l’uso della forza-lavoro) o nell’adeguamento del valore di scambio della forza-lavoro, e in nient’altro, poiché il capitale non regala niente. Del resto, se i mezzi di sussistenza (sotto qualsiasi forma e a qualsiasi titolo ottenuti: per contratto, per legge o per assistenza) non fossero capitale, non manterrebbero la forza-lavoro dei lavoratori salariati. E qui, tanto per fare un esempio illuminante, entrano in gioco la pratica e l’ideologia della “casa in proprietà”, laddove quello che è un costo di riproduzione della forza-lavoro viene interamente assunto dai lavoratori stessi, acquirenti più o meno coatti e più o meno manipolati della merce-casa, riducendo in pari misura il loro salario, nonché convertito in sostanziosi guadagni per la rendita edilizia, per il capitale commerciale e per il capitale industriale. “Sic stantibus rebus”, perché Seminerio non prova a correlare tra di loro la curva dei costi unitari del lavoro e la curva dei mutui per la casa? C’è forse il caso che scopra un’altra importante interdipendenza, capace di spiegare, nella sua ottica di sicofante della borghesia, la (non-)predazione capitalistica, mentre è il carattere di capitale – e non di reddito –, che è costitutivo dei mezzi di sussistenza, il fattore che dà ad essi, precisamente, la proprietà di mantenere il capitale stesso per mezzo di lavoro altrui. In definitiva, la massa dei mezzi di sussistenza che i lavoratori riescono a sottrarre al mercato dipende dal rapporto tra il plusvalore e il valore della forza-lavoro e tra questo capitale variabile e quello costante: non si tratta, cioè, originariamente di reddito. Il salario è prima capitale, che solo dopo lo scambio si trasforma in reddito per i lavoratori, così come la loro forza-lavoro è prima merce di loro proprietà che solo dopo lo scambio, con il suo uso, si trasforma in capitale autovalorizzantesi.
RispondiEliminaUn fabbisogno sempre crescente di redditività del capitale, deindustrializzazione accompagnata da una tendenza al ribasso degli incrementi di produttività, eccetera. Dall’altro il capitalismo azionario, che ridistribuisce gli utili a favore degli azionisti a scapito dell'occupazione e dei salari (ogni anno si battono i record per il pagamento dei dividendi), basti pensare che in Europa la quota di valore aggiunto distribuita ai dipendenti è in calo dagli anni '80 per passare dal 68% al 60% circa di oggi.
EliminaNon temere, non ti ammorberò con il declino del tasso di profitto e con capitale variabile e costante. Ti intratterrò invece su Seminerio e OCSE. I dati OCSE sono una bufala. Sono dosati temporalmente per individuare gli effetti del Covid (intervallo fra Q4 2019 e trimestre più recente disponibile) e sono "unitari". Avrebbe senso il dato unitario su costo lavoro e profitti se fosse costruito bottom up. Invece è top down, ossia dai dati delle trimestrali. Come si arriva quindi ai costi e profitti unitari? semplicemente per via parametrica, probabilmente in base alla variazione del PIL.Quindi, se c'è una variazione in meno del PIL, si ha una suddivisione su un numero inferiore di unità, e quindi sia i costi del lavoro che i profitti si incrementano di più. Anche gli stipendi dei funzionari OCSE aumentano. Ignoro invece cosa accada al reddito di Seminerio, che comunque, in rapporto a quello che vale, è sempre tendente all'infinito.
RispondiEliminaneanche tra homoousios e homoiousios. trecartari
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