lunedì 10 luglio 2023

Essere chiari

 

La “regolazione dei flussi” presuppone che si risponda in modo ragionevolmente chiaro e preventivo alla domanda: quel mezzo milione di persone, che da immigrati irregolari diventeranno immigrati regolari e tenuto conto dei ricongiungimenti famigliari, dov’è previsto di alloggiarli, a quali medici di famiglia affidarli, in quali pronto soccorso affollarli, in quali ospedali ricoverarli, in quali scuole alfabetizzarli e istruire i loro figli, insomma in quali strutture e con quale personale aiutarli, sostenerli e “integrarli”?

I relativi oneri sociali saranno a carico dei signori imprenditori, dei subappaltatori, delle false cooperative oppure, come sempre, prevalentemente a carico di chi viene derubato “alla fonte” fino all’ultimo centesimo? Quanto all’impiego di questa forza-lavoro, è bene tener presente che alla lunga l’insoddisfazione economica e sociale può generare violenza, come dimostrano fatti anche recenti.

Quale sarà la loro distribuzione nel territorio? Eh sì, perché i dati globali non descrivono le singole situazioni urbane, ossia le concentrazioni locali e tantomeno l’origine della popolazione che vi abita. È ovvio che le grandi città hanno una popolazione molto più eterogenea rispetto alle cittadine di medie o piccole dimensioni, e dunque anche a queste realtà bisogna prestare attenzione, ma è altresì vero che la concentrazione migratoria in determinati quartieri delle metropoli crea altrettanti e forse più gravi problemi.

La questione della residenza pone quella dell’integrazione, o meglio, quella della socializzazione nelle comunità locali, con riguardo al rispetto delle regole e dei costumi che ci permettono di vivere insieme, poi della partecipazione, più o meno attiva, a queste comunità. Più facile a dirsi che a farsi.

L’immigrazione porta, di fatto, a grandi problemi e difficoltà. Integrazione è una parola infelice, perché non si sa bene a che cosa alluda e come dovrebbe essere realizzata (la diversità culturale non è l’unico problema, a ogni modo mi dovrebbero spiegare, per esempio, come la mettiamo, almeno di principio, con la parità tra uomini e donne). Non tutti gli immigrati vogliono essere aiutati ad “integrarsi” o, peggio, essere obbligati a farlo. Forse basterebbe dire “socializzazione”, che sarebbe già tanto, poiché le spiccate diversità impediscono, in una visione realistica delle cose, un’ampia e concreta “integrazione”. E però non basta sostituire una parola con un’altra per veder mutare i problemi, ma se non altro aiuta a porli nella loro giusta dimensione e prospettiva.

Le decisioni prese dai vari governi non richiedono né troppa vergogna né troppa gloria, ma, come dicevo in premessa, è necessario essere chiari e non farne una questione ideologica e di parte politica.

7 commenti:

  1. Tutto ciò accade perché si vive ad una sola dimensione, quella economicista (per giunta dominata da strettissime minoranze in competizione).
    Chissà se questa follia avrà tra le sue scorie secolari anche la disillusione.
    (Peppe)

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  2. Non vorrei essere noioso, visto che l'ho già scritto qui: ma urge un'indagine a tappeto fra quelli che predicano accoglienza e integrazione e hanno figli o nipoti a scuola. Quanti hanno i loro adorati marmocchi in classe con 5-10 figli di immigrati?
    (No, il figlio del console americano non vale)

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    1. 🤭 dubito figlio personale diplomatico US frequentino scuola italiana

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    2. Stai leggendo kulikowski che avevo consigliato?

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    3. Stai leggendo kulikowski che avevo consigliato?

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    4. Sai che seguo sempre i tuoi consigli bibliografici, ma ti devo anche informare che ho una lunga coda da gestire.

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    5. Non ho parlato di scuola italiana. Prendi un coglionazzo che sproloquia in TV, chiedigli quanti extracomunitari sono compagni di scuola del figlio. Capita che risponda sinceramente 15, perché il figlio sta a Eton.

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