mercoledì 29 aprile 2015

La prospettiva di Renzi


Stavo rileggendo alcune pagine del libro di Eduard Bernstein (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, 284 pp.) e pensavo se i vari D’Alema e Bersani avessero mai letto questa raccolta di saggi che per loro dovrebbe rappresentare se non proprio la bibbia quantomeno il loro De civitate Dei contra Paganos, laddove i pagani sarebbero quei passatisti nostalgici del marxismo. E però Bersani e C. hanno cose di ben altro momento cui pensare, specie in queste ore. Dopo una lotta durissima contro la destra berlusconiana ora devono prendersi briga della creatura che gli è nata in casa. Per quanto protestino la loro estraneità, quella creatura ha tutti i tratti di famiglia.
*

Dopo oltre un secolo di revisionismo possiamo ben vedere quali sono i risultati e dunque i limiti invalicabili oltre i quali le magnifiche sorti e progressive del riformismo non ci possono portare. Basterebbero pochi numeri relativi alla crisi come si presenta qui da noi per averne un’idea: tra il 2007 e il 2014, la disoccupazione è aumentata del 108,2 per cento e ha sbranato il potere d'acquisto di moltissime famiglie. Siamo diventati il Paese con la più alta percentuale di giovani fra i 15 e i 24 anni che non lavorano e non studiano, dal 16,2% del 2007 al 22,2% del 2013. Le regioni del sud hanno visto un peggioramento della disoccupazione di circa il 100%, ma in altre del centro nord le ripercussioni calcolate sull'intero periodo sono connotate da numeri molto più elevati: la Lombardia +163%, il Piemonte +174,38% e l'Emilia-Romagna +286,06 per cento. Oltre all'incremento della disoccupazione, si è avuto anche il calo del 4,78% dell'occupazione che dal 62,8 del 2007 è passata al 59,8 del 2013 e poi ancora giù al 55,7% nel 2014.

*

martedì 28 aprile 2015

Non più di quanto


La questione dev’essere seria se perfino uno come Marco Travaglio, che non ha di mira altro progresso umano che la conservazione del sistema schiavistico esistente, parla di “non collaborazione” e cita quello che secondo lui sarebbe il papà dell’anarchia, cioè Etienne de la Boétie. E chi sarebbero quelli che non dovrebbero collaborare? Gente che non si è mai disturbata delle mille forme di tirannia esercitata sulla vita delle masse a tutti i livelli. 

La prima forma di non collaborazione, ad essere radicali e conseguenti, dovrebbe essere quella di non collaborare con le istituzioni politiche che garantiscono la riproduzione della formazione sociale capitalistica. Ma temo che questa premessa sia quanto di più lontano possa venire in mente a Travaglio (e non solo a lui). Il suo discorso è volto alla logica interna delle istituzioni del sistema, indipendentemente dalla base economico-sociale su cui poggia.

Il giornalista per non collaborazione intende riferirsi a quella minoranza interna al Pd che dice di non essere d’accordo con la nuova legge elettorale imposta dal loro segretario di partito e presidente del consiglio. E dunque non è assolutamente in discussione la collaborazione con lo Stato come organizzazione che le classi dominanti si sono date per difendere i loro privilegi particolari, i loro particolari interessi rappresentati come generali e universali.

Non è in discussione la questione del potere politico quale questione del dominio di classe, ma una legge con la quale viene nominato il corpo parlamentare che formalmente è delegato a elaborare, discutere e approvare le leggi. E difatti Rosy Bindi è preoccupata che questa nuova legge elettorale possa favorire una formazione politica “anti-sistema”, non tanto per paventare un pericolo di involuzione autoritaria ma piuttosto il pericolo dello scassamento di gente come Grillo.


Dovremmo preoccuparci? L'involuzione autoritaria è già nei fatti da tempo e ciò che prevede la nuova legge elettorale e la modificazione della costituzione che viaggia in parallelo, non è altro che la formalizzazione di un programma politico che è il risultato della morte della sinistra in Italia, fosse essa di opposizione o di alternativa, dal momento che ha fatto proprio il punto di vista della destra. È una faccenda che ha radici molto lontane. Dunque ci dobbiamo preoccupare, ma non più per quanto avviene su un piano più generale.

«Il sapore dell’Impero, il sapore del sangue»


Il capitalismo diviene imperialismo capitalistico a un determinato stadio del suo sviluppo, ossia come necessità del capitale di conquistare e controllare nuovi mercati di smercio e le fonti di approvvigionamento delle materie prime. La libera concorrenza lascia il posto al monopolio che elimina la piccola industria, concentra la produzione e il capitale industriale si fonde con la finanza. L'imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo.

Molti commentatori moderni “dimenticano” il ruolo dell’imperialismo americano nel XIX secolo. Dopo il post sulla conquista e annessione delle Hawaii, racconto per sommi capi la vicenda di Cuba e delle Filippine (1).

Il 15 febbraio 1898 una nave da guerra degli Stati Uniti d’America, il Maine, esplose e affondò nel porto dell’Avana con la perdita di 260 vite. Non si seppe mai la causa dell’esplosione e tuttavia si volle vedere in essa il vile e deliberato gesto di un complotto spagnolo. Del resto, la voglia di guerra contro la Spagna era già stata fomentata negli Usa per tempo. L’eccitazione generale per la guerra, come solito, era sostenuta soprattutto dalla stampa padronale. Così l’esprimeva il Post: “siamo animati da una passione nuova […] La gente si sente in bocca il sapore dell’Impero, così come nella giungla si sente il sapore del sangue”.

lunedì 27 aprile 2015

Nuovi incentivi


Con la caduta del Muro si è imposta l’idea che lo stato attuale delle cose sia destinato a durare in eterno. Poi, con la crisi, s’è fatta strada l’idea che in questo sistema sociale vi siano delle cose sbagliate e che si possa porvi rimedio per via politica con delle riforme. Si è ben visto che le più recenti conquiste tecnologiche stanno sconvolgendo la società, e però non c’è una sola riforma del lavoro che accenni anche solo di striscio alla riduzione della giornata lavorativa. Su questo tema è stato imposto il silenzio.

Questo è uno dei tanti esempi che provano come in questo sistema ciò che conta sia una cosa sola. La balla sui giovani disoccupati che avrebbero declinato un lavoro all’Expo è esemplare. Sì, forse tra questi disoccupati vi sono dei fannulloni, ma mai quanti se ne annidano nelle fila della borghesia, mai quanti tra gli affaccendati nei consigli d’amministrazione, tra i trafficoni di ogni specie, i coglioni dei media.

Perfino l’aumento della durata media della vita sta comportando degli sconvolgimenti le cui conseguenze non sono state valutate fino in fondo. Per esempio sul piano della riproduzione degli attuali rapporti sociali di cui la disoccupazione crescente è solo un aspetto. Aspettiamoci che l’eutanasia non solo diventi legale ma sia premiata con incentivi ai “superstiti”.


Chissà quali valori terrestri e cosmici la borghesia saprà inventarsi per il superamento della vecchia tipologia di “essere umano”.

Non può essere diversa


Con un lunedì che adombra l’autunno è meglio star sul leggero, almeno il mattino, lasciar perdere la dialettica dell’ambiente umano e dar sfogo a uno scontento generico, ai luoghi comuni. Dunque spego la tv e mi metto a considerare che un tempo avevamo i maître à penser e oggi invece i master chef. Quella che fu la crème intellettuale è diventata un gratin. È un adeguamento a quello che chiamano target.

A proposito di cucinieri, sono secoli ormai che le cucine sono scomparse per diventare angoli cottura, per non dire che quando entri in un appartamento sei già (senza il quasi) in camera da letto. Alle osterie hanno messo davanti l’acca e al conto hanno aggiunto uno zero, quanto ai ristoranti di ogni ordine e degrado sono diventati luoghi infrequentabili, ma per trovar posto devi prenotare.

A riguardo dell’ambiente umano, diceva la conduttrice televisiva, la settimana scorsa a Fuori Tg, che si costruiscono sempre nuove città. Dove, ma quali città? Periferie. Se la prendono con il sindaco Marino per com’è ridotta Roma. Hanno ragione, ha scelto lui di fare il capro espiatorio. Avesse detto in campagna elettorale con sincerità e realismo: una città non può essere diversa dalla gente che la abita, così come un paese da chi lo governa.

domenica 26 aprile 2015

La colpa è dei Longobardi


Rade volte risurge per li rami
l’umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.

Eugenio Scalfari, nel suo consueto editoriale, ricostruisce lungamente la storia d’Italia dall’Unità fino ad oggi, e parla diffusamente della guerra e della Liberazione. Scrive “di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l'ha riscattato”. Le solite cose. Afferma ancora: “gli italiani distrussero il loro Paese”. Ma questi “italiani” chiamati rei da Scalfari non hanno corpo, fisionomia sociale e politica. È pur sempre un’ammissione che il fascismo non fu un fenomeno meteorologico, ma manca il richiamo a identità sociali, alle responsabilità dirette di classi e di gruppi, non vi è traccia di espressioni quali: classi dirigenti, borghesia, agrari, clero, latifondisti e proprietari di giornali, eccetera. Chi diede appoggio e denari a Mussolini?

Del resto, si potrebbe obiettare che ieri si ricordava la Liberazione, non la nascita del fascismo, non la lunga dittatura e gli strascichi di ogni genere che il regime ha lasciato e dei quali troviamo ancora molte tracce a settant’anni dalla sua fine. Scalfari elude le responsabilità oggettive in capo alle classi dominanti, preferisce scaricarle genericamente sugli “italiani”, i quali agirebbero così per il fatto che l’unità del paese arrivò tardi. Perciò la corruzione, la mafia, la crisi politica e istituzionale, tutto discende da lì, dice sicuro. Eh già, la colpa è degli austro-ungarici, dei borboni, degli angioini, magari dei saraceni e forse forse prima ancora del papato che si oppose ai disegni egemonici dei Longobardi.


E lui, Scalfari, in quei giorni del settembre 1943, prendeva il treno, salutava gli amici del liceo, tutta gente in gamba naturalmente. Borghesia di provincia, come Calvino e il suo papà che di fascismo sapeva bene. Dove andava in età di chiamata alla leva? Fuggiva. Sui monti non l’hanno visto, né altrove. Sul suo conto che avesse ragione Carlo Scorza, allora vicesegretario del PNF?

sabato 25 aprile 2015

Come la grandine


Mi chiedo, ascoltando con un marcato senso di fastidio certa retorica evocativa, che senso abbia oggi celebrare il XXV aprile. È giusto per mantenere viva la memoria di quei giorni, ma sarebbe anche doveroso ricordare e rimarcare le responsabilità collettive per il lungo e convinto sostegno dato a Mussolini, e quelle gravissime di chi favorì concretamente la sua dittatura. Responsabilità quest’ultima ascrivibile senz’altro alle classi dominanti di questo paese (agrari, industriali, finanza, Chiesa, esercito, élite professionali, ecc.), che in perfetta continuità sostanziale hanno poi dominato la scena economica e sociale del dopoguerra e si sono opposte al cambiamento con ogni mezzo, anche con le stragi.

Perché a sentire le rievocazioni odierne, come in gran parte già quelle del passato, sembra che il fascismo sia stato qualcosa piovuto dal cielo, improvviso come la grandine.

*

La tragedia delle classi sfruttate è di essere capaci di concepire l’idea di una società più giusta ma di non riuscire a realizzarla almeno fino a quando non vi saranno sospinte da incoercibile necessità.


Dal canto suo, la borghesia, forse più delle classi dominanti del passato, s’accorge dell’ingiustizia sociale e dei suoi torti, a volte giunge a individuarne anche le cause, più spesso le elude e vi passa sopra, ma non si riconosce mai responsabile dei suoi fallimenti e anzi giustifica se stessa e il suo potere sostenendo che questa è la migliore società possibile, salvo aprire le porte, quando si sente in pericolo, alla reazione e ai fascismi.

Il ruolo della tecnologia nel cambiamento


L’introduzione e lo sviluppo delle macchine nel processo produttivo si presenta come forza rivoluzionaria e ciò appare al senso comune come il motivo più caratteristico del modo di produzione capitalistico rispetto a tutti i modi di produzione precedenti. E che ciò sia vero nessuno può negarlo. L’intelligenza pratica intuisce i motivi della spinta allo sviluppo tecnologico, cioè come effetto della dinamica del processo di valorizzazione del capitale, ma non ne coglie la dialettica interna (e non è qui il caso di ripetere cose già dette).

Tutte le trasformazioni avvenute nei modi di produzione precedenti non hanno mutato sostanzialmente i rapporti di produzione, limitandosi a sostituire una forma di proprietà ad un’altra, una forma di sfruttamento con un’altra: dalla proprietà schiavistica, alla proprietà feudale, alla proprietà capitalistica; dallo sfruttamento degli schiavi, allo sfruttamento dei servi della gleba, allo sfruttamento degli schiavi moderni.

Qualunque fosse il livello di affrancamento e di benessere raggiunto dall’antico schiavo e dal servo della gleba, essi non erano mai effettivamente liberi dai propri obblighi e doveri verso i loro padroni. Ci vollero secoli di lotte e di rivoluzioni per liberarli dal giogo di tale schiavitù e a ciò contribuì in modo decisivo lo sviluppo economico e l’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Tuttavia ciò ebbe come risultato immediato il fatto che le condizioni materiali di lavoro si presentassero non appartenenti all’operaio ma al capitale, con la sottomissione dell’operaio e l’assorbimento del suo lavoro.

venerdì 24 aprile 2015

Addavenì ‘natro Baffetto



Giunge notizia che il parlamento ucraino, non avendo nient’altro di cui occuparsi, ha approvato una legge che equipara come regimi criminali il nazismo e quello che chiamano comunismo. Ciò che mi chiedo è se un ipotetico parlamento ucraino, nel 1941, 1942, eccetera, posto che avesse tutta la libertà di cui crede godere oggi, avrebbe approvato una simile legge e alla luce di qualunque fatto storico reale, presunto o anche solo immaginato. Mi chiedo anche se l’idiosincrasia per il fantasma del comunismo, di cui fanno mostra gli editorialisti di memoria corta, è dovuta all’oscura fatalità della loro vita alienata oppure deriva da una concezione del mondo in cui lo sfruttamento e la miseria pianificata in tutti i suoi aspetti è da aversi per sempre. 

La lotta


Nel tempo lungo si è visto come il riformismo abbia perso la sua scommessa con la storia, come infine si sia prodotta una fusione sostanziale tra gli interessi del capitale e la politica. Com’è potuto avvenire? Era già nelle premesse. Quel tipo di politica delle “riforme”, che puntava nelle magnifiche sorti e progressive del capitalismo riveduto e corretto, era garantita dal ciclo economico espansivo, e non già di per sé dalla forza delle idee e di un progetto.

Se il riformismo non è più tale nemmeno nominalmente perché ha reciso ogni rapporto con le questioni dei diritti e delle tutele, privo di un progetto di società, è perché quell’idea di riforma del capitalismo era una mistificazione della realtà laddove a dominare sono determinati e non eludibili rapporti di produzione. Le dinamiche della globalizzazione non possono essere validamente contrastate sul piano delle politiche riformistiche, sul tipo facciamo pagare le tasse ai ricchi, alle multinazionali.

giovedì 23 aprile 2015

Fiore profumato


In questi ultimi tempi ho ascoltato le dichiarazioni di Bersani, D’Alema e ieri sera della Bindi. Or bene, se si è arrivati a questo punto, con questo Renzi al comando del paese, qualche responsabilità il vecchio gruppo dirigente del Partito democratico se la deve assumere, o no? E invece non si sente levare non dico un mea culpa, ma nemmeno una presa di distanza che sia chiara e netta su questo pericoloso talento oratorio che simula l’azione e anche il pensiero.

Come scrivevo ieri, non si ha il coraggio di nominare le cose con il loro nome. Né l’onestà di dire, appunto, come si sia giunti a questa situazione, cioè di non essere più nulla. Credevano di avere loro il monopolio della riflessione, di una concezione generale. Sì, s’è visto quale. Si è passati dal morettiano “D’Alema dì qualcosa di sinistra”, al D’Alema che parla del suo vino non avendo, evidentemente, altro da dire se non luoghi comuni infarciti di litote.

Prima ancora che del comunismo stalinista è naufragata, perdendo di senso, l’ideologia riformista che non può competere alla pari con quella che invita la classe operaia alla spensieratezza tra gli scaffali del bazar del benessere plebiscitario. In fin dei conti è stata questa la forza di Berlusconi, e Renzi con i suoi proclami, gli 80 euro e i tesoretti non fa che confermare quelle illusioni. Lo dicono tutti che la tecnica di marketing è la stessa.


mercoledì 22 aprile 2015

Sì, ma chi?


Politici, economisti, sociologi, psicologi, filosofi, sindacalisti, specialisti di opinione pubblica, e tutti gli altri imbecilli che puttaneggiano con il potere, evocano continuamente i “problemi gravissimi” guardandosi bene, tuttavia, dal nominarli col loro vero nome. Ogni volta che i padroni dell’alienazione chiedono di annusare un nuovo fenomeno con cui si manifesta la stessa crisi, loro che adorano le definizioni e le etichette, sfuggono dal nominare i problemi con il loro nome ben consapevoli che la loro “scienza” non può risolverli ma che non vogliono che alcun altro pronunci diagnosi e cure diverse.

Essi sanno bene che la nostra innominabile società di classe, che era già in passato essenzialmente inabile a risolvere le proprie contraddizioni, ora è diventata visibilmente un anacronismo e che per sopravvivere sta trascinando l’umanità intera in nuove e sempre più ampie tragedie. Del resto, il mestiere di questi delinquenti della politica e della comunicazione ufficiale, consiste ormai nel mostrarsi necessari ai loro datori di lavoro. Ciò che dovrebbe sorprendere, a fronte di ripetuti fallimenti e analisi sbagliate, è il credito che simili specialisti continuano a riscuotere, se non fosse per il desolante quadro di decomposizione in cui versa la coscienza pubblica.

Vogliono bombardare i “barconi”. Come solito si punta all’effetto più che alla sostanza, alla febbre e non alla causa, confidando in una suppostina miracolosa e ancor più a guadagnare tempo. Speriamo non bombardino i “barconi” con la stessa precisione con la quale si è sparato ai pescatori indiani. In tal caso la colpa sarà dei piloti, mostrando una volta di più l’incapacità e la viltà di cui sono capaci delle classi dirigenti che si trovano a non funzionare più nel momento stesso in cui la loro funzione è messa universalmente in discussione.

*

martedì 21 aprile 2015

L’alibi di parole


Chi ha interesse a promuovere conflitti locali e la guerra di tutti contro tutti? Dicono di voler esportare le loro virtù esemplari che però non mancano mai di distruggere i valori umani a vantaggio di quelli del capitale. Quale migliore condizione quella del caos per saccheggiare il pianeta impunemente? La violenza è ovunque ed è endemica, stimolata e prodotta da un sistema economico strutturato sul debito e la frode, che dissipa le risorse del pianeta, impoverisce e minaccia la vita e la stessa sopravvivenza umana.

Che cosa sarà mai la democrazia, la libertà di pensiero se non c’è libertà dal bisogno, dunque libertà di vivere dignitosamente? Invece prevalgono le leggi dei mercanti su quelle delle nazioni e dei popoli. Si è deciso che ciò che più conta è il profitto, al quale non si può togliere nulla. La menzogna è enorme, perciò la nostra indignazione è sospetta, molto sospetta. È con il nostro consenso che una classe politica corrotta e fallita governa. Essa è lo specchio fedele di una società immersa nella volgarità, nella banalità, nel torpore mentale e nell’imbecillità. Moralmente atrofica.

La schizofrenia sociale, non solo quella degli Anders Breivik, è un prodotto dello stato d’animo di quest’epoca. Incoraggiata o meno da motivazioni religiose o ideologiche, ha origine nel degrado, nella disperazione, nella noia e frustrazione, nella sensazione di essere in una trappola dalla quale si crede di potersi liberare solo con un grande salto nel nulla.


È stato dunque questo il prezzo per un benessere in gran parte demenziale e che ci sfugge. La paura per l’oggi ci fa piegare la schiena come in epoche che sembravano dimenticate, e l’angoscia per il domani ci fa piegare anche le ginocchia. Il tutto giocato con false parole. Non è vero che esse uccidono, le parole servono da alibi agli assassini.

Metafore


I barconi che affondano sono l’esatta metafora di un sistema sociale e politico al naufragio. I barconi affondano in mare e il sistema naufraga nell’ipocrisia, nella sostanziale indifferenza, nella sazietà esibita nel sorriso furbo e satollo dei tanti Farinetti, di Vinitaly, Expo, Eataly, Masterchef del cazzo, delle eccellenze lipidiche e nelle fobie colesterolemiche. Naufraga nei predicozzi dei papi e nei jihad degli imam, nelle missioni di pace, nelle bombe intelligenti, nei droni e degli effetti collaterali in bianco e nero, nei tanti Sarkozy, Obama e Hillary Clinton a piede libero, nei blocchi economici, nei disboscamenti e monocolture intensive, nella siccità e nella miseria pianificata, nel rigore liberista, nel giochino degli 80euro e nei tesoretti, in un sistema di apartheid globale, nel mito dello scambio libero e del lavoro che è solo schiavitù.

Dal 1990-1991 la classe dirigente americana, un’oligarchia di ladri e alienati, è impegnata in una guerra continua nel tentativo di dominare le regioni ricche di petrolio del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e del Nord Africa. Queste guerre hanno distrutto stati e intere comunità, con sofferenze umane indicibili, fomentato un abisso di odio e di terrore. Le classi dirigenti, i partiti politici e tutte le istituzioni ufficiali del capitalismo americano e europeo sono implicati in questo crimine storico, o perché difendono gli interessi imperialisti delle multinazionali e delle banche o per sostanziale acquiescenza.

Questi annegamenti hanno la funzione di deterrente contro chi di là del mare si propone l’attraversata. Restiamo sostanzialmente indifferenti, o impietriti dalla brutalità di ciò che avviene, rintanati a casa nostra davanti al televisore, preoccupati per il lavoro, il padrone che si fa chiamare imprenditore, la bolletta da pagare. Da quasi tre decenni gli imperialisti impongono ciò che vogliono, e quando c’è stato qualche timido tentativo di opporsi, fosse pure attraverso manifestazioni pacifiche, hanno usato i corpi speciali di repressione per pestare e terrorizzare, i tribunali per processi scandalosi, le minacce per chi osasse anche solo pronunciare delle parole. E tuttavia, andiamo in massa a votare, fatti convinti che questo sistema attraverso il voto si possa cambiare. Quale disperata illusione più sciocca di questa?


Più che a manifestare contro la guerra marciamo a fianco di essa, di buon grado, e non manca qualche entusiasta.

lunedì 20 aprile 2015

Imperialismo Usa. Un caso di scuola: le Hawaii


Credo che non si possa non tenere in considerazione Henry Kissinger come uomo di cultura, storico della diplomazia e saggista. Nei suoi libri mostra una grande padronanza degli argomenti trattati, un’acuta capacità d’analisi e di sintesi che si accompagnano a uno stile letterario molto efficace che si caratterizza, per esempio, nell’uso non convenzionale e consapevole della tautologia: «La guerriglia vince se non perde; un esercito convenzionale perde se non vince»; «Uno dei principi fondamentali della guerriglia è che per vincere basta non perdere; un esercito regolare, invece, per non perdere deve vincere».

È in questi giorni nelle librerie italiane l’ultima sua fatica: Ordine Mondiale. Inizia con una perorazione ideologica per mascherare una mistificazione. Egli sostiene, a ragione, che gli Stati Uniti nel dopoguerra si sono adeguati a promuovere tra le nazioni un “ordine cooperativo in inarrestabile espansione” in osservanza di “regole e norme comuni, che abbracciano sistemi economici liberali, che rinunciano a conquiste territoriali, che rispettano la sovranità nazionale e adottano sistemi di governo partecipativi e democratici”.


domenica 19 aprile 2015

Per fortuna


Immaginiamo che quei 700 annegati nel Mediterraneo fossero dei croceristi europei: tedeschi, francesi, olandesi, d’immancabili italiani e giapponesi, più una spruzzatina di asettici elvetici. A Lampedusa accorrerebbero la Merkel, Holland e altri capi di stato e di governo, con Renzi primo violino. Con una cerimonia di grande commozione sarebbero deposte tra i flutti corone di fiori, pronunciati discorsi brevi ma di struggente cordoglio, giungerebbero messaggi da ogni angolo del mondo, presentate interrogazioni in ogni assemblea elettiva d’Europa, abbrunate bandiere, eccetera. Per tre giorni, quelli di lutto, sarebbe sospesa la réclame di Costa e MSC crociere. Cacciari, intervistato dalla Gruber, direbbe che quel tipo di tragedia egli l’aveva prevista ancora negli anni Sessanta quale prodotto inevitabile dell’età delle masse e della crisi della sinistra. Giulietto Chiesa subodorerebbe un intrigo americano. Olympe de Gouges nel suo blog metterebbe in relazione l’assenza di adeguate misure di sicurezza con la necessità delle società crocieristiche di contrastare la caduta del saggio di profitto. La Santanché, una che non apre mai bocca senza sottrarre qualcosa al patrimonio della conoscenza umana, chiederebbe di quale colore fosse la pelle del comandante della nave. La signora Le Pen e il signor Salvini per una volta non chiederebbero l’invio di portaerei ad incrociare le acque del Mare Nostrum, ma di vietare il turismo verso mete extraeuropee.


Per fortuna si tratta invece di negri e (quasi) tutte queste cose ci saranno risparmiate.

Strani intrecci

«Noi siamo spietati, non vogliamo riguardi da voi. Quando sarà il nostro turno non addolciremo il terrorismo. Ma i terroristi regi, i terroristi per grazia di Dio e della legge, nella prassi sono brutali, nella teoria sono vili, reticenti, falsi, e sotto entrambi gli aspetti sono spregevoli.»  (*)

°°°

Quando in tv rievocano l’uccisione dell’ultimo zar e della sua famiglia, mi commuovo fino ad avere gli occhietti lucidi. Poi però penso, per citare un esempio noto al pubblico colto e all'inclita guarnigione, alla “domenica di sangue” del gennaio 1905, quando le truppe zariste spararono contro una folla di pacifici operai venuti davanti al Palazzo d’Inverno con una petizione allo zar per ottenere la costituzione. Ne uccisero circa un migliaio, molti altri furono i feriti. Allora mi sovvengono le parole scritte da un giovane rivoluzionario nel 1849, e sono quelle poste qui in esergo. Tredici anni dopo quella domenica di terrorismo regio giunse il turno di agire senza abbellimenti e anzi con molta sobrietà.

*

venerdì 17 aprile 2015

Una questione così vecchia che sembra nata oggi


Questo lungo post si compone di una prima parte che accenna a una ricostruzione storica degli aspetti politici della vicenda di quello che è stato chiamato “revisionismo”, cui doveva seguire una parte “teorica” a riguardo dei nessi causali tra la crisi del modo di produzione capitalistico e le conseguenze sul piano geopolitico. Questa seconda parte era più lunga della prima e perciò ho deciso di stralciarla lasciando infine solo un cenno.

Il richiamo alla vicenda storica del revisionismo mi serve per mettere a giorno le motivazioni dalle quali è nata la sua contrapposizione al marxismo, posto che sul piano della vicenda storica del Novecento il revisionismo e con esso il riformismo appaiono come i veri vincitori della contesa con il marxismo. Tuttavia, come dirò in seguito, a considerare le cose dappresso, cioè alla luce degli accadimenti dell’ultimo secolo, se il riformismo, quale espressione politica, e il revisionismo, quale fondamento teorico, sembrano aver vinto, ciò sta nella misura in cui la collaborazione con la borghesia è servita a rendere la classe dominante più forte e il suo potere assoluto, senza peraltro risparmiarci immani tragedie (passate, presenti e ... future).

Ciò che il revisionismo e il riformismo non possono occultare della realtà del modo di produzione capitalistico sono gli effetti della contraddizione fondamentale che sta alla base del processo di valorizzazione del capitale, i quali si esprimono, come sempre, con la crisi. Quella in corso presenta caratteri di persistenza e dinamiche economico-sociali complessive che a tratti la distinguono dalle precedenti. Il disorientamento in cui è piombato l’establishment politico e il fallimento di ogni previsione degli economisti borghesi ne costituiscono una presa d’atto.

Solo alla luce del marxismo le cause e i fenomeni della crisi del modo di produzione capitalistico trovano risposta sul piano scientifico.

*

giovedì 16 aprile 2015

Magnifiche e progressive, no?



Ecco, ora a questi lavoratori applicate lo Jobs Act.



Dell’altro “oppio” anche a questi, per tirarli su.

mercoledì 15 aprile 2015

A schiavitù crescente


Caspita se le parole sono importanti. Servono a dissimulare la realtà. Perciò i padroni conoscono molte più parole degli schiavi, ma soprattutto le combinazioni creative del linguaggio. Chi domina la comunicazione sociale comanda anche su tutto il resto. Che significa, per esempio, un’espressione come: a tutele crescenti? Nel linguaggio della vita reale vuol dire che i lavoratori non hanno gli stessi diritti e le stesse tutele. Che ognuno i diritti e le tutele se li deve sudare, laborioso e obbediente, sperando nella buona stella e nell’estro del padrone, non meno che nella “contingenza”, cioè nelle variabili della “crisi”.

E a proposito di tutele, tenendo presente che il padrone, sia esso presente in carne ed ossa o un trust con sede legale chissà dove, può licenziare in qualunque momento, privandoti dei mezzi necessari per vivere. Con una semplice lettera raccomandata, prestampata. Se hai una certa età, la speranza di raccattare un nuovo lavoro a schiavitù crescente diventa chimerica, ed ecco allora intervenire il presidente dell’Inps, il quale propone un “sussidio” per gli “over 55”. E dunque il lavoro non è più (ma lo è mai stato?) un diritto, e per far fronte all’“aumento della povertà” (e per alleggerire le statistiche della disoccupazione giovanile) si provvederà con l’elemosina. Del resto non era la stessa cosa per le plebi dell’antica Roma? Si torna indietro, di qualche anno.

In altri termini, quello che gli specialisti dell’ideologia vogliono effettivamente dissimulare è un fatto assai semplice, e cioè che i membri proletarizzati della formazione sociale capitalistica sono costretti a procurarsi i mezzi per la propria sopravvivenza entro le sfere di attività disegnate dal movimento del capitale. Non ci si rende conto abbastanza, nel frastuono mediatico cui siamo sottoposti, del fatto che nonostante gli enormi sviluppi tecnici e scientifici, il lavoro resta un puro e semplice mezzo per l’esistenza del lavoratore, anzi un mezzo coatto che coarta la sua attività ai fini della valorizzazione del capitale. E d’altra parte la stessa divisione sociale del lavoro non risponde ad esigenze funzionali o tecniche, ma anzitutto a quelle costitutive di tale valorizzazione. E con ciò il rapporto del lavoratore con il proprio lavoro estraniato perde ogni carattere di libertà, essendo il lavoratore scelto dal lavoro nel quadro delle finalità poste dal movimento del plusvalore.


Ma non vorrei insistere troppo su concetti che all’epoca nostra ci viene detto siano quantomeno “astratti”.

martedì 14 aprile 2015

“Oh Capitano! Mio Capitano!”


Il 3 aprile 1865, le truppe nordiste avevano, al terzo tentativo, occupato la città di Richmond, capitale dei confederati, dove si trovavano le truppe migliori degli Stati sudisti.  Il generale Grant, per quanto riguardava la disposizione strategica, aveva ripetuto esattamente lo schema della battaglia di Jena (1806). Il 9 aprile il generale Robert E. Lee si arrendeva a Grant, ad Appomattox Court House in Virginia. Poi capitolò anche Joseph E. Johnston e con ciò ebbe fine il conflitto (9 maggio).  E tuttavia la pacificazione era di là da venire. Infatti, il 14 aprile, un sicario degli schiavisti, John Wilkes Booth, sparò ad Abraham Lincoln ferendolo mortalmente. Lincoln morì il giorno dopo, per cui domani ricorre il 150° anniversario della sua morte. Gli successe il vicepresidente Andrew Johnson (*).

Nel novembre del 1864, Karl Marx, su invito dell’Associazione internazionale dei lavoratori (A.I.L.), cioè della Prima Internazionale, redasse un “indirizzo” da trasmettere al presidente Lincoln in cui ci si congratulava con il popolo americano per averlo rieletto alla presidenza. Marx scrisse ad Engels a tale proposito che nello stendere l’indirizzo aveva evitato “l’abusata fraseologia democratica”.


lunedì 13 aprile 2015

Una gara appassionante


Tra gli sfidanti alla corsa per la Casa Bianca in prima fila ci sono la moglie di un ex presidente e il figlio e fratello di due ex presidenti. Secondo una stima, Hillary Clinton si prepara a spendere tra 1,5 miliardi e 2 miliardi di dollari per le primarie e le presidenziali. Gli altri candidati seguono a ruota. È la parodia di una democrazia, rappresentata da miliardari, finanziata da miliardari, per gli interessi dei miliardari.

È l'oligarchia finanziaria a selezionare i possibili candidati, un processo denominato come "primarie invisibili". Gli aspiranti sono messi alla prova con vari attacchi mediatici per degli pseudo-scandali per verificarne l’abilità con la quale sono in grado di scrollarsi di dosso le pressioni esterne, ignorare l'opinione pubblica ed essere pronti ad eseguire gli ordini dei loro padrini.

La senatrice Clinton è la favorita per l’elezione finale, con il pieno appoggio sia dell’establishment del partito, di Wall Street e dei sindacati, i quali prevedono di spendere diverse centinaia di milioni di dollari dei loro iscritti per eleggere un presidente democratico. L'ex segretario di Stato punterà molto sul suo curriculum e come primo candidato presidenziale femminile.


Suo probabile avversario, se Jeb Bush per un qualche motivo non dovesse vincere le primarie, secondo me potrebbe essere Scott Kevin Walker, governatore del Wisconsin, con al fianco una first lady dal curriculum perfetto e una fisiognomica da casalinga. Sarà una gara appassionante e che ci terrà col fiatone sospeso.

domenica 12 aprile 2015

Bergoglio e le ineffabili contraddizioni del modo di produzione capitalistico


C’è una grande confusione sotto il cielo, in ogni angolo del mondo esplodono conflitti e tensioni, come in Medio Oriente, dove l’Arabia Saudita è ai ferri corti con l’Iran. In Asia la contesa è pluridecennale, tra India, Cina, Giappone, Corea, eccetera. La Russia è sotto assedio e l’Ucraina è lacerata. E anche nella vecchia Europa l’ineguale sviluppo economico e politico è il motore ultimo delle relazioni, come dimostra il caso Grecia (ma non solo).

E tuttavia, mentre Eugenio Scalfari, tamburino dell’ideologia casereccia, rincorre il fantasma della sinistra, le linee di tendenza dello sviluppo capitalistico e delle dinamiche imperialistiche sono ben chiare, a saperle cogliere. E un segnale importante viene dalla vicenda dell’AIIB, cioè dell’Asian Infrastructure Investment Bank promossa da Pechino. Se ne parla in tutto il mondo, ma qui da noi abbiamo ben altro su cui accapigliarci.

Eppure è una vicenda che mette in tensione i rapporti tra Europa e Stati Uniti, le famose relazioni transatlantiche. L’AIIB avrà in dotazione 50 miliardi di dollari, una cifra ragguardevole ma tutto sommato non eccezionale. Ma non è questo il punto. È un organismo che entra in competizione con la Banca Mondiale di Washington e all’Asian Development Bank sponsorizzata sempre dall'America. All'istituto finanziario promosso dalla Cina ha aderito, nonostante l’ovvia contrarietà degli Usa, dapprima Londra, ma subito dopo, unitariamente, anche Berlino, Parigi e Roma.

L’enorme surplus finanziario della fabbrica mondo cinese da qualche parte doveva andare, e la Cina ha bisogno di ristrutturarsi per far fronte alle sfide del capitalismo mondiale. La vera sorpresa, come non ha mancato di rilevare Romano Prodi, è che il coro dei “disobbedienti” europei è stato diretto dalla Gran Bretagna, storico alleato degli Usa. L’odore dei soldi sulla City, piazza finanziaria offshore, così come su qualsiasi altro centro di potere capitalistico è come una droga alla quale non ci si può sottrarre.

Che quattro membri del G7 abbiano fatto una scelta del genere, “senza consultarsi con gli Usa”, non è certamente faccenda di quelle alle quali ci si può passare sopra. Significa che una parte consistente del direttivo del cartello del liberismo se ne va per conto suo e che il direttorio politico del G7 è insufficiente per governare i processi globali. Così com’è chiaro da tempo che Washington non è più in grado di garantire da sola l’ordine mondiale.

Il mondo sta cambiando in fretta, mentre in Italia ferve il dibattito su cosa fare del Lumpenproletariat che non può essere messo a profitto. Lo scontro mediatico vede in campo Salvini con la ruspa e la falsa coscienza “de sinistra”, le dichiarazioni di lotta al pauperismo di Bergoglio e le solite ineffabili contraddizioni del modo di produzione capitalistico.



venerdì 10 aprile 2015

C’è molta differenza?


Poniamo vi sia un generale a capo di un’armata, e che una sua unità speciale proceda alla fucilazione immotivata di civili. La responsabilità di tale atto non può ricadere direttamente sul comandante dell’armata. Potremmo dunque sostenere che quel comandante generale è immune da ogni responsabilità?

Non è certamente immune da responsabilità amministrative se non ha emanato idonee disposizioni a ogni livello della scala gerarchica tese a prevenire simili atti, specie in presenza di una delicata situazione in cui sia ipotizzabile che dei reparti speciali possano lasciarsi andare ad operazioni “non convenzionali”. Né vale sostenere che tale opera di prevenzione non sarebbe necessaria poiché già esistono delle norme comuni che vietano violenze immotivate e indiscriminate sui civili.

Anche nel caso quel generale avesse emanato direttive affinché i comandanti a tutti i livelli vigilino sul comportamento delle truppe, egli sarebbe comunque responsabile moralmente dei crimini perpetrati dalle sue truppe, così com’è rilevabile, a un livello diverso, una responsabilità politica. Insomma, se anche quel comandante non andrà a processo per il crimine commesso dalle sue truppe, quantomeno non dovrebbe essere proposto per una medaglia.

giovedì 9 aprile 2015

“Il sole non esiste più”


«Fin dal 1989, per citare una delle omissioni più clamorose, l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, impegnandosi a introdurre questo gravissimo reato anche nel nostro sistema penale, sancendone l’imprescrittibilità e l’inapplicabilità di misure come l’amnistia e la grazia. A distanza di venticinque anni non è stato fatto nulla, sicché gli atti di tortura che anche in Italia si commettono vanno inevitabilmente in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, fissando pene adeguate alla sua gravità» (Relazione sull'amministrazione della giustizia per il 2013 del primo presidente della Corte di Cassazione, letta il 24 gennaio 2014 in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario).

*

La Corte europea per i diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano per «torture» per i fatti avvenuti nella scuola Diaz-Pertini di Genova durante il vertice del G8 del luglio 2001. Le torture sono quelle praticate dalla polizia di Stato su persone peraltro inermi e che avevano il solo torto di trovarsi in quell’edificio quando si decise di dare una “lezione” a quelle “merde” che avevano manifestato pacificamente quel giorno. I fatti sono noti, forse un po’ meno è che di aggressioni e torture in quel giorno non ci furono solo quelle alla scuola e alla caserma di Bolzaneto.

Nella sentenza pubblicata dal tribunale di Strasburgo, si condanna lo Stato italiano anche per non essersi dotato di una legislazione adeguata per punire il reato di tortura. Una proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all'esame del parlamento da quasi due anni: approvata dal Senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla Camera dove il 23 marzo scorso è approdata in Aula per la discussione generale.

Paradossale approvare una legge per il reato di “tortura” laddove vige nelle carceri italiane (alcune sono sui livelli di Guantanamo, si creda) l’applicazione del famigerato 41 bis. Vorrei ricordare il caso di una donna molto malata e ciò nonostante sottoposta per ben tre volte a quella forma di tortura che l’ha condotta a morte. E poi il caso di un’altra sepolta viva, che da oltre un decennio è in totale isolamento. Qualunque valutazione si voglia poi dare sui reati per i quali queste persone sono state condannate, il loro caso è emblematico di come la tortura sia affare corrente, a tutti i livelli della giurisdizione, come del resto confermano noti e tristi casi alla ribalta dei media (Stefano Cucchi, solo per citare).


I casi che vorrei segnalare sono quelli di Diana Blefari Melazzi, una delle decine di persone che ogni anno si suicidano in carcere, e poi quello di Nadia Lioce, più nota alle cronache, sottoposta a un regime carcerario che minerebbe l’equilibrio psichico di chiunque. Anche questa è tortura.

*

mercoledì 8 aprile 2015

Paccotto


Ormai viviamo in un’epoca sul punto di assicurarci ogni comodità anche grazie alla potenza sovrana dei nuovi mezzi di comunicazione. Infatti, c’è qualcosa di ammirevole nel far coesistere nella parola “velocità” il bisogno di comunicare rapidamente e di poterlo fare senza sottoporci ad alcun disagio. Non deve sembrare paradossale osservare che una quantità crescente di comfort accede ai nostri bisogni e non viceversa. Dal che i bravi ideologi ricavano il principio che è un simile prurito a creare la domanda. Di qui Massimo Cacciari potrebbe arrivare a dire, nella trasmissione della Gruber, che la proletarizzazione dei consumi contamina tutti con la forza delle cose.

Ma non vorrei avventurarmi in qualcosa di troppo sofisticato e perciò rimetto i piedi per terra sulla mia solida trincea.

Ho acquistato, presso la Libreria Ceccherelli di Bologna, alcuni libri. Il libraio, gentilmente, mi ha comunicato che la spedizione è avvenuta il 3 aprile per la destinazione richiesta. Oggi pomeriggio rilevo che il pacco è finalmente partito da Bologna, dove si trovava fino a ieri. Ora è giunto a Torino, capitale del Regno di Sardegna. Spero che al più tardi domani venga instradato alla posta centrale di Vienna, per il successivo inoltro nella provincia veneta dell’impero. Non prima che vi siano apposte tutte le vidimazioni necessarie e salvo disguidi. Dopo di che, con il mio calesse e tempo permettendo, andrò a ritirare il paccotto.


Ecco spiegato a cosa serve la Lione-Torino-Trieste.



Gli affari, innanzitutto


Il video che ho messo ieri, quello in cui la deputata Sahra Wagenknecht (Die Linke) pronuncia il suo discorso al Bundenstag sulla politica estera tedesca, è interessante poiché ci dice, anzitutto, che il nazionalismo tedesco denota punti di vista diversi in termini d’interessi e di alleanze, e poi ci fa sentire qualcosa d’insolito, posto che per noi italiani la politica estera non è mai andata oltre l'interesse che abbiamo per tutto il resto.

Non ho inteso, proponendo il video, dar credito a un punto di vista piuttosto che a un altro, anche se rilevo che alcuni concetti espressi dalla deputata tedesca possono trovarmi d’accordo, a cominciare dal fatto che gli Usa rappresentano la più grave minaccia per la pace, poi che è interesse americano tenere divisa l’Europa dalla Russia, nell’ambito di quel disegno egemonico ben noto. Da notare però che la deputata non auspica un’alleanza tra l’Europa e la Russia, ma tra questa e la Germania, a formare un formidabile blocco economico-militare.

Illusioni, la Russia non avrà mai una politica militare comune con l’Europa se non in chiave antiamericana, così come gli Usa non avranno mai altra politica se non quella che interessa la loro supremazia mondiale. Dal canto suo l’Europa è troppo debole e divisa per poter compiere scelte diverse dalle attuali, e del resto l’Europa è anzitutto la Germania e poi l’asse franco-tedesco. Gli altri paesi sono solo dei vassalli. L'Italia potrebbe sicuramente giocarvi un ruolo, ma manca di una classe politica e dirigente nazionale che sappia vedere oltre gli affari correnti.

Non facciamoci dunque prendere da facili entusiasmi: i tedeschi restano tedeschi, in qualunque lato dell’emiciclo del Bundenstag essi possano sedere. 


Intanto va avanti il progetto di costruzione del “drone europeo”, che vede interessate Airbus (Germania, Francia), Dassault (Francia) e Finmeccanica, cioè Alenia Aermacchi (Italia). Gli affari, innanzitutto.

martedì 7 aprile 2015

Dibattito parlamentare sulla politica estera italiana

Gli eredi


Se c’è un aspetto nello studio della storia che ogni scolaro mal sopporta è quello della teoria infinita di monarchi e principi i cui nomi sono accompagnati di un numero romano. Poi ognuno aveva anche il suo soprannome, per rendere pratiche le cose in famiglia. Famiglie aristocratiche imparentate le une con le altre, nobili intrecci di destini che spesso finivano tragicamente.

Se citassi il nome, per esempio, di Carlo IV, frugare nei ricordi ormai estinti di scuola credo servirebbe a poco. Perciò è stata inventata Wikipedia, dio la benedica. Ma a questo punto di quale Carlo IV parliamo, quello di Francia, detto il Bello come suo padre Filippo, oppure Carlo IV di Spagna, o invece quell’altro, di Lussemburgo, nipote di quello francese? Wikipedia non basta.

A forza d’insistere, i nomi delle casate dei Plantageneti e dei Tudor d’Inghilterra, dei Vallois e dei Capeti di Francia, i Lussemburgo di Boemia, gli Asburgo d’Austria, i Wittelsbach di Baviera, gli Hohenzollern di Prussia, i Romanov di Russia, dei Castiglia e Aragona, dei Savoia, i Visconti di Milano, ci sono diventati, per così dire, familiari; più arduo il compito per le case di Navarra, i duchi di Bretagna, i conti di Fiandra, dello Hainaut, gli Orsini, i Colonna, i Duchi di Parma, gli Alfonso d’Este, eccetera.

Ci vuole vera passione per queste cose, avendo cura che non diventi ossessione.

lunedì 6 aprile 2015

Il grande freddo


Capita a me quello che credo succeda a molti altri, e cioè di associare immediatamente una situazione, o anche un oggetto, a un dipinto. Per esempio, associo l’idea della caccia a un quadretto con cacciatore e relativo cane che stava in sala da pranzo, nell’infanzia lo contemplavo in ogni occasione come se si trattasse dell’immagine più deliziosa. Lo stesso vale per l’idea di circo equestre, in tal caso però l’immagine mentale si rifà a quelle riprodotte in una scatola metallica per biscotti riutilizzata per il nécessaire di cucito.  Chissà quali conturbamenti a sfondo para-sessuale riuscirebbe a rintracciarvi un freudiano da simili rievocazioni.

Lunedì scorso ero in una sala d’attesa del reparto di radiologia, mi era stato dato il numero progressivo 2519 e tuttavia avevo solo due persone prima di me. Ho impiegato il quarto d’attesa a guardare la riproduzione di un dipinto appeso vicino all’ingresso dei due ambulatori. È un quadro che conosco molto bene, perché esso è l’emblema del gelo, quello che ti preme le ossa e rallenta il respiro, rievoca l’inverno autentico d’un tempo e non certo la mite stagione d’oggi.

Lo stesso artista dipinse diversi quadri di soggetto analogo, ma questo ritrae in primo piano due cacciatori sulla neve, con la loro muta di cani, che ritornano da una battuta, tra alberi neri e spogli, il volo di quelle che sembrano cornacchie. Sullo sfondo un villaggio con le case dai tetti molto spioventi, carichi di neve, un borgo alpino, e al centro un piccolo lago ghiacciato dove numerose persone pescano praticando un foro per calarvi la lenza, un secchio al loro fianco.