giovedì 22 gennaio 2015

Presidente


La crisi della rappresentanza è nella fine delle ideologie, delle appartenenze, e ciò è il segno che la società stessa è cambiata, nello stravolgimento dei suoi riferimenti e nell’idea che noi abbiamo di essa. Ciò nonostante è innegabile che le nostre condizioni di vita poggino su concreti rapporti sociali che non sono cambiati, prova ne sia quando cerchiamo un lavoro e quando lo perdiamo. E però a cambiare è stata la nostra concezione di tali infrangibili rapporti. Il salariato non crede più in una società di uguaglianza e di solidarietà, ma in quella del consumo e più ancora nei modelli del lusso, vero o fasullo. Il suo orizzonte è a due passi, concreto e immediato, gli sorride dalle vetrine della boutique e lo solletica da quelle del concessionario. Troppo potente è l’arma della lusinga, inestinguibile il desiderio alienato, lo sanno bene i pubblicitari e i padroni per i quali lavorano.

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Il socialismo, pare abbia affermato a suo tempo Benedetto Craxi, “nessuno sa che cazzo è”. Bastava chiedesse a Nenni e a Lombardi, oppure a Lelio Basso, per sapere anzitutto che cosa non è il socialismo. Al fianco di Craxi, come sua eminenza grigia, sedeva Giuliano Amato che nel Partito socialista italiano militava da lunga pezza. Possiamo immaginarcelo Giuliano Amato leggere le Glosse marginali al programma di Gotha?

Il partito fu usato come un taxi, strumento esclusivo della gestione del potere nell’unica prospettiva che uno come Craxi poteva concepire: quella degli affari. Canalizzare un flusso sempre più cospicuo di denaro pubblico verso appalti e imprese per lucrare finanziamenti per il partito e per l’arricchimento personale dei dirigenti. Lo scambio illegale di denaro e favori, il furto e la corruzione, diventarono scopi precipui dell’attività politica. Amato, galantuomo, non sospettò di nulla in quegli anni, fin quando non lo lesse sui giornali.

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Era la primavera del 1992, c’erano state le elezioni il 5 e 6 di aprile, le ultime svoltesi con sistema elettorale proporzionale con preferenze. La Dc ottenne il suo minimo storico, ma non andò meglio all’ex Pci di Occhetto. Il 23 maggio, con la situazione politica ancora in alto mare e l’elezione del presidente della repubblica che avveniva nel caos parlamentare più completo, l’attenzione degli italiani fu attratta dal dito che indicava la Luna.

Poi, il 28 giugno 1992, fu varato il governo presieduto da Giuliano Amato, il quale già pochi giorni dopo l’insediamento a palazzo Chigi emanava il D.L. 11 luglio 1992, n. 333, “Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica”, convertito nella legge n. 359 dell’8 agosto 1992. Eravamo troppo occupati dal prelievo forzoso del 6‰ nei conti correnti per prestare attenzione al fatto che tale legge dava il via al più massiccio processo di privatizzazione delle imprese pubbliche italiane.

Fu del pari il governo Amato a varare la legge n. 421 del 23 ottobre 1992 che prevedeva, fra l’altro, la trasformazione in società per azioni di IRI, ENI, INA ed ENEL e l’attribuzione al ministero del tesoro delle azioni della Cassa depositi e prestiti nel capitale dell’IMI.

E fu la delibera del Cipe del dicembre successivo a stabilire che il valore delle partecipate statali da privatizzare doveva essere determinato mediante l’assistenza di “primari o intermediari specializzati”, nazionali o internazionali, che ormai anche i bambini sanno oggi essere le grandi banche d’affari.

È dunque questa l’interpretazione autentica di Amato del socialismo, quella di favorire lo smantellamento del sistema industriale e finanziario pubblico come ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale, assecondando in tal modo l’indirizzo neoliberista dato all’Europa dai tecnocrati nella prospettiva della globalizzazione, del processo di unificazione europea e dei conseguenti parametri di Maastricht.

È dunque prevalsa la necessità di risanare le finanze pubbliche ignorando non solo ogni compatibilità sociale, ma creando l’occasione per operare un vero e proprio saccheggio del patrimonio degli stati più deboli al quale hanno partecipato grandi gruppi e banche d’intermediazione, cui si è ben volentieri unita parte rilevante della classe dirigente europea, i cui nomi hanno figurato sul libro paga di banche d'affari spesso al centro d’indagini che non porteranno a nulla.

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È vero che la galassia delle partecipazioni statali aveva inderogabile necessità di essere radicalmente ristrutturata, eliminando produzioni obsolete e fuori mercato, tagliando posizioni parassitarie e ponendo rimedio alla crescita del rapporto tra indebitamento e fatturato. Missione quasi impossibile posto che dalle partecipazioni statali i partiti traevano posti, prebende e fiumi di denaro. E anche il sindacato del resto era poco interessato ad un’effettiva riforma ma molto più alla conta delle tessere. Quanto all’imprenditoria privata italiana, essa si era sempre mostrata antagonista a quella pubblica, e dunque non aveva interesse per una seria riforma delle partecipate, ed infatti i grandi gruppi privati attesero l’occasione di diventare i maggiori acquirenti delle imprese che lo stato avrebbe ceduto.

I processi di privatizzazione sono assai complessi e si tratta di operazioni di carattere essenzialmente politico, per cui è richiesta una definizione degli obiettivi ultimi e la verifica delle compatibilità strategiche nazionali (vedi Telecom), e un’attenta selezione di ciò che è oggetto di privatizzazione (vedi la vicenda del nuovo Pignone), eccetera. Quanto di tutto questo è avvenuto? E per contro, le privatizzazioni solo nelle dichiarazioni di principio hanno risposto a obiettivi di miglioramento di competitività e di efficienza del sistema economico, e invece esse hanno puntato anzitutto a ingrassare profitti e rendite (“plusvalenze private da capogiro“ le definì uno che se ne intende), e favorire un nuovo regime di monopolio (pensiamo solo all’acqua e ai servizi pubblici in genere, alle autostrade, ecc.).

Non ci voleva molto a capire che il confronto aperto e diretto con i grandi competitori europei e internazionali ci avrebbe condotto alla situazione odierna, e tuttavia quello stesso eccelso protagonista di allora ora siede come giudice costituzionale e appare come uno dei più probabili candidati alla presidenza della repubblica. Ed un altro di quei massimi leader, D’Alema, ci viene oggi a raccontare di quanto sia audace la finanza internazionale, di come sarebbe necessario eccetera eccetera eccetera.


Ci chiediamo per quale motivo la rappresentanza è in crisi?

1 commento:

  1. Olympe, a completamento del post precedente. Nel 1984 i pretori d’assalto sequestrano gli impianti di trasmissione di Bussoloni. Craxi si scatena e prepara un decreto di dissequestro:

    “Poi, per far decadere gli emendamenti, pone la questione di fiducia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto scadono il 6 maggio 1985: da quella data Berlusconi non potrà più trasmettere senza una nuova legge Antitrust: “Sino all’approvazione della legge generale sul sistema radiotelevisivo – si legge nel decreto – e comunque non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, è consentita la prosecuzione dell’attività delle singole emittenti televisive private...”. Ma la nuova legge non arriva e l’ultimatum di sei mesi è pura finzione: Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) concede all’amico Silvio un’altra proroga fino al 31 dicembre 1985. Data peraltro fittizia pure quella: il governo Craxi & Amato stabilisce che il decreto non è “provvisorio”, bensì “transitorio”. In pratica, eterno. Il 3 gennaio 1986, scaduta la proroga, basta una “nota” del sottosegretario Amato per comunicare che la normativa non necessita di ulteriori proroghe legislative. Con tanti saluti alla legge, che dice “comunque non oltre sei mesi...”. Silvio è salvo. Nel 2009 l’inviato di Report Bernardo Iovene gli ricorderà quel trucchetto del decreto “transitorio” che diventava perpetuo. E lui, anziché arrossire e nascondersi sotto il tavolo, s’illuminerà d’immenso e d’incenso: “Sa, noi giuristi viviamo di queste finezze: la distinzione fra transitorio e provvisorio è quasi da orgasmo per un giurista... Quando discuto attorno a un tavolo tecnico e qualcuno dice ‘questa cosa è vietata’, io faccio aggiungere ‘tendenzialmente’...”. Dev’essere per questo che oggi è giudice della Corte costituzionale”.
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    Ho conservato la registrazione dell’intervista ad Amato, con la faccia da furetto e l’espressione lubrica, tipica dei titillatori di movimenti peristaltici, che cercano di scaricare il loro degrado inchiappettandosi qualcun altro.
    Saluti

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