Mai come nel XX secolo la scienza del pensiero – cioè
la teoria della conoscenza – è stata considerata superflua.
Non è infrequente tra coloro (pochi) che effettivamente
si prendono la briga di leggere il Capitale,
non accorgersi come nel corso dello sviluppo dei concetti di quest’opera
scientifica venga “applicata” una determinata “teoria della conoscenza”, e magari
sono indotti a credere che solo Engels, nel suo Anti-Dühring e ancor più nella Dialettica
della natura, si sia “applicato” a tal fine.
Un esempio di questo tipo – ma non ingenuo, bensì
voluto – si può trarre da un articolo del 1 agosto di Lucio Villari, il quale scrive a proposito di Marx autore del Capitale:
«Era qui la
dimensione artistica, era la sua particolare sensibilità letteraria a
permettergli di penetrare nelle strutture proteiformi e epiche del
"capitale" e, come diceva, dei «rapporti di produzione e di scambio
che gli corrispondono». E come in un poema mitologico o in un romanzo epico, i
protagonisti di questo "capitale" diventano espressioni simboliche e
astratte del suo racconto critico alla scoperta della verità delle cose dell’economia
spesso nascoste proprio dall'"economia politica"».
Che Marx possedesse un dimensione artistica e sua particolare sensibilità letteraria non
vi sono dubbi, lo si può dedurre da molti suoi scritti, oppure leggendo un
libro di grande interesse di S.S. Prawer,
La biblioteca di Marx. Ma non è stata certamente la sua dimensione
artistica e particolare sensibilità letteraria a permettere a Marx di penetrare – come invece vuol far intendere Villari –
nelle strutture proteiformi e epiche del capitale e nei rapporti di produzione
che gli corrispondono.
Il Capitale è una pietra miliare della produzione
scientifica di ogni tempo, un'opera concepita e
realizzata mettendo a fuoco una determinata teoria della conoscenza, grazie
alla quale è possibile rilevare il carattere oggettivo dei rapporti di
produzione uniti dialetticamente alle forze produttive, e in tal modo di
studiare il movimento della formazione economica della società come un processo
storico naturale.
Il fatto che la critica marxiana dell’economia
politica si proponga di scoprire, dietro e dentro i fenomeni della società
capitalistica, le leggi e le categorie del modo di produzione capitalistico e i
relativi rapporti di classe non ha nulla a che fare, tranne per l’uso qua e là
di un certo stile e di metafore, con “un
poema mitologico o in un romanzo epico”. Il modo logico di trattare la
questione – osservava a tale riguardo Engels nella Recensione a Per la critica
dell’economia politica, era il solo adatto. Aggiunse:
«Questo non
è però altro che il modo storico unicamente spogliato dalla forma storica e
degli elementi occasionali perturbatori. Nel modo come comincia la storia, così
deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà
altro che il riflesso in forma astratta e teoricamente conseguente del corso
della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso
stesso della storia fornisce, poiché ogni momento può essere considerato nel
punto del suo sviluppo in cui ha raggiunto la sua piena maturità e la sua
classicità».
Pertanto, il metodo logico è la chiave per la
comprensione dello sviluppo storico, esso va al nucleo strutturale dello
sviluppo storico consentendone un’analisi attenta, scientifica e sistematica.
Ecco perché Marx afferma: «Per sviluppare le leggi dell’economia borghese
non è quindi necessario scrivere la storia reale dei rapporti di produzione». Il
criterio logico di disposizione delle categorie economiche non è soggettivo, la
logica dialettica di Marx è una logica oggettiva e materialista, non quindi un
agglomerato di “espressioni simboliche e
astratte” come invece pretende Villari. Il quale queste cose le sa
benissimo ed è perciò tanto più fastidiosa questa sua mistificazione
del marxismo. Rinvio in nota per un altro “dettaglio” (*).
Nello stendere un Pìano
della dialettica, Lenin osserva: «Anche
se Marx non ci ha lasciato alcuna Logica, ci ha lasciato tuttavia la logica del
Capitale che, per il problema che ci interessa, dovrebbe essere utilizzata al
massimo. Nel Capitale sono applicate a una sola scienza la logica, la
dialettica e la teoria della conoscenza (non occorrono tre termini: è la stessa
cosa) del materialismo, prendendo tutto ciò che vi è di prezioso in Hegel e lo
fa progredire».
E ancora: «La
dialettica è la teoria della conoscenza (di Hegel e) del marxismo: questo è
l’aspetto della questione (ma non di aspetto si tratta, bensì della sostanza
della questione) […]. La logica non è
la dottrina delle forme esteriori del pensiero, ma delle leggi dello sviluppo
di tutte le cose materiali, naturali e spirituali».
Possiamo dunque considerare la dialettica come una
teoria più generale e concreta di conoscenza, ma da sola la dialettica non
basta. Per esempio: Heisenberg – che certamente marxista non era – si
richiamava, almeno a parole, alla peculiarità e indispensabilità del pensiero
dialettico, ma non alla dialettica materialista; ed infatti – aderendo alla
concezione che vuole la materia esistere solo se noi la osserviamo, così come
l’orbita dell’elettrone esiste solo quando noi lo “illuminiamo” – restò
nell’ambito di una concezione idealistica.
La vera teoria e la logica della conoscenza
scientifica in Marx, Engels e Lenin è la dialettica materialista (e soltanto
materialista!) come scienza di quelle leggi oggettive, universali e necessarie
(dunque indipendenti dalla volontà e dalla coscienza dell’uomo), cui
obbediscono tanto lo sviluppo della natura e della società quanto lo sviluppo
di tutto il sapere complessivo dell’umanità, e non soltanto il pensiero, inteso
come processo psichico soggettivo che si svolge nell’intimo del cervello e
della psiche. Per contro, e per dare un esempio, in Popper la logica è una
rappresentazione di “regole” e “modi” soggettivi, impiegati consapevolmente dal
pensiero, ma tale concezione non ha un’idea scientifica delle leggi profonde
che giacciono alla base della conoscenza.
Tra parentesi. Noi vediamo ogni giorno che “comunque”
(ma ciò non può consolarci) la fisica e tutte le scienze naturali procedono
spontaneamente (ossia alla cieca, recando gravi ritardi al progresso
scientifico perché incapaci di rendere conto dei processi reali della materia)
e solo di quando in quando (e senza volerlo!) sui binari del pensiero
dialettico, sulla via della comprensione materialistico-dialettica (del
rispecchiamento) della realtà oggettiva, anche se non ne prendono una giusta
coscienza e si accontentano di quella ingiusta, rifilata loro dall’idealismo
sotto mentite spoglie che copia esteriormente le particolarità formali del
linguaggio della matematica, della linguistica, della fisica e della biologia
creando l’illusione della “comprensibilità” di ciò che invece è solo vuoto (**).
Lenin non a caso sottolineava a tale riguardo che «senza una robusta argomentazione filosofica
non c’è scienza naturale né materialismo che possa reggere alla lotta contro la
pressione delle idee borghesi e la restaurazione della visione borghese del
mondo». Troppo spesso dimentichiamo questo ammonimento, e a riguardo degli
influssi dell’ideologia non teniamo ben conto che le forme del pensare sono già
una forma della realtà, se non altro come forme oggettive dell’attività umana
soggettiva.
Il pensiero borghese ha tutto l’interesse a creare,
da un lato, l’illusione che con l’aiuto dei concetti delle scienze naturali si
raggiunga una comprensione dei fenomeni della teoria sociale e dell’economia
politica, e, dall’altro, a screditare la filosofia agli occhi di chi si occupa
di scienze naturali, abituandoli a considerarla con alterigia e con disprezzo,
minando quindi anzitutto l’alleanza della dialettica materialista con le
scienze naturali.
Pur disconoscendo il carattere dialettico dei
fenomeni naturali, pur considerando molti aspetti della natura nella loro
singolarità e non nel loro insieme, ovvero nella dialettica del particolare e
del generale (***), pur ricorrendo alle furbate del principio di
complementarietà, alla fine, sbattendo il muso contro la dura realtà, superati non
senza fatica e dispendio certi anacronistici dualismi tra “corpuscoli” e “onde”
(****), siamo diventati tutti “materialisti”, e infatti (quasi) nessuno più si azzarderebbe
a definirsi un idealista, basti pensare al materialismo scientifico-naturale,
in alcuni casi cucinato “alla marxista”, ossia con condimento di retorica
marxista.
Poi, più in generale, il convenzionalismo accademico
e le “dinamiche” di carriera fanno il resto, occupando il campo con quelle
teorie basate essenzialmente sul formalismo matematico (la matematica serve a
rappresentare e misurare la realtà, non a cercare cose che non esistono) che negando
validità al “rispecchiamento” non trovano corrispondenza con la realtà (la
presumono nei concetti matematici che invece servono a rifletterla), con ciò tornando
all’idealismo di secoli addietro e nascondendo i propri fallimenti dietro il
successo della tecnologia e della tecnica, e cioè delle scienze “pratiche”.
L’idealismo ha cambiato pelle, ma nella sostanza è
rimasto quello di sempre, ossia quello che antepone il pensiero (sia pure sotto
forma di equazioni matematiche) all’essere, cioè alla natura. Quale relazione
passa tra le nostre idee del mondo e questo mondo stesso? La questione
dell’identità dell’essere e del pensiero, per quanto possa sembrare paradossale
e anacronistico, è ancor oggi all’ordine del giorno se partendo da “una
funzione a variabili complesse” si cercano, come detto, cose che non esistono.
Non esistendo alcun principio che non possa essere confutato
dall’esperienza, anche le nozioni più generali hanno bisogno dell’esperienza e
non possono accontentarsi di essere sviluppate della sola logica dei modelli matematici.
Anche le verità ritenute logicamente evidenti possono essere confutate da una
sola esperienza, così come tutte le categorie universali non hanno mai più
significato di quello che hanno ricevuto attraverso la nostra conoscenza
concreta.
Ci hanno abituato a prendere non solo sul serio i più
astratti e labili i tentativi di ottenere nuove leggi generali sulla scorta di
modelli matematici che non hanno alcun riscontro con la realtà, ma a credere quasi ciecamente a ciò che
“dicono gli scienziati”, ossia i sacerdoti e astrologhi moderni, prestando al
loro fanatismo una credulità superiore a quella del contadino medievale verso
il suo parroco. E la cosa più comica, se non fosse grave, consiste nel
fatto che quando sollevi queste obiezioni, ti guardano come uno stravagante da
commiserare.
C’è dunque grande confusione sotto il cielo del
materialismo, anzitutto nel rapporto tra “forma” e “sostanza” del materialismo.
La “forma” del materialismo consiste nelle concezioni scientifiche concrete
della materia, della sua struttura, dei suoi processi e del suo sviluppo e in
tutte quelle generalizzazioni che non possono non risultare storicamente
limitate, mutevoli, soggette a revisione da parte delle scienze naturali
stesse. La “sostanza” del materialismo, invece, consiste nel riconoscimento di
una realtà oggettiva che esiste indipendentemente dalla conoscenza umana e da
essa viene rispecchiata.
Anche se è chiaro che nessuna filosofia può cogliere
tutta l'esistenza materialista, tutta la natura e tutta la vita sociale,
tuttavia la dialettica materialista è indispensabile poiché orienta il pensiero
scientifico verso una vieppiù precisa comprensione dei fenomeni della natura e
della storia (*****) in tutta la loro oggettività, in tutta la loro concretezza
e contraddittorietà dialettica, in tutta la loro indipendenza dalla volontà e
dalla coscienza degli uomini, mentre l’idealismo – nelle sue infinite
declinazioni – dà al pensiero scientifico un orientamento opposto, rivolgendo
il pensiero dell’uomo verso l’invenzione di astrazioni nel cui grembo
“naturale” si estinguono tutte le differenze, gli opposti e le contraddizioni
della materia, della coscienza e del rapporto tra materia e coscienza.
(*) Scrive Villari: «Le cose poi cambieranno ma grazie più che alle opere di Marx, al
"marxismo", alle crisi economiche, alle lotte salariali e per i
diritti sociali e politici cioè agli impeti di libertà e di democrazia che
presero il nome di "socialismo". Si capisce meglio perciò quella
battuta ironica a lui attribuita sul finire della sua vita: “io non sono
marxista”».
Non si trattava di una “battuta ironica”, ma come
testimoniano incontrovertibilmente le “carte”, di una presa di distanza da certo “marxismo”. Ne ho illustrato i
dettagli QUI.
(**) Basti ricordare a tale riguardo la cosiddetta
teoria delle stringhe, un catalogo pressoché infinito di sciocchezze. Questa
presunta "teoria del tutto" che pretendeva di unificare le leggi
della fisica, si è rivelata alla fine una "teoria del niente", incapace
di dimostrare anche uno solo dei suoi enunciati. Non lo dico io, lo sostiene
Peter Woit nel libro Neanche sbagliata.
Il fallimento della teoria delle stringhe e la corsa all'unificazione delle
leggi della fisica. Non solo i teorici delle stringhe non fanno scienza, ma
hanno goduto di un predominio quasi esclusivo per decenni, monopolizzando il
reperimento dei fondi economici pubblici e privati e impedendo di fatto il
progresso della ricerca scientifica. Anche secondo Lee Smolin, L'universo senza stringhe, si tratta di
una teoria che ha regnato incontrastata negli ultimi decenni ed è prossima alla
fine (si spera). Più che una vera e propria teoria è una congettura,
un'elaborazione matematica raffinata e imponente, ma che manca di ogni
possibilità di sperimentazione, di verificabilità.
(***) Sulle categorie di particolare e generale, Marx
aveva le idee molto chiare. Pr esempio: “Capitale
in generale” è il concetto che esprime e racchiude in sé “tutte le
contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite dove essa
conduce, al di là di se stessa”. Il concetto di “capitale in generale”, cogliendo l’essenza propria di ciascun
capitale, e cioè l’essere plusvalore
riproducentesi sulla base di una specifica e storicamente determinata relazione
sociale, ossia il lavoro salariato, non si riferisce ad “una forma particolare del capitale”, né al “singolo capitale distinto da altri
singoli capitali”, e neppure a capitali concorrenti.
(****) Scrive al riguardo Engels nella II prefazione
all’Anti-Dühring : «[…] sono
precisamente le opposizioni diametrali, rappresentate come irreconciliabili ed
insolubili, le linee di demarcazione e le differenze tra le classi fissate a
forza quelle che hanno dato alla moderna scienza teorica della natura il suo
ristretto carattere metafisico. Il riconoscimento che queste opposizioni e
queste differenze in verità sono presenti nella natura, ma con una validità solo relativa, e che invece quella
rigidità e quell'assoluta rigidità con cui sono presentate viene introdotta
nella natura solo dalla nostra riflessione; questo riconoscimento costituisce
il punto centrale della concezione dialettica della natura». Grassetto e
sottolineatura sono miei.
(*****) Non c'è né "materialismo
dialettico", né "materialismo storico", ma invece la dialettica
materialista, e una comprensione materialistica della storia.
Io sarei cauto con le generalizzazioni. E' vero che in alcuni casi l’uso disinvolto della matematica non ha portato da nessuna parte (se non a formidabili teoremi che non per questo butterei via) ma in moltissimi altri casi ha prodotto risultati concettuali (concettuali, si noti bene, non solo pratici) fondamentali, a partire dalla fisica classica. La mela che cade dall'albero, senza una generalizzazione che porta all'idea di campo gravitazionale, rimane una curiosità a sè stante, impossibile, per esempio, da mettere in relazione al moto dei pianeti. E le leggi di Keplero resterebbero una curiosità astronomica scorrelata da ogni altro fenomeno celeste.
RispondiEliminaE se tutti vedono una mela che cade, nessuno vede un campo gravitazionale che riempie ogni punto dello spazio: forse che la prima ha una realtà oggettiva maggiore del secondo solo perché quest'ultimo non si vede? Forse perché siamo più abituati a trattare con le mele che con gli adroni, la teoria del campo gravitazionale ci sembra meno una presa in giro che non la teoria del modello standard, ma il quadro concettuale è quello: astrazione, generalizzazione e vedere dove si va a parare. E in questo esempio volutamente "classico", la matematica è servita a ben altro che a "misurare la realtà" o a rappresentarla (quale realtà poi? La mela in sè o il punto geometrico che ne fa astrazione?), ma ha introdotto un concetto che si è rivelato decisivo nella comprensione di numerosi altri fenomeni. Che facciamo ? Siccome un campo gravitazionale sembra troppo idealistico torniamo alla contrapposizione "alto vs basso" della fisica aristotelica con la quale si poteva forse spiegare il moto della mela ma non certo quella dei pianeti e meno ancora viaggiare fino alla luna ? O forse dobbiamo rimettere in discussione il concetto di spiegazione ? Questa parola ha un significato ben preciso, ed è legato alla sua capacità descrittiva e predittiva. Capisco che è un concetto limitato - e ci sono state polemiche celeberrime su dio e i dadi - ma questo è quello che abbiamo. E una teoria filosoficamente più appagante deve avere ovviamente almeno lo stesso carattere predittivo della teoria che pretende di rimpiazzare, altrimenti è inutile.
Che "anche le nozioni più generali hanno bisogno dell’esperienza e non possono accontentarsi di essere sviluppate della sola logica dei modelli matematici" è ovvio, ed è per quello che si fanno ancora misure e sperimentazioni (con gli strascichi polemici di quelli che sanno già tutto a priori che accusano sistematicamente di buttare denaro per inseguire chimere idealistiche perché il bosone di Higgs non gli piace) ma bisogna decidersi: quanto più generale tende ad essere una teoria e tanto meno immediate saranno le esperienze che vi si possono fare (un conto è misurare la radiazione cosmica di fondo e un altro è pretendere di essere lì a vedere l'esplosione del big bang in prima persona).
La conoscenza umana è quella che è, ma pur riconoscendo una realtà oggettiva al di fuori di noi non possiamo decidere a priori di cosa è composta (mele? atomi ? quark ?) senza nemeno interrogare le nostre teorie.
A che punto ci dobbiamo fermare ? L'elettrone è troppo astratto, minaccia l'equazione di Schroedinger e le funzioni complesse ? Come facciamo a sapere se una generalizzazione è valida oppure non lo è se non mettendo la teoria alla prova con tutte le sue conseguenze ?
Infine, separare la scienza pura dalle scienze pratiche mi sembra un atteggiamento piuttosto crociano. Le tanto vituperate scienze pratiche - con tanto di virgolette denigratorie - non funzionano per caso: applicano i concetti della scienza pura. Magari sono i concetti a funzionare per caso - non è una idea nuova, la teoria a variabili nascoste diceva la stessa cosa per sempre sospetta meccanica quantistica - ma in mancanza di concetti migliori (e possibilmente meno vaghi) quella che abbiamo tra le mani è una delle più grandi conquiste intellettuali degli ultimi secoli. Magari l'economia funzionasse come la fisica.
Saluti
Giovanni
grazie per il lungo commento.
Eliminasi parva licet se cito engels nel mio caso: «È quindi fin troppo naturale che più di una volta io non trovi l'esatta espressione tecnica e che mi muova in generale con una certa goffaggine nel campo della scienza teorica della natura. Ma d'altra parte la coscienza di non avere ancora vinta la mia incertezza in questo campo mi ha reso cauto. Non mi si potrà accusare di vere trasgressioni per quel che concerne i fatti allora noti né di una esposizione inesatta delle teorie allora accettate. A questo riguardo soltanto un grande matematico misconosciuto si è lamentato per lettera con Marx che io abbia criminosamente intaccato l'onore della radice quadrata di - 1».
ho inteso dire nel post, dicendolo forse peggio di come andava detto, che non formulo di sana pianta un'immagine del mondo e poi la vado a verificare. in una nota parlo delle teorie delle stringhe, un esempio per me (e non solo per me) molto eloquente. non prenderei per oro colato quello che ci raccontano su questo e su quello. non condanno la matematica (sarebbe assurdo) ma l'impiego che se ne è fatto e se ne fa. è l'opposto di ciò che è capitato con il famoso pomo che cade dall'albero. per quanto riguarda le generalizzazioni, parlo appunto del particolare e del generale. attrazione e repulsione si comprendono solo in una chiave dialettico-materialista.
scriveva engels: «È possibile arrivare a questa concezione perché vi si è costretti dall'accumularsi dai fatti della scienza della natura, ma vi si arriva più facilmente se si raccosta al carattere dialettico di questi fatti la coscienza delle leggi del pensiero dialettico. In ogni caso, la scienza della natura è oggi così avanzata che non sfugge più alla sintesi dialettica. Ma essa renderà più agevole questo processo se non dimenticherà che i risultati, in cui sono sintetizzate le sue esperienze, sono concetti; ma che l'arte di operare con questi concetti non è innata e neppure è acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero reale, e questo pensiero ha una lunga storia sperimentale; né più né meno dell'indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far propri i risultati dello sviluppo della filosofia durante venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di sopra di essa, ma anche, d'altro lato, dal suo proprio metodo limitato di pensare, ereditato dall'empirismo inglese».
al post intendo dare un significato preciso, in riferimento alla teoria della conoscenza. non intendo dire di più. possiamo accumulare tutta la quantità di dati che vogliamo, elaborare tutte le formule matematiche possibili e formulare tutti i paradigmi immaginari possibili, ma senza una robusta argomentazione filosofica, si resta ciechi.
i migliori saluti.