venerdì 30 agosto 2013

La seconda grande rivoluzione


Nonostante i toni trionfalistici di questi giorni, nostrani ed esteri, è probabile e non solo possibile che nelle prossime settimane, al massimo nei prossimi mesi, ad onta di quanto ci racconta la propaganda sulla “ripresa” e la “fine della crisi” (Saccomanni & C.), assisteremo a un nuovo terremoto finanziario, con crollo delle borse e il consueto corollario di panico. Dico solo un dato: i famigerati “derivati” in circolazione sono pari a nove volte il Pil mondiale. Sarà pure vero che parte dei derivati è a “copertura”, ma altri dati dicono che la massa speculativa di questi strumenti finanziari è comunque gigantesca. A ciò s’aggiunge la “sofferenza” dei paesi cosiddetti emergenti.



* * *
Ieri, in un commento al mio post, un lettore osservava che “accumulare capitali non è come accumulare ghiande per l'inverno”. Ciò richiama alla mente un altro paragone, molto celebre un tempo, che riporto in nota (*).

Dopo la prima grande rivoluzione, quella neolitica, nel V millennio ne avvenne un’altra che pose le premesse per la progressiva urbanizzazione – un fenomeno che si affermerà in un lungo lasso di tempo (le città del Nilo, Tigri-Eufrate, Indo, quindi Ebla, Arslantepe, Byblos, Shortugai, fino a Tepe Yahya, ecc.) – e per lo sviluppo di un vasto commercio internazionale che vedrà, tra gli altri, i primi contatti delle civiltà euroasiatiche anche con quello che millenni dopo si chiamerà Nuovo Mondo, ossia con la Mesoamerica.

Ai naturali prodotti primari, quali carne, pesce, latte e specie vegetali esistenti in natura, si affiancheranno nuovi prodotti creati dall’uomo con complessi procedimenti di trasformazione (parlare di cibi “naturali” ha dunque poco senso). Furono ibridate nuove specie di piante e fabbricate bevande prodotte con l’uso di lieviti e della fermentazione alcolica, lavorato il latte ottenendo una varietà di prodotti caseari. L’introduzione della metallurgia, ossia l’impiego della fusione e dell’estrazione dei metalli dai minerali, fu un passo decisivo verso ciò che noi chiamiamo impropriamente storia (distinguendola dalla preistoria) e civiltà. Fatto non secondario, nacquero allora i primi ragionieri e commercialisti con i loro misteriosi segni, e probabilmente anche le prime forme di evasione d’imposta. Insomma, s’imposero forme molto sviluppate di divisione sociale del lavoro (solo il lavoro sociale diventa fonte di ricchezza e di civiltà), di separazione tra lavoro agricolo, lavoro industriale e attività commerciale.

Con questa rivoluzione comincia a scomparire l’antica comunità intesa come collettivo proprietario della terra lavorata in comune, laddove lo scopo del lavoro non è la creazione del valore – anche se si fa del lavoro eccedente per scambiarsi prodotti altrui –; il suo scopo è invece il mantenimento del singolo lavoratore, proprietario al pari degli altri lavoratori della terra comune, della sua famiglia e dunque dell’intera comunità.

Negli antichi ordinamenti economici lo scopo principale, come detto, è la produzione di valori d’uso, la riproduzione dell’individuo nei rapporti determinati con la sua comunità. La principale condizione obiettiva del lavoro – una condizione limitata, sia chiaro, basata sulla mera riproduzione degli uomini il cui numero aumenta attraverso il processo naturale (non come oggi che la popolazione è determinata da altre leggi!!!) – non si presenta essa stessa come prodotto del lavoro, ma esiste come natura. Gli individui – e con ciò stesso la comunità – hanno un modo obiettivo di esistenza nella proprietà della terra, modo che è – scrive Marx con molta profondità – “presupposto alla sua attività, e non appare come un mero risultato”.

E tuttavia, la stessa produzione allargata, l’incremento della popolazione, annullano a poco a poco queste condizioni, le distruggono invece di riprodurle. Ecco come procede dialetticamente la storia.

Inoltre, i conflitti con altre comunità per l’occupazione della terra portano la comunità ad organizzarsi militarmente. L’organizzazione bellica della comunità è una delle condizioni di esistenza della comunità come proprietaria, del contadino che nell’agricoltura trova l’occupazione propria dell’uomo libero, “come scuola del soldato”. Con la guerra siamo già al presupposto della schiavitù, ossia di una nuova forma di proprietà e della più importante forma sociale di sfruttamento del lavoro altrui.

Senza farla troppo lunga, è a quel punto che nasce anche un fenomeno che ci accompagnerà – in diverse forme – nel corso della storia fino ad oggi, permettendo di sviluppare quella che chiamiamo civiltà, ma anche ponendo un grosso problema (senza contraddizione non c’è vita, diceva qualcuno ancora non molto tempo fa). Insomma, detto grossomodo e per le spicce, con il svilupparsi della divisione sociale del lavoro si ebbero le prime forme di accumulo, cioè di surplus (plusprodotto), per lo scambio allargato.

Non si produceva solo pane, ma anche le rose, per dirlo con una famosa Rosa. Solo che le rose hanno le loro spine. Il surplus non serviva solo come scorta sociale in caso di carestie ma si stabiliva come fonte di ricchezza e di potere individuale sulla società. Anzitutto monopolio sui mezzi di lavoro, ossia sulle fonti dell’esistenza. Nascono così rapporti nei quali il pluslavoro dell’uno diventa condizione di esistenza dell’altro, ossia si stabilirono dei rapporti di classe e il conflitto sociale, e con esso l’ideologia e le pratiche per disinnescarlo. Ma non è l’aspetto politico che qui m’interessa, ma l’aspetto economico, e di esso la questione del cosiddetto surplus.

Il post è già lungo, perciò ne riparlerò un’altra volta. Promesso.


(*) Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell'idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà (Il Capitale, I, cap. 5). Il significato dell’ultima frase di questo brano è spesso trascurato per la sue decisive implicazioni.



2 commenti:

  1. Scusa, per un'eventuale chiarificazione.
    Leggo dal rapporto OCC sul bank trading I trimestre 2013 dei dati interessanti sui derivati, tipo per Goldman Sachs, su una scala in M$, a fronte di 113,743 $ di assets hanno 42,251,600$ di derivati, che sembra un dislivello abnorme visto così. Però quelli dei derivati sono dati "nozionali", ergo mi dicono che non sono i dati nozionali con cui si possono fare i conti "reali". Ora, a parte il fatto del perché in una stessa tabella di un rapporto mettono insieme su una stessa riga di fianco uno all'altro gli assets con i dati "nozionali" e quant'altro, ma allora questi conti sulle "masse speculative" che si dice valgono "n" volte il PIL mondiale sono fuffa o cosa? A me non è molto chiaro, il barbuto di Treviri credo che avrebbe spiegato l'inghippo su questa comunicazione dei dati tra "nozionali" e "reali"...personalmente sono un pò carente da questo punto di vista. O invece è tutto banalmente chiaro? :-(
    Grazie e ciao,
    Carlo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. vedi se con questo ricavi qualcosa:
      http://www.bis.org/publ/cgfs46.pdf

      alla base della famosa speculazione sui bulbi dei tulipani ci sono appunto i futures!

      ciao

      Elimina