sabato 24 novembre 2012

Crisi del capitalismo e teste di rapa



I borghesi devono ammettere l’evidenza, ossia che il capitalismo è a un cambio d’epoca, in una nuova fase della sua crisi che non può essere assimilata alle precedenti per diversi motivi. E sono inquieti. C’è anche chi vede il capitalismo “finito”, come Emanuele Severino. Non per i motivi individuati da Marx, sostiene il filosofo, non per le sue contraddizioni interne, ma per l’impatto che sta avendo sull’intero sistema la rivoluzione tecnologica in atto. A tale riguarda si può osservare che l’idealismo può acchiappare solo mosche. Il capitalismo è sì fallito, ma non è morto e non finirà nella fossa della storia così presto e senza provocare altri danni e tragedie.

Ciò che le teste di rapa borghesi non riescono proprio a comprendere, nonostante i loro ingarbugliamenti sull’essere e altre minchiate, è che Marx non descrive nella sua critica dell’economia politica un puro processo logico riguardo al modo di produzione capitalistico, ma dà conto di un processo storico e – come ebbe a osservare Engels – del suo riflesso interpretativo nel pensiero, la ricerca logica dei suoi nessi interni. Ciò che interessa a Marx è il modo di produzione capitalistico in generale, le sue leggi e le sue tendenze, e non, invece, una sua forma determinata a un qualche stadio del suo divenire.




Portare il progresso tecnico come causa della crisi del capitalismo è un giochetto vecchio di quei birbanti d’intellettuali borghesi (*). Con ciò essi vogliono anzitutto mascherare la vera ragione della crisi che è già tutta in nuce nella contraddizione dialettica tra forze produttive capitalistiche e rapporti di produzione capitalistici. Questa contraddizione ha un carattere oggettivo ed è alla base della crisi generale del modo di produzione capitalistico.

Tuttavia su un punto Severino ha ragione, anche se oggi tale constatazione è diventata banale, ossia sul fatto che il capitalismo nella sua crisi irreversibile si porta dietro anche il vecchio ciarpame ideologico d’accompagno: politica, religione, morale, etica. Ma anche in questo caso Marx ha largamente anticipato le teste di rapa della sua e della nostra epoca:

Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione.

(*) Con lo sviluppo della grande industria e con la sussunzione della scienza nel capitale, aumenta enormemente la forza produttiva del lavoro. Tutti gli aspetti di tale processo e delle contraddizioni che in esso si sviluppano è stato oggetto dell'analisi critica di Marx. Negare questo fatto non è solo un mistificazione ma una sciocchezza.
Dal momento che il cosiddetto "progresso tecnico" è semplicemente "progresso delle tecniche capitalistiche", ogni feticizzazione della tecnica è fuori luogo. Infatti, dal lato della classe operaia, esso si manifesta come aumento della produttività e dell'intensificazione del lavoro; dal lato del capitale, come accrescimento del tempo di pluslavoro. Perciò, dal lato del progresso delle tecniche capitalistiche di produzione, tale sviluppo non ha dunque un significato univoco sia per la casse operaia e per i suoi sfruttatori, così come diverge per entrambe le classi il significato di progresso sociale.
In sintesi, per forze produttive capitalistiche dobbiamo intendere in primo luogo la classe dei lavoratori produttivi (di capitale) che è la principale forza produttiva. Per rapporti di produzione e di scambio si intende tutti quei rapporti oggettivi, cioè indipendenti dalla coscienza, che si stabiliscono tra gli uomini nella realizzazione del prodotto sociale e nella successiva ripartizione di esso. I rapporti di proprietà dei mezzi di produzione sono, tra i rapporti di produzione, quelli essenziali poiché da essi dipende la forma di tutti gli altri.
Nell'àmbito di tali rapporti, cioè i rapporti di produzione capitalistici, svolge un ruolo fondamentale l'opposizione interna tra valore e valore d'uso rinchiusa nella merce, sia perché è sulla distinzione tra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro che si fonda l'intera società capitalistica, il suo sviluppo e la sua rovina, sia perché la contraddizione interna alla merce rimanda al duplice carattere del lavoro, vale a dire al movimento in senso inverso della massa dei valori d'uso, da una parte, e dei valori, dall'altra, in seguito all'aumento della forza produttiva del lavoro. Poiché nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo per il processo di valorizzazione (e in tal senso vanno viste le tendenze necessarie ad accorciare il tempo di lavoro per mezzo dello sviluppo della tecnica), ne consegue che la contraddizione tra valore d'uso e valore di scambio tende a divaricarsi sempre più.
La dinamica di tale divaricazione consegue nella sostituzione di lavoro vivo con sistemi di macchine sempre più sofisticate e ciò è alla base della crisi generale storica del modo di produzione capitalistico. Da ciò consegue – ne ho parlato spesso – la teoria marxista della crisi che è anche e soprattutto la teoria della necessità del comunismo, della sua possibilità oggettiva.

3 commenti:

  1. Fine del capitalismo. Crollo dei valori.
    Più che la crisi è la fine del capitalismo
    Marx lo aveva previsto ma era prevedibile da chiunque avesse un minimo di buon senso.
    Quando il "capitale variabile" (schiavi) aumenta a dismisura (7 miliardi di individui) la straordinaria offerta di mano d'opera fa diminuire i salari fino a farli arrivare praticamente a 0.
    Inoltre la produzione di merce che genera profitto è destinata a rallentare se non a fermarsi perché abbiamo già tutto e non ci serve altro (anche in Cina, Brasile, India dopo il boom si fermeranno).
    Non possiamo possedere 10 automobili a testa e 5 tv al plasma in ogni stanza.
    Dobbiamo almeno aspettare che si rompano o che escano nuovi modelli che producano sostanziali vantaggi (economicità d'esercizio, minor inquinamento, etc).
    Oggi la tecnologia corre più dell'obsolescenza (già bassissima) delle merci e mette in crisi la produzione.
    I macchinari sostituiranno a breve gli ultimi operai rimasti (e quindi addio al capitale variabile).
    La mano d'opera sta per essere sostituita quasi completamente da robot.
    Qualsiasi ragionamento sull'etica va ridiscusso.
    Quando 7 miliardi di persone hanno fame saltano le regole ed il pianeta si trasforma in un gigantesco Colosseo in cui solo i gladiatori più forti sopravviveranno.
    Sono inoltre crollati quei "valori" (religione, morale) che, giusti o sbagliati, costituivano una guida, un faro che indicava la strada da seguire e che manteneva un minimo di ordine sociale.
    Siamo immersi in un cambiamento epocale in cui il lavoro (inteso come mano d'opera) sarà sempre più sostituito da macchinari (robot) sempre più autosufficienti che renderanno più o meno inutile l'intervento diretto dell'uomo.
    I cervelli saranno sempre più sostituiti da computers (già ora andiamo bene).
    La discussione potrebbe partire da qui.
    E sarebbe a mio avviso oltremodo interessante perché "potenzialmente" potrebbe far nascere idee nuove di reinterpretazione della vita sulla terra.
    Ciao.

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  2. Scusi Olympe, il brano asteriscato di chi è?
    Ancora saluti da F.G.

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