mercoledì 20 luglio 2011

Diego Fusaro: Marx sconfessato dalla storia del Novecento

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Dedicato a Luca
In una nota al mio post dal titolo Filosofi dell’avvenire: Diego Fusaro, scrivo che l’unico cenno incidentale fatto dall’autore del libro Bentornato Marx, non già in richiamo alla teoria marxiana della crisi (di cui non c’è traccia), ma alla legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto (che della teoria marxiana della crisi è la premessa fondamentale), si trova a pagina 285, laddove Fusaro se la squaglia così:

«Marx crede di poter inferire l’esistenza di una “legge tendenziale del saggio di profitto” [sic!]. Ciò avvalorerebbe l’idea marxiana (sconfessata però dalla storia del Novecento) che vuole il capitalismo in esaurimento per progressiva carenza del suo ingrediente principale: il profitto».




Ecco quindi la legge liquidata come “un’idea sconfessata dalla storia”. In due righe, affogate in 330 pagine di ricami esegetici sul feticismo e la libertà. Dal che dovremmo dedurre, ad esempio, che la teoria del plusvalore è assolutamente inconciliabile con la legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto e viceversa. Tutto nel libro di Fusaro è falsato o deformato con una sicurezza che fa sospettare un ambizioso disegno. È difficile e penoso prendere il toro per le corna, o anche solo l’asino per le orecchie, quando si procede con tale sprezzo e con una terminologia imprecisa e senza rendere conto di ciò che Marx ha scoperto, trattando una legge che ha forza di natura come un’illusione bislacca. Inutile osservare quindi – come già scrisse Marx – che “le leggi di natura non possono mai essere annullate” (*).

Non solo la legge, ma la realtà concreta delle crisi sarebbe stata sconfessata “dalla storia del Novecento”, e non già, com’è evidente, confermata ad abundantiam. Se da un lato si assiste alla diminuzione progressiva del saggio di profitto e dall’altro si manifesta un “incremento costante della massa assoluta del plusvalore acquisito o del profitto”, scrive Marx, allora come può il movimento crescente del profitto dar luogo alla crisi per “esaurimento del suo ingrediente principale”? Domanda a cui Fusaro evidentemente ritiene superflua la risposta, ma che andava illustrata al lettore che ha acquistato il libro.

Non è mia intenzione polemizzare con uno spettro che nega a Marx l’indubbio merito di aver finalmente portato a soluzione un problema al quale inutilmente si era “affaticata tutta l’economia politica”, di aver cioè scoperto una legge di enorme importanza nella produzione capitalistica”, ovvero la causa fondamentale, anche se non esclusiva, delle crisi che hanno costellato la storia del capitalismo, segnatamente del suo processo di accumulazione. Né è mia intenzione dimostrare in questa sede (altri l’hanno fatto e senz’altro meglio di quanto potrei fare io), come solo l’intervento costante e massiccio dello Stato come volano dell’economia, cioè agendo attraverso la spesa pubblica come controtendenza (**) alla legge di caduta tendenziale del profitto, abbia permesso al sistema di mantenersi in piedi e anzi di allargare a dismisura l’accumulazione. Almeno fino ad oggi, ma non senza quelle gravi contraddizioni e disequilibri che ben conosciamo nella specie di un enorme aumento del debito pubblico.

Quanto dev’essere invece sottolineato è come le crisi cicliche, mai nemmeno menzionate incidentalmente da Fusaro, esprimono periodicamente le difficoltà dell’accumulazione. Infatti il plusvalore sociale, se da un lato è in grado di valorizzare una parte del capitale esistente, dall’altro è però insufficiente a valorizzare l’intero capitale, e nella realtà concreta, storica, per tale motivo s’inaspriscono la concorrenza e la pressione contro la classe operaia per la riduzione dei salari e l’aumento dei ritmi di lavoro, la concentrazione, la centralizzazione e la delocalizzazione del capitale sia industriale che speculativo, la piena liberalizzazione del mercato dei capitali da un lato e dall’altro la formazione di mega-monopoli, il ruolo preponderante della finanza negli assetti proprietari, la divisione tra proprietà e controllo, insomma la fase più alta dell’imperialismo. Senza rendere conto di questi fenomeni che ci riguardano ogni giorno, che senso avrebbe “ripartire da Marx”?

A fronte di tutto questo, le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema. Nel momento in cui ristabiliscono (anche se in modo violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di accumulazione capitalistica riprende, benché sempre più a fatica, come possiamo oggi verificare nella sua fase di crisi generale-storica, approssimandosi sempre di più le fasi di crisi e il limite oltre il quale il plusvalore comincia nuovamente a ridursi e quindi il momento in cui il processo si arresta. La tendenza allo sfacelo, in quanto “tendenza oggettiva di fondo” del capitalismo non è più solo “un’idea” ma diventa persino sensazione e luogo comune della borghesia.

Il punto limite del modello teorico di Marx, quello che segna l’arresto dell’accumulazione e, di conseguenza, lo sfacelo del modo di produzione capitalistico, nella realtà non coincide con il “crollo spontaneo” o automatico del capitalismo. E non solo perché l’istante limite del modello è un istante logico e non immediatamente storico, ma anche perché il movimento reale è più complesso, multiforme e variegato del movimento concettuale che ne riflette le leggi, tanto è vero – come dice Lenin – che “il fenomeno è più ricco della legge”.

La crisi generale-storica che investe il modo di produzione capitalistico nella sua totalità e che si estende nel tempo (come vediamo bene) quanto più aumentano le difficoltà di valorizzazione, è un processo, una situazione oggettivamente rivoluzionaria, il presupposto per l’intervento attivo organizzato. In quali modi e forme il tempo lo dirà, e comunque già lo vediamo con l’estendersi delle rivolte di piazza e il sequestro dei manager da parte dei salariati (Francia), a cui però non si è ancora aggiunta alcuna azione diretta di massa contro i  gestori di fondi, i manager transnazionali e i grandi ricchi. Del resto lo stesso modo di produzione capitalistico per affermarsi a livello globale ha avuto bisogno di non meno di mezzo millennio di storia, costellata di progressi esaltanti ma anche di errori e d’indicibili atrocità. Caso mai c’è da chiedersi se questo sistema economico-sociale non ci stia portando anche verso una crisi di civiltà; ma questo è un altro discorso.

(*) Lettera di Marx a Kugelmann, Londra, 11 luglio 1868.

(**) Le controtendenze alla legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto sono state indagate dallo steso Marx, esse non sono elementi introdotti dall’esterno nel modello, ma propri del modello; sono gli “anelli di congiunzione” che consentono l’ascesa dal piano della teoria a quello della storia. Non dimentichiamo che il modello marxiano è fondato sulla dialettica e solo con la dialettica è possibile la sua corretta interpretazione.

7 commenti:

  1. Se quel "tal Luca" sono io, grazie. Troppo onore.

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  2. ti dovevo una risposta
    e poi sei sempre molto gentile

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  3. Il titolo del libro mi ha tratto in inganno (Pensavo ad una tesi seria sull'attualità del pensiero economico di Marx).

    Mi è bastato leggere l'affermazione che "Marx era un filosofo e non un economista" per comprendere che proseguire la lettura sarebbe stata solo una perdita di tempo!

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  4. "Caso mai c’è da chiedersi se questo sistema economico-sociale non ci stia portando anche verso una crisi di civiltà; ma questo è un altro discorso".

    In che senso ci sta portando verso una crisi di civiltà?
    Può spendere due parole?
    Grazie


    Un vecchio lettore

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    1. volentieri, non appena ne avrò occasione. oggi sono in partenza. saluti

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    2. Visto che è ritornata da giorni, mi chiedevo se poteva scrivere a proposito della crisi di civiltà a cui questo sistema economico-sociale, ci sta portando.

      Un vecchio lettore

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    3. quando vengono messi in discussione i diritti fondamentali vigenti fino a ieri in nome del profitto non si tratta forse di un aspetto della crisi di civiltà? se dal lato tecnologico assistiamo a indubbi progressi, prendiamo atto che il modo nel quale questo progresso spesso viene usato è per scopi che sono tutt'altro che finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita. se per esempio i miglioramenti tecnici della produzione servono a generare precarietà e disoccupazione, non mi pare si possa parlare di un fatto positivo, né quando comportano il saccheggio indiscriminato delle risorse, l'inquinamento, ecc.
      saluti

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