domenica 21 settembre 2014

Chi dirige l'orchestra è sempre la borghesia


La facilità di scambio universale, raggiunta coi nuovi mezzi di comunicazione e la nuova legislazione sul commercio, ha dato vigore a quelle economie locali e regionali che un tempo, se pure non erano poste ai margini del commercio mondiale, erano costrette a fare anzitutto riferimento all’ambito economico, politico e amministrativo nazionale a causa delle barriere doganali, di un forte settore pubblico in economia e di altre complessità.

Questa rivoluzione che apre le frontiere al profitto e instaura nuovi rapporti economici internazionali, dà vigore ai movimenti separatisti che vediamo agire specialmente in Europa. Questo ha come effetto il formarsi di una frazione borghese locale con interessi suoi propri e che nel suo movimento espansivo agisce in posizione conflittuale rispetto a uno Stato centrale il cui debito pubblico diventa sempre più divorante e concorrente del profitto. Sfruttando il particolarismo locale e il malcontento di altri ceti sociali, questi movimenti rivendicano l’indipendenza, quantomeno amministrativa, in modo da sottrarsi agli oneri, specialmente tributari, ben più elevati dei benefici che riceve in cambio.



In tal modo queste regioni più ricche e progredite rispetto al resto del paese, svincolandosi dalla morsa dello Stato nazione e aggregandosi ad aree economiche ad esse più omogenee, senz’altro vincolo che quello economico, potranno meglio concentrare i loro sforzi e le loro risorse nell’ambito della contesa economica internazionale.

L’autonomismo locale segue dunque, da un lato, l’impronta cosmopolita e disgregatrice data dal movimento del capitale, ma dall’altro coltiva l’illusione di ogni nazionalismo, ossia quella di poter reggere la forza d’urto della concentrazione e centralizzazione del capitale, la sua necessità di dover rivoluzionare continuamente i rapporti di produzione e quelli di scambio.

Nella contesa capitalistica l’idea del frazionamento territoriale e dell’affrancamento amministrativo si deve misurare con la tendenza più profonda dell’imperialismo, ossia con il monopolio, innanzitutto quello finanziario che in pochi paesi concentra la maggior parte del capitale liquido, e sono proprio le élite di quei paesi a governare il mondo.

Da questo lato, il piccolo o anche medio imprenditore veneto, catalano o slovacco, non può nulla, contro la tendenza in cui s’è diviso il mondo, ossia quella di un piccolo gruppo di Stati usurai che controllano le monete e i flussi finanziari e per il resto un numero molto grande di Stati vassalli e debitori. E tuttavia, la ragione economica dalla quale muove l’autonomismo è molto forte e non potrà che produrre conseguenze.

Il leghismo di marca padana, di là di ogni considerazione sulle figure ridevoli che ne hanno incarnato la dirigenza, da un punto di vista politico non avrebbe potuto ottenere nulla di concreto per vie pacifiche.  A fare muro è una classe dirigente, politica e burocratica molto stratificata, spesso organizzata in clan e niente affatto amante dei cambiamenti, che ha ben chiaro che concedere statuti di autonomia alle regioni del settentrione che ne sono sprovviste, significherebbe perdere in gran parte il gettito fiscale che garantisce il loro parassitismo e la secolare immobilità. A nulla serve, in nome di un campanilismo opposto, contestare permalosamente ciò che si mostra come una realtà oggettiva (anzitutto contabile), e che come realtà storica è stata descritta in modo impareggiabile da autori come Federico De Roberto (non solo ne I Viceré), Giuseppe Tomasi, Pirandello e altri.


Per quanto riguarda in generale i proletari di queste realtà locali che rivendicano l’autonomia e/o l’indipendenza in alleanza con la frazione borghese locale, ottenuto lo scopo delle rivendicazioni autonomistiche, potranno ricavare qualche beneficio, ma nel complesso la loro condizione essenziale non cambierà, poiché sia la borghesia di Stato e sia la frazione borghese autonomista sono nemiche giurate del proletariato. Ciò che invece interessa è cogliere in questa contraddizione un altro dei nodi irrisolti del capitalismo, non ultimo di quello italiano.

6 commenti:

  1. .....imprenditore veneto......
    Un pò di colore : i veneti che siano in Nuova Caledonia o nelle foreste canadesi tra loro parlano in veneto (anche con gli altri), sia che chiedano un gelato o stiano per acquistare la General Electric sempre in veneto parlano (anche ai massimi livelli non fanno un minimo sforzo di correggere l'accento). Proletario o imprenditore che sia. Veri interclassisti. Se dai del veneto ad un veneziano ti accoltella.
    Il capitalismo non è potente è potentissimo ma prima che riesca a farci superare l'età dei Comuni, morti di fame ma morti di fame veneti.
    (Catalani o slovacchi,problemi loro).

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    1. il suo è uno stereotipo che, come ogni luogo comune, ha un suo fondamento, e però resta un truismo.

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  2. Le faccio un appunto all'articolo: i Viceré di De Roberto non De Ruggero, per il resto e nel merito, illuminante come sempre.
    saluti
    AG

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    1. grazie, confusone con guido de ruggiero, il filosofo, e non è la prima volta!

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  3. Se l'orchestra la dirige la borghesia non è certo colpa sua, qualcuno glielo permette (noi).
    Piccolo esempio ma credo che c'entri col discorso.
    Discorrendo con diverse persone sulla riforma Job Act esce fuori che questa riforma del mercato del lavoro è necessaria per essere come le altre parti d'Europa, tipo Germania, Danimarca, e così via. Solo così ci sviluppiamo.
    A parte la retorica dello sviluppo in bocca a renziani e simili, c'è gente convinta che diventiamo efficienti come i tedeschi con questa roba, o che avremo un welfare come gli svedesi. Certo, nei paesi scandinavi l'università pubblica è gratuita, finora, per dirne solo una, noi tenderemo ad essere come loro, con il problema del debito e tutto il resto, democraticamente in carrozza.
    Ora, se un bel pò di gente la pensa così, compresa buona parte dell'intellighenzia, non si capisce perché la borghesia italiana non possa dirigere l'orchestra in tranquillità.
    In ultimo, farei notare un particolare che rende l'idea secondo me dell'ipocrisia delle legislazioni nazionali sulla materia dei licenziamenti.
    Nella carta dei diritti fondamentali europea all'articolo 30 c'è scritto del diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato.
    I paesi europei devono sottostare a questa carta, ebbene un diritto fondamentale si traduce nelle leggi in una mancia, l'indennità. Pure nei casi di possibilità di reintegro, se non erro in paesi come la Germania se l'impresa è riconosciuta colpevole di licenziamento ingiustificato può scegliere lei, la parte colpevole, se reintegrare il lavoratore o dare l'indennità. Il colpevole sceglie, più di così che si vuole, per me è un delirio dovuto al fatto palese che chi comanda non è la politica ma il padronato ma un pò di fuffa per l'opinione pubblica ci vuole, alla salute dei democratici.
    Saluti,
    Carlo.

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    1. è proprio così, il disinteresse è pressoché totale
      cordialità

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