martedì 28 marzo 2023

Una rivoluzione di portata epocale

 

Chissà che reazione avrebbe avuto Karl Marx se gli avessero detto che senza packaging non ci sarebbe stato lo sviluppo del capitalismo quale l’abbiamo conosciuto in poco più di un secolo (il cartone arriva solo alla fine dell’800, la plastica molto dopo). Il packaging protegge le merci dal punto di vista sanitario, logistico e normativo, ha sostenuto lo sviluppo delle grandi aziende, fatto nascere i marchi e permesso la tracciabilità (offre uno spazio per informazioni e comunicazioni).

La vendita dei prodotti sfusi non esiste più, salvo pane, frutta, verdura e pesce, ma l’imballaggio industriale è sempre più “avvolgente” anche per questi alimenti. Il cibo rappresenta oltre il 60% del mercato degli imballaggi flessibili, tipo il polietilene, che viene utilizzato principalmente per gli imballaggi in film plastico (è una resina termoplastica semicristallina leggera con forte resistenza chimica e basso assorbimento di umidità).

Il mercato globale degli imballaggi è stato valutato a 1.002 miliardi di dollari nel 2021, e si prevede che raggiungerà 1.275 miliardi di dollari entro il 2027. E però il packaging è una delle principali fonti di inquinamento avendo tanta parte nella produzione dei rifiuti, che sono un altro punto cieco della modernità. Qualcosa rispetto a questo problema s’è fatto, ma siamo ben lontani da soluzioni adeguate. L’UE ha applicato una tassa sui contenitori monouso, tassa che poi inevitabilmente ricade sui consumatori (*).

Quella del riciclo dei rifiuti è un’economia come le altre. Vetro e alluminio sono rincarati tantissimo e questo è uno dei motivi (l’altro è che la Cina non è più disposta a fare da discarica) per cui i grandi marchi del beverage stanno puntando su contenitori come le bottiglie di “carta” (poliaccoppiato, tipo il Tetra Pak) o gusci di cellulosa e plastica come la Coca Cola.

Quando sento parlare di “economia circolare”, di “sviluppo sostenibile incentrato sulla necessità di una maggiore sobrietà nell’uso delle risorse naturali”, e altri concetti del genere, il primo pensiero che mi viene è questo: questi sono discorsi in malafede. La logica economica insita nel capitalismo è, in larga misura, antagonista alla logica specifica dello sviluppo sostenibile.

Mentre lo sviluppo sostenibile pone la questione dei bisogni al centro delle preoccupazioni e degli obiettivi, il capitalismo si basa inevitabilmente sulla ricerca della valorizzazione del capitale. Non può cambiare la sua natura, procedere contra legem. In secondo luogo, il rapporto con il tempo non è lo stesso. Il capitale privilegia il breve termine mentre lo sviluppo sostenibile è particolarmente interessato al lungo termine (la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni).

Le determinazioni più fondamentali del capitalismo, che agiscono come leggi di natura, sopravanzano sempre le determinazioni della politica, ossia la legislazione, che deve giocoforza inseguire. Il riformismo può ottenere dei risultati, ossia mitigare certi effetti del mercato, ma poiché non può superare l’esistenza di un antagonismo sistemico, ossia venire a capo della contraddizione tra la logica della sostenibilità e la logica sottostante al sistema economico dominante. Sono possibili compromessi per far coesistere le due logiche, ma essi resistono fino a un certo punto.

Il capitalismo non riguarda i bisogni umani (è indifferente produrre carri armati o siringhe), il suo scopo è la valorizzazione del capitale, la quale nei cicli più favorevoli determina un aumento dei salari e di redditi indiretti, che ha portato a un aumento senza precedenti dei consumi. Questo periodo segna l’ascesa dei beni domestici, dell’auto e anche di alcuni beni pubblici: reti di approvvigionamento idrico ed elettrico, altre infrastrutture civili e, naturalmente, sanità e istruzione.

Questi incrementi significativi di produttività hanno consentito allo Stato di prendersi la sua quota di crescita, attraverso la tassazione, e quindi di garantire la fornitura dei beni pubblici in questione, favorendo a sua volta la crescita economica. Ciò tuttavia non elimina la contraddizione tra “valore di scambio” delle merci e il “valore d’uso” dei beni prodotti, tra produzione sociale della ricchezza e appropriazione privata del surplus, che è poi all’origine delle crisi economiche.

I tentativi di superare questa contraddizione, messi in opera nel corso del XX secolo, al massimo hanno consentito di realizzare in paesi economicamente arretrati un capitalismo spurio, di consentire il costituirsi di un’accumulazione originaria, di una forte industria di base, ma in definitiva hanno tradito l’obiettivo, mancando di offrire una adeguata strutturazione dei bisogni sociali. In altri termini, la formalizzazione burocratica dei bisogni, in un ambiente economico arretrato e volto principalmente all’incremento dell’industria di base e degli armamenti, non poteva tradursi in una vera risposta alla domanda sociale di beni di consumo.

L’esempio forse più virtuoso e se vogliamo “romantico” (o meno brutale) dell’esperimento “socialista” è stato quello di Cuba. Anche in tal caso, per una complessa serie di motivi, non si è eliminata una diffusa penuria e non si è superato un certo stato di sottosviluppo materiale. Oggi, invece, con lo sviluppo tecnologico e il livello inedito raggiunto dalla produttività del lavoro, è possibile guardare con occhi nuovi al superamento delle storiche antinomie indotte da motivi di competitività e di valorizzazione del capitale privato, garantendo al contempo alte condizioni per la solvibilità della domanda e superando le forti disuguaglianze di reddito e il consumo di beni privati da parte di una frazione privilegiata della popolazione.

Tutte cose che non sono realmente all’ordine del giorno dell’agenda politica, che ad ogni modo non sono realizzazioni da affidare al breve periodo e possono essere affrontate solo sotto l’incalzare di particolari condizioni economico-sociali che stanno maturando. Per chiarezza: nulla a che vedere con il richiamo all’immoralità del capitalismo e dei suoi attori, insensibili alle disgrazie dei poveri e alle sfide dello sviluppo sostenibile. Le intenzioni individuali non sono in discussione, sono in questione le caratteristiche strutturali del sistema e una rivoluzione di portata epocale.

(*) I rifiuti non sono sempre esistiti, o almeno non in queste gigantesche proporzioni. Prima del XIX secolo, vigeva un’economia di vero riciclo dei rifiuti, che peraltro erano in rapporto a consumi mediamente scarsi e i materiali di scarto venivano usati per fare altro: gli stracci per fare la carta, i rifiuti organici nei campi, l’urina per la fabbricazione dei tessuti, eccetera. Anche i vestiti venivano riciclati in famiglia, e per quanto riguarda gli utensili non più in uso, in Veneto è noto l’adagio: roba de canton, non perde mai de stajon, che tradotto significa non si butta nulla.

Napoli fu un esempio luminoso del riutilizzo dei rifiuti a scopi agricoli! È molto nota la descrizione che ne diede Goethe, ma vale la pena ricordarne alcuni passi:

Moltissimi sono coloro – parte di mezza età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’asino. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo. Lo spettacoloso consumo di verdura fa si che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalate e aglio, e sono rifiuti straordinariamente ricercati. [...] E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! (Viaggio in Italia: Napoli, 27 maggio; Oscar Mondadori, p. 371).

Quando sciopera la nettezza urbana, o non funziona come a Roma e simili, ci rendiamo conto del volume di spazzatura che produciamo ogni giorno e che di solito scompare come per magia.

I netturbini sono l’ingranaggio essenziale del sistema di consumo: i rifiuti devono essere rimossi per mantenere l’ordine, per continuare a produrre e a consumare. I netturbini sono destinati a non farsi vedere, perché intervengono la mattina all’alba o anche prima, e dunque il loro lavoro resta invisibile: la strada è spazzata e la monnezza raccolta. Li vediamo solo quando il loro camion blocca una strada e interrompe la fluidità del traffico. Il loro lavoro è fondamentale, ma nessuno vuole che i propri figli facciano i netturbini, e ciò non è legato alla difficoltà delle condizioni di lavoro o al salario.

Nel pensiero igienista che ci accompagna dal secolo scorso, c’è tutta un’immaginazione spaventosa intorno alla monnezza: abbiamo paura delle epidemie, dei topi, dei cadaveri di animali e perfino umani, di siringhe infette e di altro ancora che potrebbero sopraffarci. Ci sono certamente reali problemi di salute pubblica, ma la fantasia esagera la portata di questi rischi poiché queste cose in fondo accadono raramente, salvo per coloro che ai margini di favelas e simili scavano il sudicio filone della spazzatura.

Eppure nessuno sceglie il mestiere di netturbino come prima scelta. Prevalentemente sono persone senza qualifiche e migranti che non sono riusciti a trovare un altro lavoro. Spesso hanno vissuto uno, anche due o tre licenziamenti, e sono pronti a tutto pur di trovare un’occupazione stabile e un salario sicuro.

Il vero problema sono le rappresentazioni comuni che ci facciamo dei netturbini, tanto che molti di loro evitano di dire qual è il loro lavoro per evitare lo stigma. 


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