lunedì 20 marzo 2023

De Gasperi e Molotov


Parigi, 1946. De Gasperi e Molotov s’incontrano per la prima volta. De Gasperi era sempre nervoso quando doveva incontrare qualche grosso personaggio straniero. In quel caso anche di più: la posizione russa sulla questione di Trieste si era già rivelata più che intransigente, e la Francia, con Georges Bidault a capo del governo provvisorio francese, non era da meno.

De Gasperi cercò di addomesticare il ministro sovietico parlandogli di quello che era stato fatto per la democrazia in Italia e delle sue concezioni sociali: gli accennò della riforma agraria, gli parlò di 200.000 ha da distribuire e che sperava di potere, fra non molto, raddoppiare. De Gasperi era sprofondato in una poltrona; Molotov, come al solito, sedeva preciso sull’orlo della seggiola.

«Duecentomila ettari», gli fece Molotov guardandolo dritto ed imperioso attraverso gli occhiali, «e lei chiama questo una riforma agraria? Riforma agraria significa togliere tutta la terra a chi non lavora».

Il comunismo è stabilire che nessuno ha il diritto di possedere i mezzi di esistenza a titolo privato, né di escludere altri dall’accesso a questi mezzi. Non è tanto l’equità che deve essere stabilita sulla base dei principi di giustizia, ma l’uguaglianza reale tra gli individui, sia economicamente che socialmente.

Qui però si è aperto un problema. I vecchi marxisti, utilizzando Marx in una prospettiva riduzionista, avevano costruito la propria strategia in due fasi: prima prendere il potere statale, poi cambiare la società. Per una lunga serie di motivi non hanno mantenuto le loro promesse, e nemmeno potevano. La critica delle contraddizioni di una società sfruttatrice sono diventate, nella traduzione dei principi del bolscevismo prima e dello stalinismo poi, una copertura per pratiche oppressive, un modo per “cancellare la durezza del presente sotto la foschia di un futuro fittizio”.

La soluzione di questo problema non si trova nei libri, nelle dottrine, tuttavia non si può neppure risolvere la questione come se la storia non ci avesse detto nulla, specie a proposito dell’onnipotenza del “Partito” che ci insegna la verità della storia e agisce sulla base di una “verità oggettiva” operante nel movimento delle cose. Su questo punto sarebbe necessario aprire un lungo discorso che qui non può avere luogo.

L’esperienza fortemente negativa di quei regimi fu sufficiente per rigettare tout court l’idea stessa di comunismo, identificandolo con un motivo filosofico obsoleto, e per rintracciare in Marx alcune origini che portano a quegli “eccessi”. L’ex sinistra comunista si trasformava in liberalsocialista (un ossimoro). Un socialismo liberale che preserva un sistema polarizzato e diseguale, che utilizza tutti gli slogan tipici: un egualitarismo formale, un mondo “verde”, un’utopia multiculturale, la difesa dei diritti civili. Da Carlo Marx a Carlo Rosselli, se va bene, altrimenti Carlo Calenda.

Per Rosselli il socialismo era inteso “in primo luogo come una rivoluzione morale”, che “come tale, possa realizzarsi oggi nella mente dei migliori, senza dover attendere il sole del futuro”; “il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce quotidianamente dal basso, nelle coscienze delle persone, nei sindacati, nella cultura, attraverso le innumerevoli, libere e autonome esperienze del movimento operaio”. Puntualizzava ancora Rosselli: “Che la libertà, presupposto della vita morale sia dell’individuo che delle comunità, è il mezzo più efficace e il fine ultimo del socialismo”.

L’Inghilterra della seconda metà del XIX non era forse la società più progredita e più libera del pianeta? Gli Stati Uniti d’America non passano forse di essere il paese delle libertà? Lo vediamo bene, i principi di per sé possono essere mistificazione di un’oppressione materiale.

Quello delineato da Rosselli è un tipo di socialismo umanitario, filantropico, democratico, che diventa semplice figura retorica. Auspica miglioramenti amministrativi senza alterare i rapporti di produzione borghesi, e tali rapporti non possono cambiare col beneplacito della borghesia, né del resto per semplice volontà dei benintenzionati. Dunque non resta che tenerceli ben stretti e puntare sui diritti civili.

I diritti civili e politici non sono garanzie sufficienti per una vita libera e decorosa (quanto valgono i diritti se non abbiamo il potere di farli rispettare?). Tra le libertà borghesi vi è quella, per eccellenza, del “diritto di proprietà”; ed è la più ingannevole delle libertà, poiché in realtà nasconde la consacrazione della sottomissione, della dipendenza, della disuguaglianza sostanziale di classe. La partecipazione del popolo alla sovranità, come recita la Costituzione, è condizionata proprio dai rapporti di proprietà, da cui dipende in gran parte il livello di ricchezza e d’istruzione. 

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