Avremo un’economia dove i costi di produzione saranno (sono) molto più alti e quindi avremo un tenore di vita medio che diventerà più basso. Fino a che punto e come sarà distribuita questa riduzione di reddito disponibile? È una domanda che si farà sempre più viva nei prossimi mesi e anni. Al momento gli effetti dell’inflazione sono ancora, per la maggioranza della popolazione, degli schiaffetti. Diventeranno pugni nello stomaco.
Si potrà osservare che per i bisogni essenziali non abbiamo scelta, dobbiamo pagare. Una simile considerazione può venire solo da persone che fin dall’infanzia sono state abituate a lavarsi con l’acqua calda e senza fretta mentre scorre. Ci sono anche personaggi ineffabili che con un’inflazione reale attorno al 10% dichiarano che essa non è un problema, e “anzi favorisce una trasformazione economica che è necessaria”. Fateci caso, a sostegno di certe coglionerie ci sono sempre dei premi Nobel per l’economia (premio non previsto dal testamento di Alfred Nobel).
Non c’è niente di meno convenzionale, di meno fluttuante nel tempo dei “bisogni essenziali”. Non serve chiedere lumi in proposito agli ucraini, è ciò che fanno milioni di persone ogni giorno anche in Italia, nell’indifferenza generale. Serve ripassare un po’ di storia recente, cari anatroccoli.
Per buona parte delle persone nate negli anni 1970 e in seguito la parola stagflazione non dirà granché. La stagflazione fu un fenomeno caratterizzato dalla congiunzione di alta inflazione e recessione. Uno strano fenomeno, poiché le crisi capitalistiche di solito sono segnate da effetti quali l’inflazione oppure da recessione.
Nel 1946 un barile di petrolio (159 litri) costava 1,17 dollari e ancora nel 1970 prezzava un paio di dollari (in rapida svalutazione). Le monarchie dell’oro nero bussavano a Fort Knox per convertire i loro dollari in oro giallo, secondo un rapporto di cambio fisso. Il 15 agosto 1971, il presidente Nixon, senza consultare nemmeno uno degli altri paesi capitalistici, sbarrò il portone in faccia a chi bussava per convertire biglietti di carta colorata in libbre di carne.
Si passava così dal “gold standard manovrato e diretto”, forma camuffata di dollar-standard, al dollar-standard esplicito, sanzionando così nel modo più chiaro, senza più nemmeno i veli di Bretton Woods, la supremazia mondiale della moneta americana e la volontà di conservare e perfezionare il loro prediletto meccanismo automatico di esportazione delle contraddizioni (vale anche oggi come allora, anche se in misura più attenuata).
In altri termini, gli Stati Uniti, avendo il privilegio, grazie alla funzione centrale del dollaro, di creare illimitatamente “moneta mondiale”, potevano permettersi nel modo più libero di emettere dollari a piacere e scaricare tranquillamente le ondate inflazionistiche così create sugli altri paesi (la Francia di de Gaulle giunse addirittura al punto di chiedere esplicitamente il ritorno al gold standard).
Questo fu il primo aspetto causale della crisi. Negli anni seguenti il prezzo del petrolio, senza il quale il nostro mondo semplicemente non esiste, sfiorò i 40 dollari il barile e ciò può dare l’idea del brusco aumento generale dei prezzi. Si è voluto far credere che la causa della crisi fosse petrolifera, che la responsabilità fosse l’avidità degli sceicchi, ma al contrario la crisi petrolifera fu invece un suo effetto. L’altro aspetto all’origine della crisi andava ricercato nella sovrapproduzione assoluta di capitale che coinvolse l’intera area capitalistica, e che i dati confermavano essere iniziata ben prima della crisi del petrolio (*).
Per gli economisti la soluzione si presentava teoricamente in modo diverso: recessione e inflazione non possono durare. Infatti, con la recessione, la domanda diminuisce, è distrutta. Tra i produttori e tra commercianti è guerra per vendere, e dunque abbassano i loro prezzi di vendita. L’inflazione sarà quindi sconfitta.
Questo era stato osservato altre volte. Negli anni Settanta le cose però andarono diversamente. In quegli anni l’economia ristagnava quasi ovunque e nello stupore degli economisti l’inflazione restava a livelli elevatissimi. Quella crisi travolse, oltre a salari e risparmi, anche la buonanima di Keynes, la sua baracca e i suoi burattini.
Prese piede una corrente “liberale”, anti-keynesiana, che oggi definiamo neoliberista. In un certo senso si rifaceva ai neoclassici e, in particolare, alla scuola monetarista. Ne erano i campioni, per citare i più noti, Friedman in USA e Rueff in Francia (E. Scalfari dedicò una prefazione a un libro di Rueff, L’errore monetario dell’Occidente, in cui dimostrava di non aver capito granché di ciò che sosteneva l’Autore).
Secondo costoro, la politica economica non può né prevedere, né evitare le crisi; peggio ancora, può solo favorire la nascita e lo sviluppo delle crisi ostacolando l’andamento dell’economia di mercato dagli choc squilibranti. A loro giudizio le “misure sociali” d’ispirazione keynesiana impediscono ai meccanismi di mercato di funzionare e di ristabilire l’equilibrio provvisoriamente disturbato.
All’epoca essi stabilirono che la politica economica keynesiana aveva trasformato in grave depressione, accompagnata da inflazione, quella che sarebbe altrimenti stata nient’altro che una passeggera fluttuazione tra due stati di equilibrio di lungo termine, contribuendo invece a scatenare la crisi che doveva combattere.
Al contrario, la politica economica dovrebbe limitarsi alla politica monetaria; in particolare, deve limitarsi al controllo della massa di denaro secondo una regola fissa che sfugge all’arbitrio delle decisioni politiche. Occorre semplicemente calcolare, di volta in volta, un tasso adeguato di aumento annuale della massa monetaria, in rapporto al tasso medio di crescita del prodotto nazionale lordo.
Anche in quel caso, come del resto avviene oggi, l’origine della crisi veniva trasferita, surrettiziamente, dalla sfera della produzione a quella della circolazione. In tal modo, il problema delle crisi del capitalismo perdeva i motivi delle sue immanenti contraddizioni, per assumerne uno di natura politica, segnatamente di politica monetaria. Agendo sulla massa monetaria e sui deficit di bilancio, si diceva, il sistema ritrova il suo naturale equilibrio.
Una teoria più furba che intelligente, che sarà all’origine della definitiva sconfitta delle cosiddette politiche economiche keynesiane, aprendo le porte alla rivoluzione cosiddetta neomonetarista, dalla quale il cervello di molta gente non è ancora guarito.
Oggi, torna l’inflazione e dunque la musichetta degli eredi di Friedman, i cosiddetti “monetaristi”. Ad aggravare la situazione dell’aumento di prezzo delle merci, oltre all’oceano di liquidità immessa dalle banche centrali negli anni post crisi 2008, vi sono cause reali e “dure” alle quali nessuno può sottrarsi, e vi è anche un piccolo assaggio di ciò che la riconversione ecologica ci promette.
(*) «L’interpretazione consueta, la causa di esse [le crisi inflazionistiche] è fatta risalire all’aumento del prezzo del petrolio [...]. In realtà alla rottura dell’equilibrio nel sistema dei prezzi, nella finanza pubblica, nei conti con l’estero, nel cambio, avviene nel 1973, prima dell’aumento del prezzo del greggio che è del dicembre di quell’anno. Le cause vanno ricercate altrove, in Italia piuttosto che su mercati mondiali». [Atti Parlamentari (VII Legislatura), Camera dei deputati, Doc. XXVI, n. 1, Programma triennale 1979-1981 presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri alla Presidenza il 15 gennaio 1979, p. 9].
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