venerdì 18 marzo 2022

Criminali di guerra

 

Mercoledì, mentre il presidente degli Stati Uniti stava lasciando la sala dove aveva pronunciato un discorso televisivo, un giornalista gli ha chiesto se pensava che Putin fosse un criminale di guerra. “No”, ha risposto Biden, e si è spostato fuori dalla telecamera. Poi Biden è tornato, chiedendo al giornalista di ripetere la domanda. “Oh”, disse Biden con un cenno della mano, “penso che sia un criminale di guerra”. Con la serietà di chi ha cambiato idea e ha deciso di volere un contorno di patatine con il suo hamburger.

Il fatto che Biden sia tornato davanti alla telecamera, dimostra una scelta calcolata di personalizzare e aumentare le tensioni a fini di propaganda. C’è un carattere irreversibile in tali affermazioni, poiché l’accusa lanciata da Biden è tra le più gravi possibili. Sollevata contro il presidente di un paese, l’accusa non riguarda semplicemente la colpevolezza per singoli eventuali atti criminali commessi durante lo svolgimento del conflitto, ma quella più generale di essere responsabile di una guerra d’aggressione, di un crimine contro la pace. Tale guerra è la causa di tutti i conseguenti spargimenti di sangue e crimini di guerra.

Le basi legali di questo principio poggiano sulle accuse di crimini di guerra mosse contro ex personaggi della Germania nazista nei processi di Norimberga e dell’Impero giapponese nei processi di Tokyo alla fine della seconda guerra mondiale. I processi hanno stabilito il principio legale internazionale secondo cui complottare e provocare una guerra di aggressione è “un crimine contro la pace” (Principio VI/a dei Principi di Norimberga dallaConvenzione delle Nazioni Unite sui diritti umani, 1950).

Nel 1946 il procuratore capo del processo di Norimberga, Robert H. Jackson, scrisse: “Se certi atti di violazione dei trattati sono crimini, essi sono tali sia che li commettano gli Stati Uniti sia che li commetta la Germania, e non siamo disposti a una norma di condotta criminale nei confronti di altri che non saremmo disposti a invocare contro di noi”.

Tuttavia, mentre gli Stati Uniti sono stati autori dell’elaborazione di questi precetti legali internazionali universalmente vincolanti, da allora Washington ha fatto tutto il possibile per garantire che questi principi non si applicassero mai alle proprie azioni.

La Corte penale internazionale (CPI) dell’Aia è stata istituita nel 1998 con la firma dello Statuto di Roma per perseguire i crimini di genocidio, di guerra e di aggressione. Gli Stati Uniti per anni hanno ritardato e ostacolato la creazione di questo tribunale, ed è stato uno dei sette paesi che si sono rifiutati di riconoscere il suo statuto.

Paradossale che gli Stati Uniti accusino Putin e altri loro nemici geopolitici di “crimini di guerra” e persino di “genocidio” nel momento stesso in cui rifiutano l’autorità della CPI e rifiutano di riconoscere la sua giurisdizione nei riguardi dei propri leader politici, militari e su qualsiasi loro combattente.

Le guerre promosse dagli Stati Uniti negli ultimi trent’anni –Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen, Libia (e altre ancora) – sono state tutte, secondo la definizione dei principi di Norimberga, guerre di aggressione pianificate. La violazione dei Principi di Norimberga è stata codificata come politica statunitense nella Strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush nel 2002, che affermava il diritto degli Stati Uniti di intraprendere azioni militari unilaterali contro altri paesi pur in assenza di prove credibili che ciò fosse per autodifesa.

Washington ha dichiarato che non era più necessario soddisfare lo standard storicamente stabilito, nato dalle sanguinose esperienze di due guerre mondiali, che la minaccia di un attacco imminente era necessaria per giustificare l’azione militare. Affermare di aver percepito la possibilità di una minaccia era motivo sufficiente per giustificare la guerra e l’invasione di un Paese. La guerra diventava il nudo strumento della politica.

L’adozione della dottrina della “guerra preventiva” nel settembre 2002 e la sua attuazione nel marzo 2003 con l’aggressione contro l’Iraq, peraltro con “prove” costruite a tavolino sulle armi di distruzione di massa, rappresenta il ripudio inequivocabile da parte degli Stati Uniti dei principi giuridici che furono fatti valere contro i capi nazisti a Norimberga.

Washington ha ridotto in macerie interi Paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale, provocando centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi, con corollario di torture ad Abu Ghraib e Guantanamo, bombardamenti con droni di bambini in gioco, villaggi rasi al suolo da missili di precisione, Falluja bruciata con fosforo bianco e profughi annegati nel Mediterraneo. Eccetera.

Ognuna di queste guerre è stata un crimine contro la pace. Nessuno di questi paesi ha rappresentato una minaccia, nemmeno indiretta, per gli Stati Uniti. Non si potrebbe chiedere una definizione di guerra di aggressione più da manuale di quelle lanciate da Washington negli ultimi trent’anni.

I mass media americani ed europei, i loro proprietari e i giornalisti che li dirigono, sono complici di questi crimini. Non hanno mai contestato le affermazioni del governo statunitense o inglese, ne hanno invece avvallato e strombazzato i pretesti, suscitato frenesia e isteria di guerra nel pubblico, spesso con ferocia hanno esaltato l’uso dei bombardamenti, minimizzato o nascosto le vittime civili.

Prendiamo come rigoroso standard di valutazione il metodo adottato per Putin. Verifichiamo lo stesso standard però anche per ogni presidente americano degli ultimi trent’anni. Ne viene fuori che ognuno di loro è stato un criminale di guerra.

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