Martedì 15 settembre 1812, Napoleone entrò in Mosca e prese alloggio in un palazzo del Cremlino, già residenza degli zar fino a quando Pietro il Grande non trasferì la sede della capitale sul Baltico.
Meno di 10 giorni prima, a Borodino, un Napoleone stanco e fiacco si era fatto sfuggire una vittoria netta e decisiva rifiutandosi di gettare al momento opportuno le sue truppe di riserva nella battaglia. Un errore che avrà conseguenze fatali per la campagna in corso e per tutto ciò che ne seguì.
Mosca era una città molto vasta, con molte centinaia di palazzi “come non ce n’era uno solo a Parigi”. Sontuosi e intatti nelle loro ricchezze erano stati abbandonati dai loro proprietari in fretta e furia. Le descrizioni dei testimoni francesi di quell’occupazione non lasciano dubbi in proposito: colpiva di quelle dimore lo sfarzo dell’arredamento, le gallerie di dipinti alla maniera di Watteau o di Boucher, le molte biblioteche fornite soprattutto di edizioni di lusso, di testi classici medievali, molte opere in francese, quindi le serre e i giardini, i tubi dei caloriferi graziosamente disposti, le splendide sale da bagno, i teatri privati “grandi quanto quelli pubblici”.
La gran parte dell’armata francese era acquartierata attorno alla città. Napoleone aveva fatto divieto, come solito, di saccheggio. Il maresciallo Édouard Mortier, duca di Treviso, cui era stato affidato il governo della città, ne avrebbe risposto personalmente. Questo divieto fu grossomodo rispettato all’inizio. Il saccheggio poteva essere punito facilmente con la fucilazione. In passato, solo nel caso della città di Pavia, Napoleone aveva concesso alle sue truppe il saccheggio per 24 ore, ma lo revocò dopo tre ore.
Come ebbe a dettare a Las Casas, Napoleone aveva meditato a lungo sul tema del saccheggio: “Sono stato messo più volte nelle condizioni di dover gratificare così i miei soldati, e l’avrei fatto se l’avessi trovato vantaggioso”. Un esercito dedito al saccheggio diventa ben presto incontrollabile.
L’imperatore dei francesi quella prima notte non dormì al Cremlino che per poche ore. Fu costretto alla fuga da Mosca e a rifugiarsi nel bizzarro castello di Petrovskoe, ad alcune leghe dalla città.
A Mosca, la situazione era precipitata quella notte in poche ore. In alcuni quartieri, già dal giorno prima, avevano cominciato a divampare degli incendi sulla cui origine nessuno al momento aveva posto interesse. La sera del 15, s’alzò un vento autunnale, con raffiche impetuose e con cambi di direzione repentini. Si comprese ben presto che gli incendi che stavano devastando ormai tutta la città erano stati appiccati da squadre di piromani secondo un piano e ordini precisi.
Impossibile spegnere gli incendi o anche solo tentare di circoscriverli. Le pompe dell’acqua erano fuori uso, le corde dei pozzi tagliate. Pattuglie d’incendiari percorrevano la città. Le truppe francesi rimaste in città, prive di buona parte dei loro comandanti, incaricate della missione impossibile di spegnere incendi di tali proporzioni, si scatenarono in un feroce saccheggio dai tratti tragicomici, laddove gli stessi soldati si uccidevano tra loro per accaparrarsi il bottino, a volte costituito solo da vino e acquavite.
Napoleone rientrò nella capitale russa incenerita il 18 di settembre. Pioveva.
Chi aveva bruciato Mosca? Napoleone si preoccupò di scagionare la sua armata dall’odioso crimine. Sapeva bene che sarebbe stato facile imputargli quel misfatto. Scrisse una lettera allo zar Alessandro portando testimonianze sull’accaduto. Naturalmente la lettera non ebbe alcun seguito. Né i francesi e nemmeno Alessandro o Kutuzov avevano interesse a incendiare la città.
L’ordine di liberare i detenuti dalle carceri fu dato dal governatore di Mosca, Fedor Vasil′evič Rostopčin, il quale per un certo tempo si vantò anche per iscritto di aver dato anche ordine di incendiare la città.
Nel caso ipotetico non vi fosse stato l’esodo degli abitanti dalla capitale e nemmeno il grande incendio che la distrusse, il corso degli avvenimenti successivi sarebbe stato diverso per le sorti personali di Napoleone, della Francia e dell’Europa?
Ciò che vale per la campagna napoleonica di Russia, vale anche per quella intrapresa dalle forze germaniche nel 1941, e subito prima, in diretta connessione, per quanto riguarda il ruolo di Lenin, di Trotsky e poi di Stalin, insomma della Russia sovietica. Quale destino alternativo sarebbe stato possibile nella Russia del Novecento, con quali esiti per l’Europa e il mondo intero?
Tutti i processi storici dipendono dalle leggi della necessità e dalla casualità degli infiniti movimenti dei singoli soggetti che vi agiscono, nelle conseguenze spesso da nessuno cercate e volute. La casualità diventa, in questo senso, causalità, e si manifesta producendo complessi fenomeni storici che comportano la necessità, sempre relativa e mai assoluta, e tutto ciò diventa insieme la base dello sviluppo storico come processo globale, continuo e senza sosta.
Sta di fatto che storicamente né l’Inghilterra, né la Russia, si arresero all’imperialismo della Spagna, della Francia e della Germania. Fu per molto tempo imperialismo anche quello britannico e quello russo, con la differenza che la Russia, ereditando la forza nucleare dell’ex impero e mantenendo finora salda una propria dignità di nazione, non si è ancora arresa e assoggettata all’imperialismo americano.
Il dominio statunitense sul pianeta è il motivo principale e reale della guerra attuale per procura, dietro cui si celano interessi assai prosaici. Sarà motivo sufficiente e scatenante di altri conflitti che in futuro gli Stati Uniti sapranno minacciare e istigare in nome della libertà e della democrazia.