giovedì 16 luglio 2020

L'inquilino della lampadina accanto



La Rivoluzione d’ottobre nel suo cammino rovesciò completamente tanto i modi di pensiero quanto i livelli della vita quotidiana del cittadino sovietico, le sue abitudini, soprattutto quelle più intime e domestiche. Con ciò svaniva la sua personalità e con essa quelle che fino a poco tempo prima erano state le sue idee e profonde convinzioni.

«Finché l’ordine delle cose aveva permesso ai privilegiati di fare stranezze e capricci a spese dei non privilegiati, come era stato facile prendere per originalità e per segno di carattere la stravaganza e il diritto all’ozio di cui la minoranza godeva, sicura della pazienza della maggioranza!
Ma, appena la massa degli umili si era sollevata e i privilegi erano stati soppressi, come tutti erano rapidamente sbiaditi, come avevano rinunciato senza rimpianto a idee proprie e originali che evidentemente non avevano mai avuto!».

Il brano è tratto dalla prima parte de Il dottor Živago, nel capitolo intitolato L’accampamento di Mosca. Fu naturale che la letteratura si facesse interprete e testimone del particolare momento storico. Che la città di Mosca durante la guerra civile fosse diventata un grande accampamento, dove la coabitazione nello stesso alloggio di persone non legate da legami familiari, fosse diventata la regola, molti di noi possono rammentarlo proprio per la scena del film ispirato al romanzo omonimo, in cui l’ampia dimora signorile della famiglia Živago viene destinata ad abitazione di numerose famiglie.

Non è un caso che il senso comune ci presenti la coabitazione in Russia come uno dei realia più riconoscibili della società sovietica.

Quello della coabitazione nelle grandi città russe non era un fenomeno nuovo. Una prima crisi degli alloggi è presente già dal 1880 e fino agli anni precedenti la rivoluzione, caratterizzati da una grande industrializzazione e da un massiccio spostamento di manodopera dalle campagne verso le città. Di qui la rapida urbanizzazione e il deterioramento delle condizioni abitative. I nuovi cittadini, non potendosi permettere un appartamento, e spesso nemmeno una camera, erano costretti ad affittare angoli o addirittura posti letto, che potevano essere a loro volta condivisi.

Paradossalmente proprio con la rivoluzione e la guerra civile la crisi abitativa cominciò ad attenuarsi, poiché il flusso degli abitanti si invertì, tornando verso le campagne. Questa situazione durò solo qualche anno, poi il flusso di forza lavoro verso le città riprese e il problema degli alloggi s’impose nuovamente. Il numero degli alloggi a disposizione non poteva essere assolutamente sufficiente ad accogliere i nuovi abitanti, tanto più che il governo aveva fatto sgombrare le cantine e le soffitte, ritenute ora prive dei requisiti minimi di abitabilità.

Il governo rivoluzionario aveva abolito il diritto di proprietà: nel 1918 l’intero patrimonio immobiliare si trovava interamente nelle mani dello Stato che ne poteva disporre. Ed ecco che quando trionfa un certo tipo d’ideologia, vuoi neoliberista o sedicente comunista, è inevitabile che la materia della vita si trasformi corrispondentemente.

Si cercò di ridistribuire il fondo abitativo, e i kommunalki (alloggi in coabitazione) divennero la norma. La politica di “compattazione” nelle case signorili fu prospettata inizialmente come soluzione temporanea, e poi adottata per tutte le altre abitazioni. Fu stabilito uno spazio pro capite di 9 m². È facile immaginare lo choc culturale e adattativo provocato de questa pratica che metteva insieme nella stessa abitazione persone tra loro estranee, che dovevano vivere e gestirsi negli spazi comuni con abitudini e culture diverse.

Era opportuno in tale situazione di grave penuria di alloggi requisire le grandi dimore e altri immobili, ma questi andavano poi suddivisi per unità abitative, e, pur mantenendo degli spazi in comune, dotarle di servizi separati per le singole famiglie. Si puntò invece a “riformare le coscienze” e ripensare gli spazi, in particolare quelli privati, in modo che anche l’intimità fosse costantemente sotto l’orecchio attento e vigile del vicino, cioè di un perfetto estraneo.

Tutto ciò fu vissuto in modo spesso drammatico, e divenne conseguenza che i luoghi dai quali ci si tenesse per quanto possibile più lontani fossero proprio gli ambienti in comune e di passaggio, come cucine e corridoi. È facile immaginare che quel sedicente comunismo, portato ad estremi perfino ridicoli e che avrebbe fatto inorridire due borghesi come Marx ed Engels, imponesse alcune poco felici modifiche alla psicologia di ciascuno degli interessati.

Aveva dunque ragione Walter Benjamin, di cui ieri ricorreva la nascita, a dire che il bolscevismo ha eliminato la vita privata (*).

Una delle principali forme di difesa, in una situazione del genere, si concretizzava in un attaccamento agli oggetti di uso personal, che sarebbe facile per noi definire maniacale e feticistica. Pensiamo solo a quelli della propria toilette! In quelle coabitazioni forzate scaturivano furibonde liti e ostilità, anche per l’uso di un pezzo di sapone, o per la lampadina della luce elettrica.

La descrizione di questi litigi e anche di vere e proprie risse, che hanno origine dalla rivendicata proprietà degli oggetti più comuni, è frequentissima anche nei racconti di Michail Zoščenko, per esempio in La tregua estiva e Gente nervosa, in cui le discussioni vertono sul pagamento della bolletta della luce:

«Certo, possedere un appartamento proprio, separato, come la metti la metti indica una certa grettezza piccolo borghese.
Bisogna vivere in armonia, in una famiglia collettiva, e non rinchiudersi nella propria fortezza familiare.
Bisogna vivere in un appartamento in coabitazione. Ogni cosa è sotto l’occhio di tutti. C’è con chi parlare. Consigliarsi. Fare a botte.
Certo, ci sono anche delle imperfezioni.
Non sai come fare i conti. Quanto prendere e da chi.»

Il maggior problema, che scatenava risse continue, era infatti connesso al pagamento delle bollette della luce, per quanto il costo dell’energia elettrica domestica all’epoca fosse molto contenuto. Non era tanto una questione di denaro, rileva Noemi Albanese in un suo articolo al riguardo, ma di principio, perché “se siamo tutti uguali e la nostra società è la migliore nel mondo in quanto mossa da criteri di assoluta giustizia, tanto più è necessario essere giusti e uguali nei pagamenti”.

“Così, in alcune abitazioni un inquilino sorvegliava l’uso della corrente, in altre s’installavano tanti contatori e campanelli quanti erano gli inquilini, in altre ancora ognuno possedeva una lampadina che avvitava e svitava a seconda delle occorrenze” (**).

(*) Immagini di città, Einaudi, 2007, p. 32.

(**) Noemi Albanese, La fine della casa e dell’utopia, in: Slavia, 2, aprile/giugno 2020. Dal suo articolo ho preso spunto ed è sua la traduzione dal russo del brano tratto da Nervnyye lyudi (Gente nervosa) di Zoščenko e qui proposto.

2 commenti:

  1. Se pensiamo a quanto facilmente si rinunci alla propria privacy usando i social network... e volontariamente!
    Pietro

    RispondiElimina
  2. Marx ed Engels in soffitta....


    .....tanto più che il governo aveva fatto sgombrare le cantine e le soffitte, ritenute ora prive dei requisiti minimi di abitabilità.

    E qui sta il punto,(forse anche la virgola)

    Come ben saprai, cara Olympe, nei primi anni 60 nella Torino della Fiat, le soffitte furono riempite di posti letti a pagamento con i cessi in comune nei ballatoi. (cosa però abbastanza comune in altre abitazioni all'epoca a quasi 50 anni dalla "rivoluzione" nella Italia dem..!
    Sì il cesso in comune accomuna !
    Rivedo proprio in questi giorni vecchissime fotografie del paesello mio,sarà il bianconero ma è desolante il quadro dei primi anni 20.
    Oltre ai cessi in comune la miseria è comune.
    Non trovo i dati della epidemia di "Spagnola", conosco però quella di tifo.

    caino

    RispondiElimina