Durante il Regno d’Italia napoleonico (1805-1814), non meno che in altre epoche precedenti e successive, le popolazioni interessate si lamentavano per il peso delle imposte. Il dipartimento con il più alto numero di violazioni annonarie, nel periodo 1807-1811, fu quello del Reno, dunque la grande provincia bolognese, seguito dal Basso Po e poi quello del Serio. Non mancarono insurrezioni popolari, come quelle del 1809, a seguito della nuova tariffa daziaria, ma soprattutto causate dalle “inopportune modalità di esazione” (*). Il carico medio delle imposte per abitante era di circa venti lire annuali per lo Stato, alle quali occorreva aggiungere le gabelle locali, ad esempio per Milano una decina di lire. Un carico fiscale pro capite tutto sommato leggero rispetto a quello che si deplora oggi (soprattutto da parte di chi le imposte le evade), tanto che Napoleone così scriveva al viceré Eugenio nel 1806: «Vorrebbero, in quel paese, l’impossibile: pagare poche tasse, avere poche truppe [di leva], ed essere una grande nazione; tutto questo è chimerico». I milanesi risposero così: la statua di San Bartolomeo scorticato, nel Duomo, si ritrovò ornata della scritta “Regno d’Italia” (**).
(*) Emanuele Pagano, Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone, Carocci, pp. 215 e ss..
(**) Alain Pillepich, Napoleone e gli italiani, il Mulino, p. 86.
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