Dopo quasi cinque giorni di negoziati e una girandola di numeri il Consiglio europeo ha annunciato ieri mattina che è stato raggiunto un accordo sul “Piano per la ripresa europea” da 1824 miliardi complessivi (in prezzi 2018), che ridisegna il quadro finanziario pluriennale 2021-27. L’accordo fissa a 1074 miliardi la quota del “vecchio” quadro finanziario pluriennale 2021-27, ritoccando di poco al ribasso la proposta della Commissione del 27 maggio scorso (1100 miliardi). A questi si aggiungono i 750 miliardi del nuovo Recovery Instrument, Next Generation EU.
Ed è su quest’ultimo che si appunta l’attenzione dei media: un programma di incentivi finanziari che incanala un mucchio di miliardi verso gli Stati, quasi universalmente salutato come “storico” e un segno di solidarietà europea. Il presidente francese Emmanuel Macron ha twittato: “Un prestito comune per rispondere alla crisi in solidarietà e per investire nel nostro futuro”. Il primo ministro del Partito socialista spagnolo Pedro Sanchez lo ha definito “un autentico piano Marshall”. Giuseppe Conte è stato più enfatico ancora: “L’Europa è stata all’altezza della sua storia, della sua missione e del suo destino”.
L’opposizione a un accordo inizialmente promosso da Berlino e Parigi proveniva dai più ricchi paesi del nord Europa, in particolare Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Austria, che inizialmente respingevano qualsiasi emissione di debito comune poiché sarebbe andato in maggior proporzione ai paesi dell’Europa meridionale, principalmente all’Italia (quella del bonus vacanze e monopattini) e alla Spagna.
Un accordo è stato raggiunto solo dopo che è stata modificata la ripartizione tra trasferimenti a fondo perduto (grants), che passano dai 500 miliardi proposti da von der Leyen a 390, e prestiti (loans), che aumentano di conseguenza da 250 a 360 miliardi. Inoltre, in cambio, tutti e quattro i paesi “refrattari” hanno ottenuto ulteriori sconti riducendo i loro contributi netti annuali al bilancio dell’UE.
In base all’accordo, la Commissione europea è autorizzata per la prima volta a prendere prestiti direttamente dai mercati finanziari per conto di tutti gli Stati membri dell’UE.
Come dopo il crollo del 2008, l’accesso ai fondi è legato a “riforme strutturali”. Gli Stati membri devono presentare piani di riforma nazionali all’UE. Se uno stato membro ritiene che le politiche di austerità non procedano abbastanza rapidamente in un altro Stato, può imporre un “freno di emergenza” sui fondi. Il freno è limitato a un massimo di tre mesi, mentre la Commissione europea decide se le “riforme” vanno abbastanza lontano. Facile prevedere che per l’Italia sarà uno stop and go.
L’Italia porterà a casa quasi il 28% delle risorse messe a disposizione (riceverà circa 82 miliardi di euro in sovvenzioni e 127 miliardi di euro in prestiti) mentre i Paesi del Nord (con l’Olanda in testa) aumentano l’ammontare degli “sconti” e rinunciano al potere di veto. Pari è patta, sennonché l’Italia aumenta il proprio debito e invece alcuni altri paesi i propri risparmi.
“Un risultato che appartiene all’Italia intera“, ha detto oggi Conte. Molto bene, servono soldi e tanti, ma mi permetto di obiettare: debiti e ancora debiti che non pagherà “l’Italia intera”, ma soprattutto una parte di essa, sempre la stessa. In alternativa ci sarebbero state anche altre cose da fare, prima, ma mi rendo conto che si tratta di vexata quæstio.
Più in generale va rilevato che nel bilancio dell’accordo il programma InvestEU passa dai 31,6 miliardi complessivi della proposta von der Leyen ad appena 8,4 miliardi; il nuovo programma di assistenza sanitaria EU4Health da 9,4 miliardi a ridicoli 1,7; il Fondo per la transizione giusta da 40 miliardi complessivi a 17,5; Digital Europe da 8,2 miliardi a 6,8. Anche Horizon Europe, il principale programma di ricerca europeo, passa dai 94,4 miliardi previsti agli 80,9, con un taglio di 13,5 miliardi, pari al 14,3 per cento.
La Germania ha ottenuto ciò che voleva (e con essa la Francia), anche se molti tedeschi non vogliono capirlo. La Germania è una piccola economia a livello globale e non può resistere da sola alla Cina e agli Stati Uniti. L’accordo sui fondi costituisce quindi la base per la trasformazione a lungo termine di un ordine mondiale da bipolare in tripolare in cui l’Europa, e dunque la Germania come paese leader, possa giocare un ruolo.
In altri termini, la Germania (e con essa la Francia), irrobustendo i paesi europei più deboli, sarà meglio in grado di proteggere i propri interessi verso Cina e Stati Uniti come leader di un’Europa più forte. Ecco perché ciò che fa bene alla Germania può far bene all'Italia. Ma questo non ditelo a Salvini e Meloni, grandi statisti.
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